UNA DISCUSSIONE SERRATA CON IL DIRETTORE DELLA “RIVISTA GIURIDICA DEL LAVORO”, ORGANO DELLA CGIL, E IL RESPONSABILE PER L’ECONOMIA DEL PARTITO DEMOCRATICO SUL MODO MIGLIORE PER SUPERARE IL DUALISMO DEL NOSTRO MERCATO DEL LAVORO
Tavola rotonda con la partecipazione di Nanni Alleva, Stefano Fassina e Pietro Ichino, svoltasi il 19 maggio 2011 e pubblicata sul numero di giugno del mensile Micromega – In una nota redazionale alla fine del documento ho aggiunto alcuni dati statistici sul dualismo del mercato del lavoro italiano
Ce l’avevano presentata come la panacea di tutti i mali legati all’alta disoccupazione del mondo giovanile (e alla disoccupazione tout court). Ci avevano detto che questo era il modo davvero ‘al passo con i tempi’ per cavalcare l’onda di una economia sempre più dinamica e innovativa.
Ora che la promessa della ‘flessibilità creativa’ si è tradotta nell’inferno della ‘precarietà infinita’ come uscirne? Come riformare il mercato del lavoro italiano conciliando sicurezza, diritti e competitività?
Pietro Ichino – Il tema del nostro dibattito è «Come uscire dalla precarietà?». Prima di rispondere a questa domanda e di proporre una terapia, occorre una diagnosi. Se da vent’anni ormai la sinistra su questo terreno non cava un ragno dal buco, è perché le manca una buona rappresentazione della realtà e una diagnosi della malattia. Il nostro diritto del lavoro nella sua configurazione piena – costituita dal libro quinto del codice civile integrato dallo Statuto dei lavoratori del 1970 – oggi di fatto si applica soltanto a circa una metà dei lavoratori in posizione di dipendenza sostanziale dall’azienda per cui lavorano. Per l’altra metà il diritto del lavoro è applicato o in forma molto attenuata – con delle limitazioni significative, per esempio nelle piccole imprese fino a 15 dipendenti; o nel caso delle collaborazioni autonome continuative e dei lavoratori a progetto – oppure non si applica affatto, come nel caso delle partite iva fasulle. Esistono interi comparti dell’economia italiana nei quali non si assume in forma regolare, cioè con un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato, più di un lavoratore su dieci: ad esempio nell’editoria, nei giornali, nelle case di cura, nell’edilizia. Qualche giorno fa il segretario della Fillea Cgil di Modena [Federazione italiana dei lavoratori del legno, dell’edilizia, delle industrie affini] ha denunciato il fatto che non si assumono più muratori in forma regolare: li si assume tutti con partita iva.
Ora, è vero che questa è una situazione di grave e diffusa illegalità, che andrebbe corretta applicando la legge come si deve. Però si dà il caso che i 2 mila ispettori del lavoro di cui disponiamo intervengano soltanto in un caso di abuso ogni 10 mila; e i lavoratori interessati denunciano l’abuso, ricorrendo all’autorità giudiziaria, soltanto in altri due casi ogni 10 mila. Oggi di fatto i datori di lavoro possono scegliere se applicare o no il diritto del lavoro; questo vuol dire che in una vasta zona del nostro tessuto produttivo il diritto del lavoro non c’è più.
Dire che tutte queste violazioni della legge vanno superate semplicemente applicando la legge non basta: ispettori, avvocati e giudici di fatto riescono a intervenire in meno di un caso su mille. Possiamo invocare l’applicazione più rigorosa della legge, certo; ma le cose restano come sono: metà del tessuto produttivo – e soprattutto la nuova generazione dei lavoratori – resta di fatto fuori dall’area di applicazione rigorosa e integrale del diritto del lavoro.
Stefano Fassina ha avanzato una proposta che è stata fatta propria dal Partito democratico e che è sostanzialmente incentrata sull’aumento del costo del lavoro precario, per esempio attraverso il pareggiamento dei contributi previdenziali fra contratti «atipici» e contratti tradizionali. Va benissimo, è una proposta che – se riusciamo a escludere i veri lavoratori autonomi – condivido. Ma certamente non basta a risolvere il problema, perché a determinare la «fuga dal diritto del lavoro» non è certo soltanto una modesta differenza di contribuzione previdenziale. È la possibilità di non applicare la normativa in materia di licenziamento che costituisce un potente incentivo economico a ricorrere alla simulazione della collaborazione autonoma o comunque alla forma del lavoro precario da parte delle imprese.
Se vogliamo superare la situazione che ho descritto – ovvero l’iniquo dualismo fra garantiti e non garantiti – dobbiamo innanzitutto ridefinire la linea di confine fra l’area in cui il diritto del lavoro si applica e quella in cui non si applica, in modo che non occorrano avvocati, magistrati e ispettori per garantire l’effettività dell’applicazione universale del diritto del lavoro. Come primo punto di una possibile riforma occorre dunque individuare i requisiti della fattispecie di riferimento, cioè le condizioni per l’applicazione del diritto del lavoro, in modo che esse siano individuabili facilmente, immediatamente: per esempio, in modo che esse siano rilevabili direttamente dai tabulati dell’Inps o dell’erario. Fatto questo, occorre disegnare un diritto del lavoro che sia realisticamente applicabile in modo universale in tutta l’area così definita. Oggi, invece, abbiamo una linea di confine di difficile e incerta individuazione, e un diritto del lavoro che, nella sua interezza, non è realisticamente suscettibile di applicarsi in modo universale, in tutta l’area del lavoro dipendente. Se non affrontiamo con coraggio questi due nodi cruciali, ci terremo il dualismo del mercato ancora per decenni.
Stefano Fassina – Innanzitutto vorrei fare una precisazione che è importante anche da un punto di vista politico: noi tre che partecipiamo a questa discussione condividiamo un obiettivo di fondo, e cioè che la precarietà vada combattuta e superata. Certamente ci possono essere delle divergenze fra noi sulle «analisi teoriche» preliminari e sugli strumenti più idonei a raggiungere l’obiettivo. Ma il fine ci accomuna tutti. È importante ribadirlo soprattutto di fronte all’operato di un governo che in questi tre anni con il ministro Sacconi ha lavorato per aumentare la precarietà del mercato del lavoro e far regredire i diritti dei lavoratori. Noi siamo spesso molto bravi a sottolineare le differenze che ci dividono all’interno del campo del centro-sinistra, ma dobbiamo anche ricordarci delle cose che ci uniscono e che costituiscono le vere distinzioni di fondo rispetto all’idea di società coltivata dai nostri avversari politici.
Detto questo – e qui mi rendo conto di scontare il mio background da economista e non da giurista, che invece accomuna i miei due interlocutori – io credo che la questione dell’occupazione, cioè della quantità e della qualità dell’occupazione, sia fondamentalmente una questione «macroeconomica» e non una questione «microeconomica» come siamo stati abituati a pensare negli ultimi vent’anni. Per questo motivo tendo ad attribuire meno rilevanza ai problemi della regolamentazione: non che li ritenga trascurabili, ma attribuisco loro una rilevanza, diciamo così, di «secondo ordine» rispetto alla cornice macroeconomica.
Se noi guardiamo ai dati, l’interpretazione del mercato del lavoro fondata sul famoso «dualismo» – quella in sostanza appena accennata da Ichino – regge poco.
La devastante crisi che ci ha investito è stata preceduta da un trentennio in cui il lavoro, in particolare il lavoro economicamente dipendente, al di là della configurazione giuridica che ha assunto, è arretrato sia in termini di retribuzione, che in termini di diritti e di status sociale. I dati dell’Ocse sull’aumento della disuguaglianza nel mercato del lavoro – e non tra giovani e meno giovani, ma tra un 90 per cento di lavoratori normali e un 10 per cento in condizioni di reddito più elevato – sono chiarissimi. In Italia abbiamo visto che dall’inizio degli anni Novanta le retribuzioni reali della stragrande maggioranza dei lavoratori dipendenti, quelli che la letteratura scientifica considera «garantiti», sono rimaste sostanzialmente ferme quando non sono addirittura regredite.
Il punto fondamentale che dobbiamo comprendere è che la precarietà dei giovani è la versione più acuta di un malessere che ha riguardato tutto il mondo del lavoro. I giovani non sono altro che la punta dell’iceberg di un fenomeno generale e strutturale: se noi non riusciamo a ridare dignità al lavoro nel suo complesso non riusciremo nemmeno a sanare quelle patologie sociali più stridenti che al degrado del lavoro sono comunque legate.
L’elemento della rigidità del mercato del lavoro e i connessi problemi della sua regolazione che tanta attenzione hanno ricevuto negli ultimi vent’anni sono a mio avviso temi assolutamente «sovrastimati». E infatti da un paio di anni la stessa Ocse, che aveva dedicato numerosi studi, e con grande enfasi, a questi argomenti, ha corretto decisamente il tiro. Se noi guardiamo ai dati relativi all’Italia – continuo a insistere sulla necessità di rimanere ancorati ai dati – vediamo che c’è una concentrazione enorme di contratti precari nelle microimprese (quelle tra 1 e 5 dipendenti), le quali hanno una quota di questi contratti doppia e spesso tripla rispetto alle imprese sopra i 15 dipendenti che applicano l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori.
Questi dati indicano chiaramente che il problema non è la difficoltà al licenziamento. Il problema è il costo del lavoro, che è enormemente più basso nei contratti precari. Noi siamo uno dei pochissimi casi tra i paesi sviluppati che fa pagare meno il lavoro precario rispetto al lavoro stabile. Quindi questa è la fotografia vera della realtà: lo ripeto, l’interpretazione basata sul «dualismo» non regge alla prova dei numeri e dei fatti.
Piergiovanni Alleva – La mia posizione forse potrà sorprendere qualcuno, ma io sono convinto che il problema del precariato è principalmente un problema di illegalità diffusa. In Italia il 70-80 per cento delle assunzioni avviene ormai con contratti precari – di vario tipo, ma tutti unificati dal fatto di essere contratti a termine – oppure sotto la forma di un finto rapporto autonomo. Sono tutti casi di illegalità, perché non è possibile che il 70-80 per cento delle occasioni di lavoro in un paese siano obiettivamente volatili e a termine.
La prima cosa della quale dobbiamo convincerci – o meglio della quale ci ha già convinto l’esperienza – è la falsità della spiegazione del precariato che ci è stata fornita in maniera acritica dai media. Secondo questa vulgata l’economia moderna sarebbe un’economia fatta di occasioni che compaiono e scompaiono, di opportunità volatili che bisogna sapere cogliere, di piccole nicchie di «occupabilità transeunte»; per cui il precariato sarebbe un destino ineludibile e le tutele sociali dovrebbero essere costruite fuori dal rapporto di lavoro. Sono tutte falsità, come ben sanno tra l’altro tutti gli avvocati del lavoro: a nessuno capita mai di impugnare un singolo contratto a termine o un contratto di somministrazione isolato; il precario è sempre una persona che di rapporti precari ne ha collezionati moltissimi, e per lo più sempre con la medesima azienda. Siamo ormai di fronte a un’illegalità dichiarata, quasi ostentata.
Sotto casa mia c’è un’agenzia di lavoro interinale. L’altro giorno passandoci davanti ho visto un cartello relativo a una posizione di lavoro normalissima – se non ricordo male si trattava di un posto da banconiere – in cui si offriva un contratto a termine eventualmente trasformabile in un contratto di lavoro a tempo indeterminato. Qui fin dal principio si dichiara candidamente che non si tratta di una occasione di lavoro temporanea, bensì di un posto normale per il quale si utilizza comunque un contratto a termine. E quel contratto lo si potrà utilizzare una, due, tre, quattro volte fino a quando al datore di lavoro non verrà voglia di assumere a tempo indeterminato.
Personalmente posso dire che nella mia attività di avvocato non ho mai visto un contratto a termine, un contratto a progetto o un contratto di lavoro somministrato che non fosse impugnabile. È quasi impossibile perdere una causa su questo, proprio perché si tratta di contratti nella quasi totalità dei casi illegali.
E perché si fanno allora? Per un motivo molto semplice: perché la moneta cattiva scaccia quella buona. La moneta cattiva è costituita da quei contratti che danno un doppio vantaggio alla parte datoriale: minori costi sommati alla possibilità di mantenere in una condizione di paura, di sottomissione, di timore il lavoratore.
Ichino dice che è la libertà di licenziare che fa scegliere i contratti precari ai datori di lavoro. Fassina dice che è il forte risparmio contributivo e non solo contributivo. Sono entrambe interpretazioni molto parziali che non colgono l’essenzialità del fenomeno.
Se prendiamo atto che non è vero che l’80 per cento delle occasioni di lavoro nel nostro sistema economico sono obiettivamente temporanee e volatili (saranno in realtà il 10 forse il 15 per cento), dobbiamo riconoscere che ci troviamo di fronte a un gigantesco problema di illegalità.
E l’illegalità come si può combattere? Certamente non con il Collegato lavoro 2010 approvato dal governo, secondo il quale tutte le illegittimità di tutti i contratti precari passati sarebbero state automaticamente cancellate con un colpo di spugna (anche se con la mobilitazione che è seguita all’approvazione di quel provvedimento abbiamo ottenuto lo slittamento al 31 dicembre 2011 delle nuove regole sull’impugnazione dei licenziamenti). La cosa peggiore della nuova legislazione è che in futuro il lavoratore precario si troverà nell’impossibilità di ribellarsi, perché una norma assolutamente incostituzionale dice che il lavoratore precario avrà 60 giorni dalla fine del rapporto di lavoro per impugnarlo.
È ovvio che il lavoratore precario a cui è appena scaduto il contratto – a meno che il datore di lavoro non abbia espresso esplicitamente la volontà di allontanarlo per sempre – vive nella speranza di ottenere un nuovo contratto. E dunque si guarda bene dal mandare entro 60 giorni una lettera di impugnazione. Questa è una norma perfida che il governo di centro-destra ha emanato proprio contro i lavoratori precari!
Altra cosa: se un ispettore del lavoro va in un’azienda e trova dei contratti a termine fasulli, può fare qualcosa? Ce lo siamo mai chiesto? No, non può fare assolutamente niente. Non ha nessun potere per dire: questo contratto è a termine ma non c’è nessuna specifica esigenza che lo giustifichi, dovete trasformarlo a tempo indeterminato. L’ispettore del lavoro è semplicemente disarmato: ho fatto grande esperienza di questo fatto anche recentemente. Ecco un aspetto sul quale si potrebbe e si dovrebbe intervenire.
E ancora: la struttura dell’occupazione di un’impresa non è conoscibile. A un centro per l’impiego puoi chiedere quanti lavoratori a termine ha un’impresa soltanto dimostrando qual è l’interesse processuale specifico nei termini della legge sulla trasparenza amministrativa. Rendere pubbliche queste informazioni gioverebbe in modo determinante per combattere e disincentivare le situazioni di illegalità. Oggi c’è un segreto praticamente impenetrabile per lo stesso ispettorato e per i sindacati. Se ci fosse un’anagrafe del lavoro veramente pubblica non credete che avrebbe un «effetto prevenzionistico» enorme? Pensate che i datori di lavoro assumerebbero l’80 per cento dei propri lavoratori con contratti a termine come fanno ora? Lo farebbero se sapessero che in ogni momento, con un semplice colpo di mouse sul computer, qualcuno – qualche «antagonista sociale» di ogni tipo – può verificare la struttura del lavoro nella sua azienda? E se tali anomalie potessero essere represse dall’ispettorato?
Io credo di no. C’è un problema grandissimo di illegalità e manca la volontà politica di risolverlo. Non mancherebbero certo gli strumenti.
Ichino – Prima di tutto due brevi repliche a Stefano Fassina e a Nanni Alleva sulla parte «descrittiva», sull’analisi della situazione esistente. A Fassina dico: è giustissimo rilevare che il mondo del lavoro dipendente è stato investito da un peggioramento complessivo e generalizzato. Ma c’è anche un problema di grave disparità di trattamento in seno al lavoro dipendente. Basti considerare che gli 850 mila lavoratori che hanno perso il posto nel corso della grande crisi degli ultimi due anni sono quasi tutti collocati nell’area dei lavori di «serie B» (dipendenti di aziendine appaltatrici di piccole dimensioni), o «di serie C» (contratti a termine o «a progetto»), o addirittura «di serie D» (partite iva fasulle, falsi stagisti e lavoro nero). Mentre i lavoratori collocati nella «serie A» certo dalla crisi non hanno tratto benefici, ma nella stragrande maggioranza dei casi non hanno rischiato il posto più di quanto lo rischiassero prima. C’è sempre l’impresa che chiude e che licenzia anche i lavoratori stabili, ma questo non è accaduto in misura molto superiore rispetto al passato: tutta la crisi si è scaricata sulla metà dei lavoratori non garantiti. Questi, poi, sono i lavoratori sui quali, proprio perché precari, non si investe in formazione, col risultato che restano professionalmente sempre più deboli. Quanto alla notazione di Stefano circa la maggiore concentrazione dei lavoratori autonomi nelle imprese con meno di 16 dipendenti rispetto a quelle della classe superiore, temo che qui ci sia una lettura sbagliata dei dati, dovuto a un equivoco terminologico: tra i 5.600 “lavoratori indipendenti” che l’Istat ascrive alle imprese con meno di 16 dipendenti c’è una metà circa di “partite Iva” che l’Istat considera come aziende a sé stanti con un unico addetto, ma sotto le quali si nascondono falsi lavoratori autonomi impiegati in modo continuativo per un unico committente di dimensioni ovviamente maggiori [su questo punto rinvio alla nota redazionale (*) collocata alla fine del documento]. Un problema grave di dualismo c’è davvero; ed è un problema che i giovani in particolare vivono sulla loro pelle in modo pesantissimo in questo periodo.
Alleva, invece, denuncia un’illegalità diffusa, falsamente giustificata da una pretesa volatilità del lavoro che nella maggior parte dei casi non ha ragion d’essere; occorrerebbe dunque – dice Alleva – intervenire con strumenti giuridici e amministrativi, di carattere preventivo e repressivo, capaci di dare piena e reale attuazione al diritto del lavoro vigente. Ora, che parte del problema sia costituita da un’illegalità diffusa che va contrastata con decisione, siamo d’accordo. Ma non si può chiudere gli occhi sul problema dell’inadeguatezza della nostra legislazione, vecchia di quarant’anni, rispetto a una realtà che è profondamente cambiata. Lo Statuto dei lavoratori è stato scritto in un’epoca in cui nelle aziende non solo non c’erano ancora i computer e internet, ma non c’erano neanche le fotocopiatrici e i fax. Era un’epoca in cui era normale entrare in fabbrica a 16, 18, 20 anni e restarci per i successivi 40 facendo lo stesso lavoro, producendo lo stesso prodotto sempre nello stesso modo e nello stesso luogo. Il ritmo di obsolescenza delle tecniche applicate si misurava in decenni, così come in decenni si misurava la vita normale delle aziende. Oggi è normale che un’azienda abbia una vita inferiore ai dieci anni; e il ritmo di obsolescenza delle tecniche applicate si misura in mesi. In un quadro di questo genere bisogna incominciare a considerare normale che una persona nel corso della sua vita professionale si possa trovare a dover cambiare lavoro molto più frequentemente di quanto non accadesse a un giovane che si affacciava sul mercato del lavoro quarant’anni fa.
Se non affrontiamo questo problema di adeguamento della struttura delle tutele e delle protezioni a una realtà radicalmente cambiata, il gap tra la legislazione vigente e le esigenze effettive del tessuto produttivo non può che provocare tensioni e incongruenze che poi si traducono in deficit di effettività della legge, alimentando quella illegalità diffusa che già costituisce una non invidiabile caratteristica del nostro sistema.
Detto questo, su una cosa mi pare potremmo trovarci tutti d’accordo: la necessità di definire la fattispecie di riferimento del diritto del lavoro, cioè la sua area di applicazione, in modo da rendere più facilmente «imponibile» – enforceable direbbero gli anglosassoni – la disciplina che riteniamo debba essere applicabile a tutti. In un mio libro del 1996 [Il lavoro e il mercato, Mondadori] proponevo di individuare la figura di riferimento del diritto del lavoro nella «dipendenza», invece che nella «subordinazione». Questo per due motivi: innanzitutto perché la nozione di «dipendenza», più ampia di quella di «subordinazione», corrisponde molto più precisamente alla situazione nella quale vi è necessità di correzione di uno squilibrio contrattuale tra le parti (il co.co.co. a basso reddito non ha minor bisogno di protezione di un lavoratore subordinato); inoltre perché gli elementi costitutivi della posizione di «dipendenza» del lavoratore sono identificabili molto più agevolmente e immediatamente di quelli della «subordinazione».
Il secondo passaggio dovrebbe essere quello di mettersi d’accordo su quale sia un ordinamento del lavoro veramente suscettibile di applicarsi in modo universale in tutta questa area più ampia, che oggi comprende circa 18 milioni e mezzo di lavoratori, a fronte dei 14 milioni di «subordinati». A me non sembra che l’ordinamento attuale, inteso nella sua interezza (libro quinto del codice civile più Statuto dei lavoratori), sia realisticamente applicabile ai 18 milioni e mezzo di lavoratori dipendenti italiani. E aggiungo che in linea teorica dovremmo ragionare non sui 18 milioni e mezzo attuali, ma sui 23 milioni di lavoratori dipendenti che potremmo e dovremmo avere in attività nel nostro paese se la partecipazione al mercato del lavoro degli italiani fosse la stessa che c’è in un paese simile al nostro per dimensioni e per ricchezza come la Gran Bretagna. Dei 5 milioni che mancano all’appello, quattro quinti sono donne. Ecco: dobbiamo pensare a un diritto del lavoro davvero capace di applicarsi in prospettiva a tutti questi 23 milioni di lavoratori, attuali e potenziali.
Davvero noi riteniamo che il nostro sistema reggerebbe a un’estensione dell’articolo 18 a tutta quest’area, a questi 23 milioni, o anche solo ai 18 milioni di lavoratori dipendenti attualmente in attività? La mia risposta, ovviamente opinabilissima, è: no.
Detto questo, la mia proposta non è di togliere l’articolo 18 a chi oggi ce l’ha, bensì di tirare una linea e stabilire che d’ora in poi tutti i nuovi rapporti di lavoro siano regolati secondo una nuova disciplina: una disciplina che possa davvero essere applicata a tutti.
Qual è la disciplina che può davvero assumere questo carattere di universalità? Pensiamo a un rapporto di lavoro in cui sia garantita una tutela piena e forte, comprendente la reintegrazione nel posto di lavoro, contro i licenziamenti discriminatori e contro i licenziamenti disciplinari ingiustificati (cioè quelli nei quali il datore di lavoro non sia in grado di dimostrare la mancanza grave commessa dal lavoratore); dove invece si tratti di licenziamento determinato esclusivamente da motivi economici od organizzativi (dunque, tutti i casi non di carattere disciplinari, nei quali il giudice non ravvisi la discriminazione), l’idea è quella di sostituire il controllo giudiziale del motivo con una costosa responsabilizzazione dell’azienda per la sicurezza economica e professionale del lavoratore nel passaggio dalla vecchia alla nuova occupazione. In concreto: per tutti un’indennità di licenziamento, pari a una mensilità per anno di anzianità, e, per i lavoratori con almeno due anni di anzianità di servizio, un trattamento complementare di disoccupazione che porti il trattamento complessivo al 90 per cento dell’ultima retribuzione per il primo anno; se entro questo primo anno la nuova occupazione non si trova, e il lavoratore ha tre anni di anzianità di servizio, indennità pari all’80 per cento per il secondo anno di disoccupazione; poi 70 per cento per l’eventuale terzo anno di disoccupazione, per i lavoratori con anzianità di servizio maggiore. Il costo di questa sicurezza diventa automaticamente un disincentivo alle decisioni di licenziamento; ma anche un forte incentivo per l’impresa ad attivare tutti i servizi di outplacement e di riqualificazione mirata, che possono servire per accorciare il periodo di disoccupazione. Questa disciplina dovrebbe essere applicata a tutti i lavoratori in una posizione di dipendenza economica, che propongo di individuare in questo modo: si considera lavoratore dipendente chiunque tragga da un rapporto di collaborazione continuativa con un’azienda più dei due terzi del proprio reddito, e ne tragga un reddito complessivo non superiore ai 40 mila euro (se uno guadagna in un anno più di 40 mila euro evidentemente gode di una posizione di potere, di forza professionale e contrattuale, tale da rendere non necessaria la protezione piena del diritto del lavoro). Questi requisiti non pongono sottili questioni giuridiche per il loro accertamento: sono rilevabili direttamente dai tabulati dell’Inps o dell’erario.
In sintesi, per tradurre in uno slogan questa proposta di riforma, la si potrebbe sintetizzare così: d’ora in poi tutti i nuovi assunti a tempo indeterminato (perché in questo quadro non si ammetterebbero più le varie forme di lavoro precario che caratterizzano il mercato del lavoro attuale, eccezion fatta per le specifiche esigenze del lavoro stagionale, o di sostituzione per malattia eccetera), tutti con le protezioni essenziali, ma nessuno inamovibile. E un forte sostegno a chi perde il posto. In questo modo la flessibilità di cui il sistema ha bisogno è ripartita su tutti e non grava soltanto sui «paria», sulla metà degli «esclusi».
Fassina – Ichino è tornato sulle gravi disparità fra lavoratori nella situazione di crisi che stiamo attraversando. Vorrei ricordare – e sono dati Istat – che tra i circa 700 mila disoccupati in più che si sono venuti a determinare dall’inizio della crisi, 300 mila erano lavoratori con contratto a tempo indeterminato e a tempo pieno; in aggiunta abbiamo circa 450 mila lavoratori con contratto a tempo indeterminato e a tempo pieno (o comunque lavoratori equivalenti) che sono in cassa integrazione a zero ore. Dunque è ovvio che la crisi si sia abbattuta con particolare violenza sui lavoratori precari e a tempo determinato, ma ha colpito pesantemente anche gli altri lavoratori.
Non credo porti molto lontano metterci a stilare classifiche su chi è più sfigato tra gli sfigati!
Il punto vero è capire che cosa succede complessivamente, perché siamo in questa situazione drammatica dal punto di vista sociale. Altrimenti rischiamo di partire dalla coda e non dalla testa del problema. Mi permetto di insistere nuovamente, e con forza, sulla dimensione macroeconomica della questione: se l’economia non cresce noi possiamo inventarci qualsiasi contratto di lavoro, abolire o viceversa estendere tutti gli articoli 18 che ci vengono in mente, insomma, fare tutto quello che vogliamo da un punto di vista giuridico, ma avremo comunque un lavoro sempre più debole, sempre più ricattabile, sempre più precario.
Se l’Italia e l’Europa non fanno politiche economiche espansive non c’è via d’uscita al pantano nel quale siamo immersi. Le cose di cui stiamo discutendo intorno a questo tavolo c’entrano molto poco con la crescita. Oggi occorrerebbero innanzitutto serie politiche di sostegno alla domanda. Se quando discutiamo di disoccupazione e di precarietà noi continuiamo a concentrare l’attenzione sulle regole del mercato del lavoro, non facciamo alcun passo avanti, rischiamo anzi di seminare illusioni tanto fra i giovani quanto fra i meno giovani.
Mi rendo perfettamente conto che il mio è un approccio molto distante dalla modalità alla quale ci hanno abituati ad affrontare la questione precarietà negli ultimi anni. Ma io credo profondamente nella necessità di un «salto di paradigma». Senza crescita – senza politiche in grado di sostenerla – rischiamo di ridistribuire semplicemente un po’ di disagio da quelli molto sfigati a quelli un poco meno sfigati.
Concretamente ciò significa battersi perché a livello europeo sia varata una politica di investimenti infrastrutturali, cioè una politica che non si limiti a sostenere la domanda facendo scavare le famose buche per poi riempirle di nuovo, ma che possa contribuire a innalzare le capacità produttiva del sistema economico continentale nel suo complesso. E poi occorrono massicci investimenti in ricerca, in innovazione e in formazione. Dunque una politica economica europea che abbandoni il tratto «mercantilista» che ha assunto sotto l’attuale guida dei governi di centro-destra e metta in campo strumenti adeguati alla gravità della situazione.
In Italia, poi, dobbiamo fronteggiare una situazione ancora più complicata, perché noi crescevamo meno degli altri già prima della crisi. Dobbiamo mettere in moto una batteria di riforme che aggredisca i nodi strutturali che soffocano la crescita da almeno un decennio; vanno riavviate le liberalizzazioni, va riformata la pubblica amministrazione, vanno sostenute le famiglie con servizi di welfare moderni (in grado anche di dare un impulso all’occupazione femminile); va data piena attuazione a quella politica industriale che Pierluigi Bersani da ministro dello Sviluppo economico aveva cominciato a delineare nel 2006 e 2007 e che poi è stata abbandonata dal governo successivo; va fatta una riforma fiscale che sposti il carico dal lavoro e dal reddito d’impresa ai redditi da capitale e alla rendita, e che inoltre recuperi un po’ di evasione fiscale, che in Italia è ben superiore rispetto alla media dei paesi europei.
Dobbiamo fare tutte queste cose, e farle in fretta, perché l’alternativa è quella di continuare ad andare lentamente a fondo. Poi non c’è dubbio che occorra riformare anche il mercato del lavoro. Su questo punto non sono d’accordo con Alleva quando dice che abbiamo a che fare solamente con un problema di legalità. Da questo punto di vista credo abbia ragione Ichino: le regole che andavano bene nel 1970 non possono andare bene nel mondo di oggi. Non sono d’accordo che la direzione di marcia debba essere esattamente quella che suggeriva lo stesso Ichino, ma non c’è dubbio che le regole vadano cambiate. Ad esempio, non è più tollerabile il fatto che possano ricevere un’indennità di disoccupazione solo coloro che usufruivano di un contratto di lavoro dipendente: dobbiamo fare in modo che tutti siano tutelati dall’indennità di disoccupazione, a prescindere dalla tipologia contrattuale con la quale si era occupati; e voglio precisare che anche un lavoratore autonomo, anche un professionista dovrebbe godere dei medesimi diritti. La stessa cosa vale per la maternità, le ferie, la malattia. E a maggior ragione per i diritti pensionistici, che nell’attuale situazione sono distribuiti in modo estremamente iniquo e irrazionale.
Ci vuole una revisione generale delle regole in direzione di un’universalizzazione dei diritti. Ma tale revisione deve avvenire dentro una politica economica che conferisca una assoluta priorità allo sviluppo.
Negli anni passati ci hanno letteralmente bombardato con la litania che dovevamo imitare modelli del mercato del lavoro molto più efficienti e dinamici del nostro. Bene, andiamoli a vedere ora questi modelli di virtù: negli Stati Uniti oggi abbiamo una disoccupazione oltre il 10 per cento, in Spagna oltre il 20 per cento (con punte del 40 per cento per quanto riguarda quella giovanile), e così anche in Irlanda. Le regole del mercato del lavoro in questi paesi sono rimaste le stesse, non è che all’improvviso sono diventate più rigide e hanno generato disoccupazione di massa. Ciò che è venuto meno è stato il motore della crescita e dello sviluppo.
Quali insegnamenti possiamo trarre da tali esperienze? Che se noi continuiamo a parlare di occupazione, di precarietà, di qualità del lavoro, concentrando l’attenzione solo sul mercato del lavoro, non riusciamo a fare alcun passo avanti. Senza crescita, senza sviluppo, non andremo verso una società del «meno ai padri e più ai figli» come auspica Ichino, ma del «meno ai padri e meno ai figli».
Alleva – Io vorrei evitare che la nostra conversazione si avviti sul «general-generico», e tanto più che incappiamo tutti in macroscopici errori metodologici.
Che l’occupazione possa crescere in virtù di opportune politiche economiche – fra cui la politica industriale e le altre cose citate da Fassina – è un dato di fatto. Ma l’occupazione può crescere sia nella forma di una «buona occupazione» che nella forma di una «cattiva occupazione». Mettere in contrapposizione politiche per lo sviluppo e regolamentazione del mercato del lavoro rimanda a un approccio metodologico per me incomprensibile e che francamente rifiuto. Tutte e due le cose sono necessarie e si sostengono fra loro. A meno che non mi si dica – come del resto moltissimi dicono – che lo sviluppo economico deve passare per una diminuzione dei diritti, ovvero che la «cattiva occupazione» fa crescere l’occupazione nel suo complesso. Io penso che questo Fassina non lo possa condividere.
Fassina: No, infatti, non è questa la mia posizione.
Alleva: E allora le linee di intervento devono essere due: sul fronte delle politiche per la crescita e sul fronte del mercato del lavoro. Quanto alla loro reciproca interazione dobbiamo chiederci: quali sono i rapporti di lavoro che aiutano lo sviluppo? Il rapporto di lavoro precario – fondato sulla paura e sulla disaffezione del lavoratore – migliora la sua produttività? Oppure è il rapporto di lavoro stabile, fondato sulla fiducia e l’investimento nel capitale umano, che contribuisce a formare lavoratori motivati ed efficienti? La risposta mi pare fin troppo ovvia. Oserei dire, per sintetizzare con una battuta, che basta vedere come si comportano i postini con un contratto trimestrale rispetto ai vecchi postini stabili: ti buttano le raccomandate nel cestino!
Passiamo ora all’obiezione che ha mosso Ichino al mio ragionamento. Ichino in sostanza mi accusa di adottare una visuale angusta, incentrata esclusivamente su un approccio «legalista» e repressivo. Io voglio solamente che il problema della legalità sia valutato nel suo giusto peso. Dico semplicemente che il fenomeno del precariato dilagante sarebbe facilmente diminuito con l’introduzione di tre misure molto semplici ed efficaci: 1) istituzione di un’anagrafe pubblica del lavoro, grazie alla quale tutti possano venire a conoscenza dei tipi di rapporti presenti all’interno di un’impresa; 2) introduzione di strumenti che permettano all’ispettorato e alle organizzazioni sindacali di intervenire nelle situazioni di palese illegalità; 3) modifica della normativa che obbliga i lavoratori a impugnare questi rapporti entro 60 giorni dalla scadenza del contratto: il limite deve essere di 5 anni.
Facciamo queste tre cose – che per altro non costerebbero una lira – e vedrete se l’anno prossimo le assunzioni a termine non cadranno dall’80 al 20 per cento!
Detto questo, io sono d’accordo con Ichino – e non da oggi – sul fatto che occorre ridefinire la fattispecie di riferimento del diritto del lavoro, del rapporto di lavoro protetto. Sicuramente dobbiamo abbandonare cose antistoriche come il concetto di «etero-direzione» quale essenza della subordinazione. Su questo siamo d’accordo.
La cosa sulla quale non riesco a seguire Ichino, e che anzi mi sorprende sentire da uno studioso molto serio come lui, è la confusione tra giustificato motivo oggettivo e giustificato motivo soggettivo.
Già oggi qualsiasi impresa che abbia anche la minima difficoltà economica o voglia fare una qualsiasi riorganizzazione produttiva – anche di quelle più odiose, a colpi di riduzioni di organico – non incontra alcun ostacolo nel licenziare. Dopo la torsione della giurisprudenza in senso neoliberista che è intervenuta negli ultimi anni il licenziamento per motivo oggettivo, ossia economico-produttivo, è, di fatto, praticamente libero.
Il famoso argomento secondo il quale l’impresa sarebbe bloccata dall’articolo 18 nel far fronte alle difficoltà economico-produttive, è una delle più colossali bugie che esistano. Gli operatori economici, e con loro gli operatori giuridici, lo sanno perfettamente.
Voglio aggiungere che l’articolo 18 è una norma fondamentale per il lavoratore, perché è il diritto che fonda tutti gli altri diritti. Il licenziamento per un motivo soggettivo, cioè come punizione per un comportamento che non ha a che fare con le ragioni produttive, insomma, il licenziato come «rappresaglia», non può e non deve essere consentito. Ecco perché l’articolo 18 dovrebbe applicarsi a tutti, altro che farlo gradualmente scomparire! Ichino parte da un’analisi condivisibile per arrivare a conclusioni del tutto opposte alle mie.
Quanto poi al licenziamento per motivi oggettivi, ossia economico-produttivi, esso ci conduce verso un altro tema cruciale: la riforma degli ammortizzatori e dello Stato sociale. Se un giudice accerta che un licenziamento non è stato avviato per motivi discriminatori – non è dunque un licenziamento disciplinare mascherato – l’impresa dovrebbe ancora incontrare il limite della cassa integrazione: e cioè non bisognerebbe permettergli di licenziare se il lavoratore non è prima passato da questa fase. Ma allora è evidente che la cassa dovrebbe essere estesa a tutti, non soltanto ai lavoratori impiegati nel settore industriale.
La proposta di Ichino si fonda su una nuova disciplina contrattuale che non prevede la protezione dell’articolo 18. Ciò significa di fatto istituzionalizzare il precariato: essere precari non significa solo avere un contratto a termine; un rapporto a tempo indeterminato liberamente risolvibile è precario quanto e più dei vari tipi di rapporto a termine. Basta andare a vedere quel che succedeva prima dell’entrata in vigore dello Statuto dei lavoratori. Prima di allora alle imprese non importava nulla di andarsi a inventare il contratto a progetto, il lavoro somministrato e il contratto a termine liberalizzato. Con l’articolo 2118 del codice civile licenziavano quando volevano anche con contratti a tempo indeterminato.
Concludendo, è vero che occorrono politiche economiche in grado di rilanciare lo sviluppo e l’occupazione, ma non è vero che il problema del mercato del lavoro viene dopo. Deve essere affrontato insieme allo sviluppo. È la buona occupazione che aiuta lo sviluppo, non la cattiva.
Ichino – Condivido pienamente l’esigenza sottolineata da Fassina di una politica per la crescita. Sono diversi anni che il nostro paese – anche senza contare la recente crisi – cresce molto meno del resto dell’Europa. Osservo però che allo stato attuale – con questa situazione delle finanze pubbliche – l’unica leva di cui disponiamo per aumentare gli investimenti produttivi e quindi aumentare la domanda di lavoro e in particolare la domanda di buoni posti di lavoro, consiste nell’apertura del sistema agli investimenti stranieri, rispetto ai quali l’Italia è invece oggi drammaticamente chiusa.
Se questo deve essere un nostro obiettivo non possiamo non chiederci perché l’Italia riesce ad attrarre così pochi investimenti dall’estero. C’entra qualcosa il nostro diritto del lavoro? Sicuramente sì, come c’entra il nostro sistema delle relazioni industriali (ma questo ultimo è un tema che esula dall’argomento della conversazione di oggi).
Quando dico che il nostro diritto del lavoro influisce sulla scarsa attrattività dell’Italia non voglio dire che la chiusura agli investimenti esteri non sia dovuta anche e in larga misura ai difetti di funzionamento delle amministrazioni pubbliche e delle infrastrutture, ai costi dei servizi alle imprese e dell’energia, alla mancanza di una cultura diffusa delle regole e della legalità. Sono tutte cose che incidono in modo considerevole. Gli operatori economici stranieri, però, ci fanno notare anche che la nostra legislazione del lavoro è intraducibile in inglese, che il nostro diritto del lavoro è sotto molti aspetti incomprensibile, non consente una risposta a domande cruciali per qualsiasi investitore. Per esempio la domanda sul severance cost: quanto costa effettuare un aggiustamento industriale? Quali costi deve affrontare un’impresa nel caso in cui debba ridurre il personale o chiudere uno stabilimento?
È vero che negli ultimi anni è intervenuto l’orientamento giurisprudenziale più «liberista», cui faceva cenno Alleva; ma basta incontrare anche una sola volta nell’arco di un intero procedimento giudiziale (il processo può vedere il susseguirsi anche di 4, 5 o 6 gradi di giudizio diversi), un giudice che la pensi in modo diverso, cioè che ritenga non sussistere giustificato motivo di licenziamento (anche perché la sua definizione è estremamente generica) ed ecco che i costi per l’impresa possono ammontare anche a molte annualità di retribuzione del lavoratore licenziato, in aggiunta alla sua reintegrazione nel vecchio posto di lavoro.
Questo rischio, questo costo ipotetico a carico dell’azienda, non è in alcun modo «predeterminabile». Se vogliamo allineare l’Italia alla media europea per capacità di attrarre investimenti esteri non possiamo non porci questi problemi, non mettere in agenda la revisione di un sistema di regole che non ha corrispondenza in alcun altro Stato dell’Unione.
La Germania ha l’ordinamento in assoluto più simile al nostro, perché anche lì vige la possibilità – ma solo la possibilità, non l’automatismo – della reintegrazione del lavoratore nel posto in caso di licenziamento dichiarato illegittimo. Ma le statistiche dicono che lì il giudice dispone la reintegrazione solo in un caso ogni venti. È questa la grande differenza fra noi e la Germania. In tutti gli altri paesi europei la determinazione del severance cost massimo è possibile. Da noi no.
Alleva propone un’anagrafe pubblica dei rapporti di lavoro che renda visibile ciò che accade nel tessuto produttivo. Ma quest’anagrafe ce l’abbiamo già: i tabulati dell’Inps e quelli dell’erario ci offrono già una panoramica molto precisa.
E se io entro in una grande impresa editrice vedo immediatamente accanto al giornalista, al redattore, al correttore di bozze regolari, un lavoratore più giovane che fa esattamente lo stesso mestiere, che lavora gomito a gomito con il più anziano, ma che è irregolare: a progetto o con partita iva. Sappiamo che ci sono interi settori dell’economia nei quali non si assume più: nei giornali ad esempio. L’Inpgi ci dà un quadro impressionante di quel che accade nelle redazioni giornalistiche. I giornalisti regolari sono un decimo del totale, o giù di lì.
Voglio dire che è relativamente semplice farsi un quadro della situazione, non c’è bisogno di un’anagrafe, ci sono già strumenti più che idonei per individuare l’evasione o l’elusione.
Il problema vero è che se noi applicassimo sul serio il diritto del lavoro attuale nei giornali, nelle case editrici, nelle case di cura, nell’edilizia, in tutte le situazioni analoghe, produrremmo un risultato pesantemente negativo dal punto di vista occupazionale. Lo si è visto, per esempio, nei call center dove il ministro del Lavoro Damiano era riuscito a imporre la regolarizzazione di centinaia di «lavoratori a progetto».
Su questo punto so di incontrare un netto dissenso da parte del mio compagno di partito Stefano Fassina; è una considerazione di fondo che ci divide. Perché ritengo che il modello di rapporto di lavoro imperniato sull’articolo 18 non possa estendersi a tutti? Perché in questo modo si eliminerebbe il polmone di flessibilità di cui il sistema ha bisogno, proprio per la rigidità che si determina nell’area in cui si applica l’articolo 18. Se noi imponessimo effettivamente di assumere tutti i lavoratori con questa regola, tutte le imprese che hanno oscillazioni nella domanda e quindi nella produzione, allineerebbero la produzione e dunque l’occupazione ai livelli minimi. La conseguenza sarebbe una drastica riduzione dell’occupazione. Si potrebbero portare tanti argomenti a sostegno di questa tesi; Fassina sa bene che gli economisti hanno misurato il maggior costo che ricade mediamente sull’impresa a causa della difficoltà dell’aggiustamento, a causa dei vincoli, degli oneri e dei rischi connessi ai licenziamenti.
È da ingenui dire che l’articolo 18 non costituisce un ostacolo all’aggiustamento degli organici perché se il giustificato motivo c’è il datore di lavoro può licenziare: tutti sanno che quando un’impresa licenzia essa affronta sempre un’incertezza molto elevata circa l’esito del giudizio; e che la soccombenza anche soltanto in uno dei gradi del giudizio, pur con esito finale favorevole, può comportare per l’impresa costi elevatissimi.
Sull’altro versante, sappiamo che i casi in cui nell’area del lavoro precario il lavoratore fa causa all’impresa o l’ispettore è in grado di intervenire sono meno di uno su mille. È dunque un po’ farisaico invocare l’effettività di un diritto del lavoro che effettivo non può essere.
Non voler riformare profondamente il diritto del lavoro, limitarsi a dire che «basta applicare con rigore la legge così com’è», equivale ad accettare che le cose restino come sono; questo è un tradimento nei confronti di tutta quella nuova generazione di lavoratori per i quali il nostro vecchio diritto del lavoro quasi non esiste. I miei studenti mi dicono: «Professore, lei ci insegna un diritto del lavoro che non ci riguarda; non è quello che incontriamo nel mercato del lavoro». Hanno ragione.
Fassina – Riprendo quanto ha detto Alleva anche per cercare di chiarire meglio qual è la mia posizione. Io ovviamente non sostengo che la crescita debba passare per una diminuzione dei diritti dei lavoratori. Questa tesi è stata in effetti molto in voga fino a poco tempo fa e, nonostante la crisi dovrebbe aver fatto piazza pulita di certe assurdità, ancora oggi continua a riaffacciarsi nel dibattito pubblico. Semmai io dico il contrario: non c’è dubbio che in Italia il livello di precarietà del sistema è stato un freno alla crescita.
Negli ultimi quindici anni l’Italia ha avuto una bassissima crescita dovuta sostanzialmente all’aumento di occupazione precaria: da noi la produttività è rimasta ferma, mentre negli altri paesi europei c’è stato un aumento del pil con meno aumento di occupazione ma più aumento di produttività.
In Italia, proprio perché il lavoro costava così poco ed era così facilmente disponibile in ingresso e in uscita, il rapporto tra capitale investito e ore lavorate è rimasto costante negli ultimi decenni, mentre nel resto d’Europa è aumentato in media del 5 per cento.
Da noi la quota di investimenti delle imprese in Ict [Information and Communication Technology] ha riguardato solo un terzo di quei pochi investimenti che si sono fatti; nel resto d’Europa la quota dell’Ict sui nuovi investimenti è stata di oltre due terzi. Che cosa voglio dire con tutti questi indicatori? Voglio sottolineare che un’eccessiva flessibilità, un’eccessiva precarietà del lavoro non solo non aiuta, ma addirittura danneggia la qualità e la quantità della crescita. Intervenire sulle regole può quindi aiutare la crescita. Non c’è dubbio.
Tuttavia, e questo è ciò che mi premeva sottolineare con forza, non possiamo ignorare il fatto che la stragrande maggioranza delle imprese italiane sottoutilizzano la propria capacità produttiva (attualmente siamo al 60-65 per cento della capacità disponibile). È dunque urgente mettere in campo politiche di sostegno alla domanda a livello europeo e a livello nazionale. Poi è evidente che bisogna fare anche le altre cose delle quali si è discusso in questa tavola rotonda: ma vanno fatte tenendo conto del contesto generale nel quale ci troviamo.
Non ci dovrebbe meravigliare che in una fase come questa il 75-80 per cento dei contratti sia costituito da contratti precari: gli imprenditori tendono ad essere razionali e di fronte a una situazione con prospettive di crescita dello zero virgola qualcosa, con gli investimenti in contrazione, sarebbe strano che agissero diversamente.
Prima veniva ricordata l’edilizia: questo settore ha subìto un crollo dell’attività produttiva negli ultimi 2 o 3 anni fra il 20 e il 30 per cento: è assolutamente fisiologico che in tale contesto l’imprenditore ricorra solo a contratti a tempo determinato. Non c’è nessuna regola che possa impedirgli di farlo. E se mettessimo semplicemente regole più stringenti, troverebbe il modo di eluderle, magari ricorrendo al «nero», perché non potrebbe fare diversamente.
Il punto è che dobbiamo tornare a crescere! E dobbiamo al contempo attuare una regolazione sul mercato del lavoro che consenta la flessibilità necessaria al sistema, senza che però questa flessibilità si tramuti in precarietà e abuso di alcune disponibilità giuridiche (come è avvenuto negli ultimi anni).
Rispetto al discorso di Ichino, io davvero non capisco quale giovamento trarrebbe il precario di oggi se un domani, con la sua riforma, fosse assunto con un contratto a tempo indeterminato ma risolvibile a piacimento – in ogni momento – dal datore di lavoro. La sua condizione di precarietà certamente non verrebbe meno.
So bene che un contratto a tempo indeterminato si porterebbe dietro tutta una serie di diritti dei quali oggi i contratti a termine di vario genere non beneficiano. Ma noi possiamo benissimo modificare il corredo di diritti che stanno intorno ai contratti di lavoro senza necessariamente andare a colpire quella porzione di lavoratori che è coperta dall’articolo 18.
La mia proposta non è mai stata quella di estendere l’articolo 18 a tutti: io mi batto per universalizzare una serie di diritti e per colpire quell’incentivo all’occupazione precaria che oggi è costituito dalla sperequazione dei contributi fra i vari contratti. Aggiungo che l’obiettivo non è quello di portare tutti verso il livello di contribuzione dei lavoratori dipendenti a tempo indeterminato: la mia proposta – che per altro corrisponde alla linea ufficiale del Partito democratico su questo tema – è di fissare un livello intermedio, grazie al quale si riduce anche il costo del lavoro del contratto a tempo indeterminato. La sterilizzazione degli effetti pensionistici che sarebbero prodotti dalla diminuzione di contribuzione può essere fatta tramite la leva fiscale, tramite contributi pubblici, a loro volta finanziati dall’innalzamento della tassazione sui redditi da capitale e sulle rendite finanziarie.
È una riforma che da una parte riduce il costo del lavoro per le imprese ed elimina i vantaggi competitivi dei contratti precari. Dall’altra fa pagare il «conto» dell’operazione alla rendita.
Questa è la nostra proposta per la riforma del mercato del lavoro: c’è, è chiara, è giusta ed è efficace. Ma, ripeto, cerchiamo di non correre il rischio di aggirare il vero problema. Il problema di crescita da cui è affetta l’Italia non è congiunturale: bisogna avere consapevolezza di quali sono le priorità da affrontare.
Alleva – Sinceramente questo ultimo giro mi ha un po’ depresso. Alla fine di tutto vedo che ancora siamo qui a discutere dell’articolo 18. Sembra che questo articolo 18 sia il vero osso nella gola di tutti i cosiddetti moderati italiani! Ci abbiamo girato un po’ intorno ma alla fine è venuta fuori la verità! Ciò che davvero dà fastidio nella situazione attuale, ciò che si vuole eliminare – mi riferisco ovviamente a Ichino – è proprio l’articolo 18, perché è la norma sulla quale si fonda la dignità del lavoratore e lo rende effettivamente titolare di diritti. Ma su questo tornerò fra poco.
Prima però volevo fare una precisazione su una questione importante: di anagrafi del lavoro in Italia ce ne sono due; non c’è solo l’Inps, ci sono anche i Centri per l’impiego, ai quali le imprese sono tenute a mandare le «comunicazioni obbligatorie». Lì è custodita la radiografia occupazionale di un’azienda. Il problema è che questi dati non sono pubblici: puoi accedervi solo attraverso le medesime procedure che sovrintendono alla «trasparenza amministrativa», e cioè quando devi fare una causa. Io sono continuamente in guerra con i Centri per l’impiego per sapere quanti contratti a termine sono stipulati da una tale azienda, quanti contratti a progetto eccetera.
E allora dico: rendiamo pubblici tutti i dati. Permettiamo ai sindacati e agli ispettori del lavoro di accedervi: già solo questa possibilità avrebbe un effetto prevenzionistico enorme!
Ma torniamo all’articolo 18. Il problema del licenziamento per motivo oggettivo purtroppo quasi non esiste più. Nel senso che i giudici hanno praticamente rinunziato a questo controllo. Mi si obietta: non tutti, tanto è vero che gli investitori stranieri hanno il timore di quel che gli potrebbe capitare. Ma anche qui non siamo in balia di forze oscure, di fenomeni che non possono essere gestiti. In passato la sinistra ha proposto una cosa semplicissima, ovvero che l’articolo 18 fosse munito istituzionalmente di una fase sommaria. Che cos’è che fa paura? Che l’ordine di reintegro o il risarcimento per danno possa arrivare a tre anni di distanza? Bene: ci può essere una fase sommaria istituzionale, come c’è per esempio per l’articolo 28, quello sul comportamento antisindacale, che precisa subito se ci sarà o non ci sarà questo reintegro o questo risarcimento.
Non dobbiamo confondere il problema della dignità del lavoratore, che consiste nel non poter essere mandato via senza una ragione, con il problema della difficoltà economica dell’azienda. Quando questa ultima sussiste, scatta un altro discorso. All’azienda si dice: sei in crisi davvero? Allora chiedi la cassa integrazione prima di licenziare. La cassa integrazione deve essere resa un passaggio obbligatorio.
D’altra parte se un lavoratore viene licenziato perché accusato di aver rubato e poi si scopre che in realtà è innocente e il licenziamento è discriminatorio, perché deve perdere il posto di lavoro come vorrebbero quelli che desiderano eliminare l’articolo 18? È una cosa che non riesco a capire.
Quanto ai contratti precari, un’altra cosa che non capisco è l’argomento che li vorrebbe legati agli inevitabili oscillamenti produttivi delle aziende nelle economie moderne. Quando sento agitare questo argomento io penso sempre: ma questa persona ha mai avuto a che fare con un vero precario? Ci ha mai parlato? Io tutte le volte che per lavoro ho assistito dei precari mi sono sempre, dico sempre, trovato di fronte a gente che aveva collezionato 8, 10, 12, 15 contratti di tutte le tipologie! A termine, somministrato, a progetto, e poi di nuovo a termine, a progetto eccetera. E sempre con la stessa azienda! Persone che avevano lavorato anche sette anni consecutivi con la stessa impresa, sempre in posizione precaria, finché un giorno sono state lasciate a casa. Allora, che cosa c’entra tutto questo col problema delle prospettive economiche, con le oscillazioni congiunturali? Non c’entra nulla!
Noi dobbiamo individuare un contratto a tempo indeterminato che sia dotato di stabilità previdenziale, che sia ben munito di dote rispetto a un sistema di ammortizzatori sociali finalmente ridistribuito fra tutti i settori dell’economia, e che per le eventuali «lacune di occupabilità» – cioè per i periodi di crisi congiunturali – disponga di quegli strumenti di cui oggi settori come il commercio e l’artigianato non dispongono, perché la cassa integrazione è stata studiata negli anni Settanta in un quadro dominato dalla grande industria.
Proposte come questa non rappresentano un problema tecnico, bensì di volontà politica. Alcuni anni fa la Cgil ha presentato un progetto completo ed esauriente sulla riforma degli ammortizzatori sociali che avrebbe risposto in maniera ottima a molti dei problemi discussi intorno a questo tavolo. E dimostrava che non è necessario compromettere la dignità dei lavoratori per modernizzare il sistema.
Ichino – Alleva sostiene che l’articolo 18 è indispensabile per garantire la dignità del lavoratore. Fassina precisa che, tuttavia, la proposta di riforma del Pd non è di estendere a tutti l’articolo 18. Ecco, in queste due affermazioni si manifesta il dramma della politica del lavoro della sinistra. Se davvero i diritti di libertà e dignità dei lavoratori dipendessero dall’articolo 18, non sarebbe ammissibile che una metà dei lavoratori ne fosse esclusa. L’affermazione di Alleva non è sostenibile, perché se essa fosse vera significherebbe che in tutto il resto d’Europa sarebbe violata sistematicamente la dignità e libertà dei lavoratori, dal momento che l’articolo 18 lì non c’è. Davvero vogliamo affermare che i lavoratori danesi, svedesi, inglesi, francesi o tedeschi versano permanentemente in una condizione di non libertà e non dignità? Sarebbe un’affermazione vistosamente irragionevole.
Fassina obietta: cosa ci guadagna un precario se gli diamo un rapporto di lavoro a tempo indeterminato che il datore di lavoro può risolvere in qualsiasi momento? Questa, appunto, è la condizione dei lavoratori in tutta Europa, dove l’ostacolo al licenziamento per motivi economici od organizzativi è solo un esborso in denaro e non il rischio della reintegrazione automatica prevista dall’articolo 18; ma d’altra parte i lavoratori licenziati godono di un robusto sostegno del reddito e assistenza efficace nel mercato. Fassina vuol forse sostenere che i lavoratori di tutto il resto di Europa devono considerarsi «precari», solo perché non godono di quella sostanziale job property di cui godono i lavoratori italiani per effetto dell’articolo 18?
La «sicurezza» e «dignità» per il lavoratore sta innanzitutto nel non essere in una posizione di inferiorità rispetto ad altri che fanno il suo stesso lavoro, nel non essere un lavoratore di serie B, C, o D, con diritti pesantemente ridotti rispetto ai lavoratori di serie A. Perché quando sopraggiunge una crisi, quelli che ne sopportano immediatamente tutto il peso sono i lavoratori di serie B, C, o D, cioè quelli più facilmente licenziabili.
Con la riforma che propongo non solo verrebbe meno questo dualismo di protezioni per tutti i lavoratori assunti da qui in avanti, ma a tutti questi lavoratori sarebbe garantita una continuità di reddito e un investimento nella loro professionalità nei momenti di passaggio dal vecchio al nuovo posto di lavoro. E questo è proprio ciò che permette ai lavoratori danesi o svedesi di guardare con una relativa serenità alla possibilità di eventi altrimenti drammatici come la perdita del posto. Per i giovani italiani che si affacciano oggi sul nostro mercato del lavoro sarebbe una svolta epocale. Mentre ai vecchi, a chi già oggi ha un lavoro a tempo indeterminato, non verrebbe cambiata una virgola del vecchio regime.
Vorrei concludere raccontando un episodio che mi sembra particolarmente indicativo della gravità del nostro ritardo. Due anni fa ho presentato le mie proposte di riforma a un incontro in cui era presente anche il presidente e amministratore delegato di Ibm Italia, il quale ha detto: «Ibm Italia ha strappato alla casa madre americana la dislocazione nell’Italia centrale di un centro di ricerca, in cui ora dobbiamo assumere tra i 200 e i 300 giovani. A legislazione invariata io non posso che assumerli con un contratto di lavoro a progetto o comunque a termine, perché ho necessità di dare garanzie sulla possibilità che fra 3, 4, 5 anni, se le cose non vanno come speriamo, si possa ridimensionare l’organico o chiudere. Ma se voi mi date la possibilità di sperimentare quello che propone Ichino, io li assumo tutti con contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato». Ecco un caso in cui risulta evidente che l’articolo 18 fa la differenza tra l’essere assunti con contratto precario e l’essere assunti con un regolare contratto a tempo indeterminato, nel senso che con l’articolo 18 quest’ultima possibilità si riduce di molto. Quella differenza c’è e pesa. Dobbiamo darci da fare per rimuoverla: la precarietà cui è esposta metà della nostra forza lavoro è l’altra faccia del regime di job property che si applica all’altra metà.
Fassina – Io faccio davvero fatica a capire come si possa impostare un discorso di questo genere sulle difficoltà di licenziamento a fronte di una crisi economica che ha lasciato sul campo oltre un milione di lavoratori licenziati. In tutta Europa si danno incentivi alle imprese per trattenere i lavoratori, si fa job sharing per evitare i licenziamenti: noi invece ci preoccupiamo di come facilitare i licenziamenti! Credo sinceramente che così si imposta il problema dalla parte sbagliata.
È chiaro che un datore di lavoro vorrà sempre forza lavoro al minor costo possibile e di cui è possibile liberarsi, magari quando dà fastidio, nella maniera più semplice e veloce possibile. Ma questo è solo uno degli interessi in gioco. Come Partito democratico, come forza riformista, io credo che noi dobbiamo saper bilanciare gli interessi legittimi di chi investe il proprio capitale e vuole ottenerne una remunerazione e gli interessi altrettanto legittimi di chi lavora.
Non c’è dubbio che i giovani sono in una condizione di grande difficoltà, ma non vedo perché per superare l’attuale situazione di ingiustizia si debba allineare tutti verso il basso. L’eliminazione dell’articolo 18, con l’enfasi assolutamente spropositata che gli viene attribuita, è questo che implica.
Ichino ha citato il caso del centro di ricerca a Tivoli: ma per queste situazioni ci sono già i contratti di programma che prevedono straordinarie flessibilità, non c’è bisogno di smantellare le garanzie esistenti per consentire a un imprenditore di avviare un investimento e vedere come funziona.
Insomma, non c’è bisogno di contrapporre padri sfigati a figli ancora più sfigati dei padri. Noi dobbiamo ricomporre queste fratture, non alimentarle, e per fare questo c’è bisogno di crescere.
Io non dico assolutamente di lasciare le cose come stanno nel mercato del lavoro, ma si può cambiare e modernizzare un sistema anche senza togliere diritti a chi se li è conquistati. L’articolo 18 è un elemento che rafforza il lavoratore in azienda, perché in primo luogo gli consente una maggiore possibilità di sindacalizzazione. Rafforzando un pezzo del mondo del lavoro si rafforza tutto il mondo del lavoro; mentre se si indebolisce quel pezzo del mondo del lavoro in posizione di maggiore forza relativa, non è che i figli diventano meno precari.
Mi si dice: allora perché non estendere a tutti l’articolo 18? È evidente che mi piacerebbe un mondo in cui tutti guadagnassero tanto, in cui tutti avessero tutti i diritti, in cui i punti più elevati di garanzia si potessero estendere a tutti. Il diritto, la legislazione e la politica devono però fare i conti con la realtà, e la nostra realtà ci dice che scontiamo un enorme deficit di competitività, una enorme difficoltà del nostro sistema produttivo. Occorre evitare due posizioni opposte, entrambe riduzioniste ed entrambe sbagliate: da una parte pensare che sono le regole e i diritti troppo rigidi a imbrigliare un sistema altrimenti dinamico ed efficiente, dall’altra pensare che possiamo introdurre qualsiasi tipo di legislazione, qualsiasi tipo di garanzia a beneficio dei lavoratori non curandoci assolutamente dell’impatto che tali interventi possono avere sulla competitività e dunque sullo sviluppo e la crescita economica.
L’attenzione va concentrata sul fatto che i contratti precari sono allo stato attuale troppo convenienti: bisogna diminuire l’incentivo a utilizzarli e ad abusarne. Inoltre occorre rivedere il welfare in senso universalistico, al fine di costruire una «città del lavoro» in cui possano essere presenti con la stessa dignità le diverse tipologie contrattuali. Altre strade non ne vedo.
Alleva – Io concordo con molte delle cose che ha detto Fassina. Vorrei fare però una precisazione di tipo tecnico su una questione che forse a Fassina è sfuggita, essendo lui un economista e non un giurista, e cioè sul problema del costo dei contratti. Il contratto a termine, che è un contratto di lavoro subordinato, ha esattamente gli stessi costi del contratto a tempo indeterminato; il contratto di lavoro somministrato dovrebbe avere addirittura dei costi superiori, perché c’è anche il margine di intermediazione dell’impresa; resterebbe il contratto di lavoro a progetto, che oggi va un po’ poco di moda perché non prevede l’esclusiva per i datori di lavoro. Ma anche per questa tipologia contrattuale sono state molto aumentate le contribuzioni e ormai siamo vicini a quelle normali. Il vecchio co.co.co., invece, non esiste più nel settore privato.
Ichino – Non esiste più per effetto della legge Biagi.
Alleva – Non esiste più per merito della legge Biagi, e chi lo vuole negare? Concludo con l’auspicio che se la sinistra dovesse tornare al governo, se il Partito democratico – di cui Fassina è il responsabile economia e lavoro – dovesse tornare ad essere il partito di maggioranza dentro una coalizione riformista uscita vincente dalle elezioni, si possa davvero mettere mano agli ammortizzatori sociali, tanto di quelli cosiddetti indennitari e risarcitori, come l’indennità di disoccupazione, quanto di quelli preventivi, come la cassa integrazione e il contratto di solidarietà. Dobbiamo riuscire a dare ad ogni lavoratore una dote di tutele sociali da poter spendere a seconda delle situazioni: ad esempio la cassa integrazione se si trova all’interno di una grande impresa o il sussidio di disoccupazione se si tratta del commesso di un negozio.
Il nostro paese è molto arretrato sul piano sociale rispetto a tanti altri paesi europei. Certe cose in Europa non è nemmeno possibile concepirle: c’è una differenza «culturale» prima ancora che giuridica o politica.
Una volta in Germania, quando ci spiegarono che nel consiglio di sorveglianza metà dei posti spettavano ai lavoratori e metà ai rappresentanti dell’impresa, ma la presidenza era dell’impresa, noi ci mettemmo a ridere. Pensavamo: allora avrà sempre ragione l’impresa, le deliberazioni finiranno sempre 13 a 12. Ci risposero: i rappresentanti dell’impresa non accetterebbero mai di vincere 13 a 12, si vergognerebbero. Ecco: voi pensate che in un’impresa italiana ci si vergognerebbe di prendere sistematicamente le decisioni con 13 voti a favore e 12 contro?
Voglio dire che non tutti i paesi sono uguali anche per cultura e rispetto della dignità del lavoro. E là dove questo rispetto non è garantito da un habitus mentale capillarmente diffuso è necessario che intervenga la protezione della legge, che è lo strumento attraverso cui viene affermata la civiltà. Non a caso penso che l’ultima volta che si sia affermato un primato civile e morale degli italiani sia stato quando fu approvato lo Statuto dei lavoratori.
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(*) MIA NOTA STATISTICA A MARGINE DELLA TAVOLA ROTONDA
L’Istat fornisce questi dati relativi alla distribuzione della forza-lavoro in Italia 2009 (dato medio nell’arco dell’anno):
Totale delle persone attive addette alle aziende italiane (compresi enti pubblici)
esclusi i liberi professionisti iscritti ai rispettivi ordini o albi e il lavoro irregolare: 17.510.988, delle quali
A. “lavoratori indipendenti” addetti alle 4.356.236 imprese fino a 15 dipendenti: 5.441.349
B. “lavoratori dipendenti” dalle stesse imprese fino a 15 dipendenti: 4.108.086
C. “lavoratori indipendenti” addetti ale 114.512 imprese con più di 15 dipendenti: 171.123
D. “lavoratori dipendenti” dalle stesse imprese con più di 15 dipendenti: 7.790.426.
Questi dati, a causa della terminologia utilizzata dall’Istat, inducono Stefano Fassina ad affermare che, in proporzione, ci sono molti più “collaboratori autonomi” nelle imprese fino a 15 dipendenti, dove non si applica l’articolo 18 St. lav., che nelle aziende di dimensioni maggiori, dove l’articolo 18 si applica. Senonché nei 5.441.349 “lavoratori indipendenti” indicati al punto A l’Istat ricomprende tutti i titolari delle 4.356.236 piccole imprese (che possono anche essere due o più per impresa: si pensi all’impresa familiare di cui sono titolari i due coniugi); ma quel che più conta è che tra queste 4.356.236 imprese l’Istat ricomprende anche l’attività del singolo lavoratore autonomo che formalmente opera “in proprio” (esclusi i liberi professionisti iscritti ai rispettivi ordini o albi). Questo significa che tra quei 5.441.349 lavoratori autonomi di cui al punto A ci sono anche i numerosissimi titolari di “partite Iva” che vengono censiti formalmente come “titolari di impresa individuale senza dipendenti”, ma che in realtà lavorano continuativamente e in regime di monocommittenza per una delle 114.512 imprese di cui al punto C. Tanto questo è vero, che al punto C sono indicati soltanto 171.123 “lavoratori indipendenti” per 114.512 imprese: è evidente che questi 171mila indipendenti sono in realtà i titolari o amministratori delle 114mila imprese, mentre il dato non comprende i collaboratori autonomi di queste imprese, titolari di partitia IVA, che sono invece classificati come altrettanti “imprenditori” a sé stanti e quindi collocati al punto A.
Mi sembra dunque di poter affermare che l’argomento principale su cui Stefano Fassina ha fondato la sua tesi, non solo in questa tavola rotonda ma anche nella relazione introduttiva dell’Assemblea programmatica del Pd, svoltasi a Genova il 17 e 18 giugno scorsi, nasce da un evidente equivoco generato dalla terminologia usata dall’Istat.