UN RICORDO DI GIORGIO GHEZZI

IL FIGLIO DEL GRANDE GIUSLAVORISTA BOLOGNESE RICORDA LO SPIRITO LIBERO E LIBERALE CON CUI EGLI HA SEMPRE SVOLTO IL RUOLO DI STUDIOSO VICINO AL MOVIMENTO OPERAIO

Lettera pervenuta il 4 luglio 2011 – Segue, nella risposta, il ricordo del mio primo incontro con Giorgio Ghezzi e di tutto quello che mi ha unito a lui nel trentennio successivo

Buongiorno Onorevole Ichino,
mi chiamo Nicola Ghezzi, ho 43 anni, sono padre di una bellissima bimba di 4 anni ed esercito l’attività forense a Bologna (sono socio, insieme ad altri Colleghi, del Prof. Avv. Germano Dondi, anch’esso, come Lei, Docente oltre che avvocato giuslavorista).
Seguo sempre con interesse i Suoi interventi sui quotidiani e sul suo sito, che considero sempre molto equilibrati. Occupandomi anche io di diritto del lavoro (soprattutto quello “applicato” nelle aule di giustizia) conosco (al meglio delle mie possibilità) la materia. Molto interessante è il dibattito su alcune tematiche di grande attualità (in particolare quelle sindacali e di relazioni industriali sui noti eventi di questi mesi).
Come forse avrà intuito dal mio cognome, il diritto del lavoro fa parte del mio DNA, avendo avuto come padre Giorgio Ghezzi. Io, a differenza sua, mi limito all’avvocatura, non avendo mai avuto velleità universitarie, comunque non alla mia portata.
Le racconto queste cose, non certo per ricordare la memoria di mio padre (ci mancherebbe altro!), quanto perché non più tardi di ieri pomeriggio ho riordinato la sterminata libreria giuridica del Babbo (che ho conservato in quello che fu il suo studio in casa di mia madre) e mi sono passati fra le mani alcuni Suoi libri.
Rivederli mi ha ricordato le volte in cui parlavo con mio padre del rapporto tra di voi e delle differenti posizioni che avevate su vari temi del diritto del lavoro. Ricordo bene che il Babbo aveva di Lei grande stima (come dei compianti Massimo D’Antona e Marco Biagi, anch’essi con un’impostazione differente da quella del Babbo). E il vero insegnamento che mi ha lasciato è quello di considerare sempre il punto di vista di colui che non la pensa come te. Ritrovo in Lei (anche se su posizioni differenti, che personalmente condivido) quel senso dell’equilibrio e della pacatezza, fatto di contenuti e mai urlato. Oggi doti in via di estinzione se si considera il “livello” del dibattito sul diritto del lavoro e la qualità di certi “interlocutori”, soprattutto, istituzionali, che poco o nulla sembrano conoscere di questa bellissima materia.
Molte cose sono passate ed oggi, sempre di più, si assiste ad un generale “decadimento” del dibattito (soprattutto) sindacale. C’è un sindacato che vive di ricordi e si affida alla Magistratura per risolvere problemi che non le spettano (la FIOM) ed un’imprenditoria che arranca o cerca di imporre modelli organizzativi e di sviluppo che facciamo fatica a comprendere ed accettare. Ma su tutto c’è la benedetta “globalizzazione” della quale non può più non tenersi conto e, che gioco forza, determina le nuove regole (anche sindacali).
Mi sarebbe piaciuto che anche il Babbo insieme a Lei e tanti altri validi studiosi avesse potuto dare un contributo, anche se penso che vivrebbe un forte dissidio interno nell’appoggiare certe tesi sindacali, che mi paiono un po’ (…) utopistiche nel 2011. Ricorderà che mio padre già vent’anni fa scriveva e discuteva di rappresentatività ed oggi questo argomento è il fulcro di tutti i problemi sindacali che ci troviamo ad affrontare. Ma forse è meglio che riposi sereno, perché ho il sospetto che tutto ciò gli provocherebbe solo dei forti mali di testa…
Mi scuso per l’intrusione e La ringrazio per il tempo che ha dedicato alla lettura di questo messaggio. Con i migliori saluti.
Nicola Ghezzi

ll mio primo incontro con Giorgio Ghezzi è avvenuto nel febbraio 1973. Mi aveva indirizzato a lui, parlandomene come di “un vero signore, di cui lei si può sempre fidare”, la professoressa Luisa Riva Sanseverino, della quale ero allievo e che era stata relatrice della mia tesi di laurea. Giorgio, raggiunto da me per telefono, mi aveva dato appuntamento già per il giorno dopo, nell’aula in cui teneva un appello di esami. Al termine dell’appello mi dedicò un vero, lungo colloquio. Mi ero laureato poco prima con una tesi sulla contrattazione collettiva aziendale, nella quale avevo fatto largo uso della costruzione da lui proposta nella monografia sulla Responsabilità contrattuale delle associazioni sindacali di dieci anni prima, e anche del commentario bolognese dello Statuto dei lavoratori di cui era uno dei co-autori: il fatto che il grande Ghezzi fosse disponibile a dedicare del tempo a un ragazzetto sconosciuto proveniente da un’altra città, neppure appartenente al novero dei suoi studenti, ad ascoltarlo e discutere delle sue esperienze di imberbe sindacalista e delle sue tesi altrettanto imberbi sull’efficacia del contratto collettivo, a dargli consigli sulla prosecuzione della ricerca, mi parve un evento straordinario. Effettivamente lo era, nell’università baronale di allora (come forse lo sarebbe anche nella nostra università di oggi, che non ha perso affatto il vizio di vivere in funzione degli interessi dei docenti e solo eventualmente, di riflesso, in funzione degli interessi degli studenti). A quel colloquio molti altri ne sono seguiti, tutti segnati dall’imprinting  di quel primo. Fu lui a introdurmi alle riunioni della redazione bolognese della rivista Qualegiustizia, dove nacque la mia amicizia con Marco Biagi. Insieme a Giuseppe Pera – del quale sono poi stato per vent’anni il braccio destro – e a Gino Giugni, Giorgio è stato il solo membro della comunità accademica giuslavoristica al quale non ho mai detto di no, qualsiasi cosa mi abbia chiesto. Quando mi chiamava (anche ultimamente diceva sempre per presentarsi “sono Ghezzi”, con la doppia zeta dolce) sapevo che non mi avrebbe chiesto mai nulla che fosse dettato da faziosità o da interessi meno che limpidi; e lui sapeva di poter contare sempre sulla mia disponibilità. Quando vinsi il concorso a cattedra, nel 1986, fu lui – membro della Commissione con Giugni, Persiani, Suppiej e Treu – a chiamarmi subito per informarmi di quell’esito. E quando ottenni per la prima e ultima volta che venisse bandito posto di ricercatore presso la mia cattedra, e avvertii tutti i colleghi che sarebbe stato un concorso davvero aperto, senza vincitori prestabiliti, chiesi alla mia Facoltà milanese di nominare lui, bolognese, come “membro interno” della commissione, proprio per garantire quella apertura vera (vinse il posto un giovane romano che non avevo mai incontrato prima del concorso; e fu un ottimo acquisto per la Facoltà). Negli ultimi anni ci siamo trovati a essere in qualche modo “concorrenti”, lui alla guida della Rivista giuridica del lavoro,  io a quella della Rivista italiana di diritto del lavoro; ma tante volte è accaduto che ci scambiassimo un consiglio, del materiale da pubblicare, una informazione preziosa in anteprima. In materia di politica del lavoro, fin dagli anni ’70, pur continuando Giorgio e io a militare dalla stessa parte (quella del Pci e della Cgil) le mie idee sono andate parzialmente divergendo dalle sue; ma quando si trattava di valutare un giovane, di decidere chi meritasse davvero di vincere un concorso, o anche soltanto se un saggio meritasse o no di essere pubblicato, i criteri che applicavamo erano sempre gli stessi e quindi finivamo sempre col pensarla allo stesso modo. Caro Nicola, prima di questa lettera non ci siamo mai incontrati e neppure sentiti; ma spero che questo possa accadere presto: sarà un po’ come incontrare Giorgio e salutarlo ancora una volta. Grazie di avermi scritto!  Pietro

 

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