PERCHE’, NONOSTANTE IL NUOVO ACCORDO INTERCONFEDERALE, MARCHIONNE CHIEDE ANCORA UN INTERVENTO LEGISLATIVO PER PORRE I CONTRATTI DI POMIGLIANO E MIRAFIORI AL RIPARO DALLA GUERRIGLIA GIUDIZIARIA E DEI COBAS
Lettera sul lavoro pubblicata dal Corriere della Sera il 2 luglio 2011
Caro Direttore, politici, sindacalisti e giornalisti si chiedono in che cosa consista il “passo in più” che Sergio Marchionne indica nella sua lettera di giovedì a Emma Marcegaglia come condizione perché Fiat resti in Confindustria. Che cosa diavolo vuole di più la Fiat, dopo un accordo interconfederale di straordinario rilievo come quello firmato martedì scorso, che segna una svolta storica nell’evoluzione del sistema italiano delle relazioni industriali?
Se i contratti Fiat di Pomigliano e di Mirafiori, invece che essere stati stipulati l’anno scorso, venissero stipulati ora, nel quadro delineato dal nuovo accordo interconfederale, gli “strappi” che essi avevano causato rispetto al contratto collettivo nazionale verrebbero meno: cioè rientrerebbero pienamente nelle modifiche che ora la contrattazione aziendale può disporre rispetto alla disciplina nazionale. Perché dunque preoccuparsi per il fatto che il nuovo accordo interconfederale non ha valore retroattivo? Basterebbe che quei contratti aziendali venissero formalmente rinegoziati e sottoscritti oggi, perché ogni problema di compatibilità con il contratto nazionale venisse superato.
Non è questo, dunque, che può preoccupare Sergio Marchionne. Il fatto è che quei contratti aziendali prevedono il diciottesimo turno di lavoro e i Cobas hanno immediatamente proclamato lo sciopero del diciottesimo turno da qui al 2014, per tutto il periodo di vigenza dei contratti stessi. In base al nostro diritto sindacale, così come esso oggi è prevalentemente interpretato e applicato, qualsiasi dipendente della Fiat in qualsiasi momento può aderire allo sciopero proclamato dai Cobas. Ciò di fatto significa che la clausola dei contratti Fiat sul diciottesimo turno non è vincolante per i singoli lavoratori. Vero è che su questo terreno l’accordo interconfederale firmato martedì scorso ha fatto un notevolissimo passo avanti rispetto al regime precedente, prevedendo che la clausola di tregua (cioè il patto con cui un sindacato rinuncia a proclamare lo sciopero sulle materie regolate nel contratto) stipulata da una coalizione sindacale maggioritaria non vincola soltanto i sindacati firmatari, ma anche tutti gli altri. Solo che qui “tutti gli altri” significa tutti i sindacati aderenti alle confederazioni firmatarie dell’accordo interconfederale; e tra questi ovviamente non si può sperare di annoverare anche i Cobas. L’unica soluzione che potrebbe dare alla Fiat certezza circa l’efficacia dei contratti aziendali stipulati anche nei confronti dei singoli dipendenti è una legge che riprenda le regole del nuovo accordo interconfederale, generalizzandone gli effetti. Ma Cgil Cisl e Uil oggi non concordano sull’opportunità di questo intervento legislativo.
Poi c’è un altro problema, di minore importanza pratica immediata ma di maggiore importanza in prospettiva e in linea di principio. Il nuovo accordo interconfederale prevede sì che la contrattazione aziendale possa modificare la disciplina disposta dal contratto nazionale, ma prevede anche che il contratto nazionale possa in futuro limitare, fino a ridurre a zero, questa possibilità. Dunque, in prospettiva, gli accordi Fiat potrebbero essere messi in discussione da un contratto nazionale, alla cui stipulazione la Fiat come tale non parteciperebbe neppure. Di più: nei giorni scorsi si sono riuniti a Torino i rappresentanti sindacali di tutti gli stabilimenti del Gruppo Fiat-Chrysler sparsi per il mondo, dagli Stati Uniti all’Italia, dalla Polonia alla Cina, dalla Serbia al Brasile. In un domani non lontano potrebbe anche accadere che il Gruppo stesso stipuli con una rappresentanza unitaria un contratto destinato ad applicarsi a tutti questi stabilimenti. Ora, l’Italia è il solo Paese nel quale l’applicabilità di quell’ipotetico contratto sarebbe condizionata alle regole particolari eventualmente poste da un contratto nazionale di settore.
Il nuovo accordo interconfederale stipulato martedì a Roma colma gran parte delle lacune che caratterizzavano fino a ieri il nostro diritto sindacale; ma ne restano alcune. Per esempio, i due problemi che ho menzionato non potrebbero porsi né in Germania, né in Gran Bretagna, o in Polonia, o negli Stati Uniti, dove la clausola di tregua vincola pacificamente anche i singoli lavoratori cui il contratto si applica; e dove il contratto nazionale o non c’è, o è pacificamente derogabile e persino interamente sostituibile ad opera del contratto aziendale. Così, pur apprezzando il passo avanti compiuto con il nuovo accordo interconfederale, la Fiat probabilmente a fine anno uscirà dal nostro sistema confederale delle relazioni industriali per dar vita a un suo sistema di gruppo, risolvendo il problema del rapporto fra contratto aziendale e contratto nazionale (ma il problema del rispetto della clausola di tregua resterà aperto).
Non è il caso di drammatizzare questo evento: il pluralismo sindacale non è garantito dalla Costituzione soltanto ai lavoratori, ma anche agli imprenditori. La vicenda ci obbliga però a riflettere su quanto la globalizzazione stia cambiando il contesto in cui le relazioni industriali si collocano.