MANOVRA E PENSIONI: CHE COSA È EQUO E CHE COSA NO

ORA È INNANZITUTTO SUL TERRENO DELLE PENSIONI DI ANZIANITÀ NEL SETTORE IMPIEGATIZIO CHE PUÒ E DEVE ESSERE OPERATA LA CORREZIONE NECESSARIA PER ALLINEARE IL NOSTRO SISTEMA AGLI ALTRI MAGGIORI SISTEMI EUROPEI

Editoriale di Maurizio Ferrera pubblicato sul Corriere della Sera il 28 giugno 2011 – In argomento leggi anche la risoluzione Bonino Germontani Ichino sul documento di economia e finanza (DEF), discussa dal Senato (e respinta per quattro soli voti) il 4 e 5 maggio 2011 e  l’editoriale di Elsa Fornero sul Sole 24 Ore del 24 giugno 2011

Con il dibattito sulla manovra economica è ricominciato il tormentone delle pensioni. Il settore è stato oggetto di una decina di grandi riforme dal 1992 ad oggi. Intervenire di nuovo può sembrare accanimento terapeutico. Ma non è affatto così: ci sarebbe spazio per alcune correzioni dell’età pensionabile che produrrebbero non solo risparmi ma anche equità.
Il requisito anagrafico per le pensioni di vecchiaia è oggi fissato a 65 anni per gli uomini e 6o per le donne. Una delle proposte in discussione è quella di alzare il requisito per le donne: in questo caso sarebbe però equo e desiderabile destinare i risparmi al potenziamento dei servizi sociali, in modo da alleviare i troppi carichi che gravano sulle donne che lavorano. Se si vuole contenere la spesa e dunque il deficit pubblico, la strada più equa ed efficace è quella di eliminare le scorciatoie: ossia quelle norme che ancora consentono a moltissimi lavoratori di ritirarsi prima dell’età prevista per la vecchiaia.
Le statistiche ci dicono che in Italia l’età media effettiva di ritiro dal lavoro è pari a 61,1 anni, quasi tre anni sotto la media Ocse. La scorciatoia è la cosiddetta pensione di anzianità. Le regole sono complesse, ma sostanzialmente quest’ultima può essere chiesta oggi a partire dai 6o anni o anche prima (senza alcun requisito d’età) se si hanno 4o anni di contributi. Nel 2010 più della metà (175 mila) dei trattamenti di nuova liquidazione da parte dell’Inps sono stati, appunto, pensioni di anzianità, con un importo calcolato con il metodo «retributivo» e di molto superiore al valore medio Inps. L’età di decorrenza è stata in media 58,3 anni per i dipendenti e 59,1 per gli autonomi: senza dubbio un buon affare. Teniamo presente che gli importi sono del tutto sproporzionati rispetto all’ammontare dei contributi versati da ciascun pensionato di anzianità: nessun Paese europeo prevede formule di computo così generose. Le pensioni di anzianità sono un’anomalia storica, una polpetta avvelenata del welfare in stile Prima Repubblica. Nate nel 1956 per gli impiegati pubblici (che potevano ritirarsi anche a quarant’anni), queste prestazioni furono poi estese al settore privato, alimentando la spesa, abbassando il tasso di occupazione degli ultra-cinquantenni e riducendo il gettito contributivo. A partire dalla riforma Dini del 1995 i requisiti sono stati resi più stringenti, soprattutto per i dipendenti pubblici. Ma l’anomalia resta e non è prevista la sua definitiva abolizione.
Che cosa giustifica questo privilegio? Per alcune categorie operaie si può invocare l’entrata molto precoce nel mercato del lavoro, o l’esercizio di attività usuranti. Ma per gli altri? La domanda riguarda soprattutto i lavoratori autonomi, che possono peraltro continuare a lavorare cumulando pensione di anzianità e reddito da lavoro (il lavoro precedente). Qualcuno dice che l’uscita precoce dei dipendenti in là negli anni lascia spazio ai giovani. Ma non è così. Anzi, nei Paesi ove si va in pensione più tardi i tassi di occupazione dei giovani sono più elevati: l’economia gira e cresce di più. È sorprendente come i lavoratori nati prima degli anni Settanta siano riusciti a difendere i loro anomali privilegi così a lungo, forti del sostegno sindacale. Le pensioni di anzianità non verranno quasi certamente toccate neppure dalla manovra che sarà varata nei prossimi giorni, anche se potrebbero dare un sostanzioso contributo alla riduzione del deficit ed evitare tagli a voci di spesa delicatissime, come l’istruzione, la non autosufficienza, gli asili nido, i servizi dei Comuni. Per pagare le pensioni anticipate ai lavoratori autonomi, che hanno i conti in rosso, l’Inps dovrà chiedere in prestito i soldi alla gestione dei giovani precari, a cui invece verranno aumentati i contributi. Nel nostro welfare la solidarietà funziona troppo spesso al rovescio.
Che futuro ha un Paese in cui i giovani restano a casa fino a trent’anni e i lavoratori vanno in pensione a cinquantotto? E presto detto: non ha futuro. E il guaio è che stiamo smettendo di preoccuparci, nell’illusione che un qualche miracolo ci porti fuori dalla crisi, senza riforme impopolari e senza sacrifici.

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