IL CAMBIO DI PARADIGMA DEL MERCATO DEL LAVORO E LA STRUTTURA DELLA CONTRATTAZIONE COLLETTIVA

NELL’ECONOMIA GLOBALE I LAVORATORI DEVONO RIUSCIRE A COMPENSARE L’ALLARGAMENTO DELLA CONCORRENZA SUL VERSANTE DELL’OFFERTA DI LAVORO CON  UN SUO ALLARGAMENTO SUL VERSANTE DELLA DOMANDA – PER QUESTO È INDISPENSABILE UN SINDACATO ABILITATO A NEGOZIARE A 360° ANCHE AL LIVELLO AZIENDALE

Intervento svolto nel corso delle Giornate di Studio dell’Associazione Italiana di Diritto del Lavoro e della Sicurezza Sociale, Copanello, 25 giugno 2011 – In argomento v. anche il mio saggio del 2007, Che cosa impedisce ai lavoratori di scegliersi l’imprenditore

     I cambiamenti profondi del contesto economico connessi con la globalizzazione non possono non influire anche sulla struttura della contrattazione collettiva, o almeno sul modo in cui alla stessa si applicano regole e categorie giuridiche vecchie di mezzo secolo. Così, il tema di queste nostre giornate di studio non può – mi sembra – non tener conto del rovesciamento, conseguente alla globalizzazione, del paradigma tradizionale sul quale fino a oggi abbiamo fondato la nostra concezione del mercato del lavoro.
Per cominciare, diverse osservazioni inducono a non considerare più questo mercato soltanto come il luogo dove l’imprenditore cerca, seleziona e sceglie i lavoratori, ma anche come il luogo dove accade che siano gli stessi lavoratori a cercare, selezionare e scegliere l’imprenditore. Questo accade non soltanto sul piano individuale, quando il lavoratore migra alla ricerca dell’impresa che meglio valorizzi il suo lavoro, ma accade sempre più sovente anche sul piano collettivo, quando è l’insieme dei lavoratori di un’azienda che valuta i candidati alla gestione dell’azienda e ne sceglie uno. Ricordate la vicenda della privatizzazione di Alitalia? La si può leggere così: nel 2007-2008, considerato lo stato fallimentare della nostra compagnia di bandiera, i lavoratori, attraverso i loro rappresentanti politici e sindacali, si sono messi alla ricerca di un nuovo imprenditore da ingaggiare per rilanciare l’azienda e valorizzare meglio il loro lavoro. Nella fase finale della selezione, le trattative con l’amministratore delegato di Air France-KLM, poi con i rappresentanti della “cordata italiana”, ben possono essere considerate come “colloqui pre-assunzione”, nei quali a dover essere assunto è l’imprenditore, sulla base del suo piano industriale, della sua affidabilità tecnica ed economica. In quel caso, il criterio dell’“italianità” fece sciaguratamente aggio su tutto il resto; ma nella scelta di quel criterio i sindacati dei lavoratori precedettero i rappresentanti politici della collettività.
Qualche cosa di analogo sta accadendo a Termini Imerese, dove il Governo italiano ha aperto una sorta di concorso per la scelta di uno o più imprenditori capaci di rilevare lo stabilimento con i suoi lavoratori e rilanciarne l’attività.  Chi avrebbe mai detto che a questo concorso si sarebbero presentati più di venti imprenditori, da tutte le parti del mondo, che tra questi sarebbe stata stilata una short list di sette, per poi arrivare ai due o tre vincitori? Eppure questo è quanto sta accadendo anche lì.
Esiste dunque, per la lettura del nostro mercato del lavoro, un paradigma diverso rispetto a quello del mercato monopsonistico, nel quale c’è un solo imprenditore che sceglie tra una moltitudine di lavoratori. Il cambiamento di paradigma è particolarmente importante nella congiuntura economica che il nostro Paese sta attraversando: una congiuntura che vede i lavoratori italiani soffrire dell’effetto per loro negativo della globalizzazione, cioè dell’ampliamento della concorrenza sul lato dell’offerta di manodopera agli operai e tecnici dei Paesi emergenti, mentre non li vede beneficiare dell’effetto positivo dell’apertura della concorrenza sul lato della domanda di manodopera agli imprenditori di tutto il mondo. Non ne beneficiano perché l’Italia è chiusa agli investimenti stranieri: più chiusa di noi, in Europa, è soltanto la Grecia. Abbiamo invece necessità urgente di tornare capaci di intercettare gli investimenti nel mercato globale dei capitali: non abbiamo, infatti, alcuna altra risorsa – non certamente gli investimenti pubblici – a cui attingere nel presente e nel prossimo futuro per rimettere in moto l’economia nazionale, che da troppo tempo, anche prima della grande crisi del 2008-2009, fa registrare un tasso di crescita troppo vicino allo zero.
Non c’è diritto del lavoro, non c’è contratto collettivo, non c’è sindacato, o ispettore, o giudice del lavoro, che possa garantire una protezione migliore della libertà, della dignità e del buon trattamento del lavoratore, rispetto alla possibilità per quest’ultimo di sbattere la porta in faccia all’imprenditore che lo tratta male perché può scegliere tra dieci altre aziende capaci di offrirgli un trattamento migliore. Questo è il motivo per cui il primo compito di un sindacato che voglia e sappia fare bene gli interessi dei propri rappresentati consiste nell’andare alla ricerca del maggior numero possibile di imprenditori, da qualsiasi parte del mondo vengano, selezionando i migliori e attirandoli nella propria terra.
Pensiamo alla regione in cui si svolge questo nostro convegno: la Calabria è bellissima e ricca di capitale umano, ma è drammaticamente povera di tessuto produttivo. Essa non ha oggi alcuna speranza di sviluppo, nel breve e medio termine, se non sulla base di una campagna intensiva di “ingaggio” di imprenditori, da qualsiasi parte del mondo essi vengano. Una campagna di questo genere non è possibile senza un sindacato capace di valutare nuovi piani industriali, anche molto lontani dai modelli di organizzazione del lavoro e di struttura delle retribuzioni fatti propri dai nostri contratti collettivi nazionali. D’altra parte, qualsiasi insediamento industriale negoziato in questo modo offrirebbe ai giovani calabresi qualche cosa di incomparabilmente meglio rispetto a ciò che la regione offre loro nella situazione attuale. Anche se il trattamento economico fosse inferiore rispetto agli standard oggi stabiliti dal contratto collettivo nazionale: essi, infatti, oggi hanno una probabilità minima di poter accedere a un lavoro regolare secondo quello standard.
Ma un discorso non molto diverso riguarda anche i lavoratori della Fiat di Torino: oggi per loro il piano industriale proposto da Sergio Marchionne è l’unica alternativa concreta a una prospettiva di anni di cassa integrazione. Sarebbe importante, per loro, poter scegliere tra il piano proposto da Marchionne e altri piani industriali: questo darebbe loro maggiore forza contrattuale. Ma dove, se non all’estero, essi potrebbero cercare un altro imprenditore? E come aprirsi ad altri piani industriali se non accettando anche modelli di organizzazione del lavoro, di inquadramento professionale, di struttura della retribuzione, diversi da quelli fatti propri dai nostri contratti collettivi nazionali? Oppure, ipotizziamo che gli operai della Fiat intendano regolare i loro rapporti di lavoro mediante un contratto stipulato al livello mondiale per tutti i lavoratori del Gruppo, capace quindi di applicarsi al tempo stesso in Italia, negli USA, in Polonia, in Brasile, in Canada e in Serbia: non sarebbe forse necessario, in questo caso, svincolare quel loro contratto dal vincolo della conformità con il contratto nazionale italiano?
E se i ferrovieri italiani vorranno aprire, il loro settore alla concorrenza delle ferrovie tedesche, svizzere o francesi nella domanda di lavoro, per allargare la propria possibilità di scelta dell’imprenditore e incrementare le possibilità di guadagno, non sarebbe forse necessario consentire ai loro sindacati la stipulazione di contratti aziendali liberi dal vincolo della conformità in ogni sua parte con il vecchio contratto nazionale italiano?
Questo cambiamento del paradigma del mercato del lavoro di cui sto parlando mette in discussione la funzione tradizionale del nostro contratto collettivo nazionale di lavoro. La quale non è – come siamo abituati da sempre a pensare – limitata alla regolazione e limitazione della concorrenza tra i lavoratori sul versante dell’offerta di manodopera, ma è sempre consistita anche in una regolazione e limitazione della concorrenza sul versante della domanda di manodopera. Nei sessant’anni passati ha fatto comodo ai nostri imprenditori di un qualsiasi settore poter dormire sonni più tranquilli, sapendo che chiunque venisse a produrre in Italia in quello stesso settore non avrebbe potuto acquisire un vantaggio competitivo dall’applicazione di un sistema di inquadramento professionale diverso (pensiamo ai sistemi di job evaluation, oppure alla lean production, basata su di una unica categoria di staff manufacturers, nella quale tutti devono fare tutto e vengono valutati in base alla capacità di trasmissione del know-how ai colleghi), o di una diversa organizzazione tecnica del lavoro (pensiamo alla regola dei due macchinisti in cabina che fino a qualche anno fa è stata inderogabilmente posta dal nostro contratto nazionale dei ferrovieri), o di una struttura diversa della retribuzione (cioè di una diversa ripartizione tra parte fissa e parte variabile), o di una diversa distribuzione dei tempi di lavoro (pensiamo ai sabati lavorativi nel settore bancario!).
Si osservi come in tutte queste possibili variazioni di modello sia impossibile stabilire un melius e un peius dal punto di vista delle condizioni di lavoro. Per restare all’attualità italiana, nessuno può dire a priori se per i lavoratori della Fiat sia, in assoluto, “meglio” o “peggio” il modello di organizzazione del lavoro previsto nel piano Fabbrica Italia proposto loro da Marchionne, rispetto al modello compatibile con il contratto collettivo nazionale metalmeccanico: è altrettanto ragionevole la posizione di chi considera positivo il saldo tra benefici e sacrifici previsti in quel piano, quanto la posizione di chi lo considera negativo. Lo stesso potrebbe dirsi del piano industriale che essi – o altri – si troverebbero a negoziare con la Toyota, con la Nissan o con la Ford in funzione dell’insediamento in Italia di un nuovo stabilimento di queste imprese multinazionali.
Tutto questo non significa affatto che il contratto collettivo nazionale non serva più. Non possiamo dimenticare che due terzi dei lavoratori italiani oggi non sono coperti dalla contrattazione aziendale. È dunque sempre necessario un contratto nazionale che funga da rete di sicurezza, che fornisca uno standard applicabile in tutti i casi in cui manchi una disciplina negoziata da chi sia abilitato a farlo, a un livello più vicino al luogo di lavoro. Questa funzione, però, può essere svolta benissimo dal contratto nazionale anche senza che esso restringa gli spazi della contrattazione aziendale, così contribuendo in qualche misura a chiudere il nostro sistema agli investimenti stranieri. La non derogabilità del contratto nazionale da parte del contratto aziendale, del resto, nasce soltanto da un dato culturale e da una scelta negoziale compiuta dalle parti stipulanti, ma non ha alcun fondamento legislativo.
Oggi l’opinione che va per la maggiore nelle organizzazioni sindacali, Cgil compresa, è che si debba andare in direzione di uno “snellimento” del contratto nazionale, pur conservandone l’inderogabilità, per lasciare più spazio alla contrattazione aziendale. Senonché, se “snellimento” significa riduzione del contenuto del contratto, in tutta la vasta area dove la contrattazione aziendale ancora non riesce ad arrivare, questo necessariamente riduce la protezione dei lavoratori. Logica vuole, dunque, che il contratto collettivo nazionale conservi la sua capacità di regolare compiutamente il lavoro in quella vasta area; ma proprio questo implica che la contrattazione aziendale possa più largamente sostituire la disciplina nazionale. Quanto largamente? Molto.
Nell’era della globalizzazione, il sindacato deve poter negoziare a 360 gradi su piani industriali anche fortemente innovativi in materia di organizzazione del lavoro, di struttura delle retribuzioni, di distribuzione dei tempi di lavoro. E deve poterlo fare in azienda; perché è al livello aziendale, non al livello di un intero settore, che l’innovazione si presenta nella fase iniziale della sua diffusione. È vero che non tutta l’innovazione è buona; ma se per paura di quella cattiva ci chiudiamo anche a quella buona, il Paese continua a non crescere. E gli investimenti stranieri si fermano alle Alpi. Nella Germania che è stata per decenni la patria del modello della contrattazione centralizzata, da diversi anni si è introdotta la regola che consente al contratto aziendale di sostituire il contratto nazionale in parte o anche del tutto. Perché mai ciò che sta dando buona prova in Germania dovrebbe essere impraticabile in Italia?

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