PER FAR RIPARTIRE L’ITALIA, PER UN NUOVO SVILUPPO CHE DIA UN FUTURO DECENTE ALLE GIOVANI GENERAZIONI TUTTI DEVONO RINUNCIARE A QUALCOSA, TUTTI DEVONO RICONOSCERE ALCUNI PROPRI ERRORI, E ACCORDARSI ALMENO SU ALCUNI OBIETTIVI INELUDIBILI E VITALI
Editoriale di Mario Deaglio su la Stampa del 24 giugno 2011
Chi analizza i dati economici degli ultimi giorni può essere più che giustificato se si lascia andare a una crisi di sconforto. Nell’ampia massa di notizie sulla congiuntura e sulle imprese di tutto il mondo è difficilissimo trovare qualche segnale davvero positivo.
Negli Usa aumenta la disoccupazione, in Italia il Centro Studi di Confindustria prevede un tasso di crescita dimezzato, al ridicolo, quasi inesistente livello dello 0,6 per cento, del tutto insufficiente a qualsiasi discorso di rilancio.
Sempre negli Stati Uniti la vendita delle abitazioni nuove fa registrare l’ennesimo segno negativo, in Italia dal mondo del commercio arriva l’ennesimo allarme sulle serrande dei negozi che chiudono per sempre.
La presidente della Confindustria invoca riforme immediate, il presidente della Fed, la banca centrale americana, riflette in maniera malinconica sui possibili effetti della crisi greca. E l’elenco potrebbe continuare a lungo, basti pensare che persino in Germania, il Paesecampione del recente recupero, illusoriamente scambiato per crescita, il più noto indice congiunturale registra un’inattesa e grave caduta. La stessa Cina non sembra esser più un Eldorado senza crisi, visto che, pur con ripetuti rialzi dei tassi di interesse e altre misure finanziarie restrittive, non riesce a tenere a freno l’inflazione.
E’ ormai chiaro che nell’ambiziosa manovra di rilancio dell’economia mondiale basata sull’iniezione di nuova liquidità da parte degli Stati unici – in pratica, la stampa di nuovi dollari – qualcosa è andato storto e il mondo si trova sprovvisto di un «piano B», un piano di riserva per far ripartire il motore bloccato o troppo lento. Dalla politica non viene nessun barlume di soluzione e il mondo politico italiano spicca per la sua capacità di dimenticare i grandi problemi per dettagli come la polemica nascosta tra Bossi e Maroni, mentre molti mezzi di informazione dedicano più spazio alle difficoltà dell’Inter a trovare un nuovo allenatore che alle difficoltà dei giovani a trovare un lavoro.
E’ tempo di uscire da questo circolo vizioso, di provare a immaginarsi strade di crescita, di iniziare il discorso, troppo a lungo interrotto, sul nuovo sviluppo. Limitandosi all’Italia, lo si può fare domandandosi come potrebbe questo Paese riprendere, sia pure molto modestamente, un cammino di espansione della sua economia. Che cosa ci vorrebbe per passare dal misero 0,6 per cento del 2011 di cui – purtroppo realisticamente – ci accredita il Centro Studi della Confindustria diciamo a un 2 per cento nel 2012? Dopotutto, si tratta di un tasso che riuscivamo a raggiungere con disinvoltura ancora una quindicina di anni fa.
Deve essere chiaro che non c’è una ricetta miracolosa, non ci sono singole misure che possano agire da potentissime medicine. C’è invece una condizione di base che bisogna ricreare. Si tratta di un generale clima di collaborazione sulle questioni fondamentali, una sorta di consenso di fondo che ora manca nella società. Se non partiamo dal presupposto che tutti debbano rinunciare a qualcosa, che tutti hanno sbagliato qualcosa, se si reclamano o difendono diritti invece di accettare doveri è perfettamente inutile darsi da fare. La decomposizione dei rifiuti nelle strade di Napoli, dovuta a un contrasto di interessi particolari e al disprezzo per l’interesse collettivo assai più che a, pur importanti, motivi tecnici diventa una metafora della decomposizione dell’economia di un grande Paese nel più generale quadro di disgregazione del sistema politico-sociale europeo.
Schematicamente, le grandi rinunce sono due. E vedono da un lato alcuni diritti acquisiti, dall’altro alcuni capitali finanziari o immobiliari molto aumentati. Se gli orari, le ferie, le stesse procedure di inizio e termine del lavoro, l’età del pensionamento «non si toccano», le fabbriche – che devono competere con quelle di altri Paesi dove invece è possibile agire su questi elementi della produzione della ricchezza chiudono. Se i capitali finanziari devono essere esenti da imposte per definizione, e le rendite finanziarie devono continuare a essere poco tassate, se l’evasione fiscale deve continuare a essere tollerata, allora è bene rassegnarsi a vedere il Paese scendere sempre più in basso in tutti i confronti con ogni tipo di paesi del mondo.
Le due rinunce (quella «del lavoro» e quella «del capitale») non solo devono in qualche modo bilanciarsi e compensarsi ma anche essere accompagnate da un ulteriore scambio con le generazioni giovani e future. Finora siamo sopravvissuti alla crisi al prezzo di massacrare le prospettive di vita di gran parte di coloro che hanno meno di 35-40 anni; tutta la (poca) crescita che sarà possibile ottenere con questi sistemi deve andare a loro. Nel mondo del lavoro, una maggiore flessibilità all’uscita deve servire a garantire una maggiore stabilità all’entrata, oggi ridotta al peggior tipo di precariato.
Su queste basi è probabilmente possibile costruire un qualche programma politico di cui oggi né la maggioranza né l’opposizione sembrano disporre. Potremmo così provare a costruire un futuro decente per tutti. Per cercare di salire sugli ultimi autobus che la storia mette a nostra disposizione.