UN ESAME ATTENTO E NON FAZIOSO MOSTRA COME LA LEGGE N. 30/2003 NON ABBIA INTRODOTTO ALCUN TIPO DI RAPPORTO DI LAVORO A TERMINE CHE NON ESISTESSE ANCHE PRIMA, NÉ HA ALLARGATO LE MAGLIE DELLA REGOLAZIONE PER QUESTO ASPETTO
Lettera pervenuta il 19 giugno 2011 – Segue la mia risposta
Gentile senatore Ichino,
sono un ragazzo di 18 anni iscritto al PD da maggio dello scorso anno; non avendo chiaramente nè le competenze nè la saggezza propria di chi ha accumulato esperienza nel settore, mi rivolgo a lei per avere un chiarimento su un tema a me molto caro, che è il lavoro. Considerata la sua autorevolezza in materia, mi chiedevo che cosa ne pensasse della proposta formulata dal leader di SEL Nichi Vendola, una proposta di abolizione della legge 30/2003 (meglio nota come Legge Biagi). Confido in una sua risposta, poichè noto nel nostro partito una pericolosa ambiguità su queste tematiche, da un lato chi si approccia al problema in maniera ideologica e quasi ottocentesca, dall’altro chi come lei vuole discutere di riforme in quel contesto e viene isolato, o peggio, trattato come un nemico dei lavoratori.
Un cordiale saluto, cui aggiungo un sentimento di stima e gratitudine profonda per il suo operato
Matteo Maltinti – Bologna
La mia risposta, sulla legge Biagi, è contenuta nel dialogo con Renato Fioretti pubblicato su questo sito qualche tempo fa. Ne riporto qui sotto le battute riferite appunto a quella legge. Le affermazioni di Renato Fioretti sono in carattere tondo, precedute dalla sigla R.F.; le mie risposte sono in corsivo e colore azzurro, seguite dalla sigla tra parentesi p.i.
ESTRATTO DAL DIALOGO CON RENATO FIORETTI
R.F. – Per quanto riguarda, invece, il (diffuso) convincimento che la legge-delega 30/2003 e il suo decreto applicativo [c.d. legge Biagi – n.d.r.] si siano limitati “a disciplinare rapporti di lavoro già esistenti, sia pure con altro nome e regolati in misura meno restrittiva”: all’uopo, sono necessarie due premesse. Attraverso la prima, attesto di appartenere a quella corrente di pensiero secondo la quale non è sufficiente “derubricare” e/o “legittimare” un comportamento scorretto o, addirittura, un reato, per poterne – in seguito – disconoscere il carattere riprovevole. Con la seconda, ribadisco che la legge n. 30/2003 e il d. lgs. 276/03 hanno prodotto, a mio avviso, ulteriore precarietà e accentuato il fenomeno che lei definisce di “apartheid”.
Ma quest’ultima non dovrebbe essere una “premessa”, bensì semmai la conclusione dell’analisi. Invece, proprio l’analisi porta a concludere in senso esattamente contrario. Nelle mie osservazioni al primo documento di R. Fioretti io lo avevo invitato a indicare anche un solo rapporto di lavoro precario che sia stato introdotto nel nostro ordinamento dalla legge Biagi e che non preesistesse ad essa, con lo stesso nome o un nome diverso; e a indicare anche un solo caso in cui quella legge sia intervenuta ad allentare la disciplina di un rapporto di lavoro precario. Nella parte del documento che segue R. Fioretti si propone di rispondere a questa mia “sfida”; ma proprio questa sua risposta conferma il mio assunto. (p.i.)
R.F. – Procedendo per punti e in estrema sintesi, le cito alcuni esempi di arretramento delle condizioni dei lavoratori in ragione delle nuove norme:
a) Il contratto di lavoro ripartito (job sharing)
E’ solo il caso di rilevare che, a parte un riferimento in una circolare ministeriale (nr. 43 del 7 aprile 1998), trattasi di una normativa ex novo. Particolarmente odiosa appare la previsione secondo la quale, salvo diversa intesa tra le parti(!), nell’ipotesi di dimissioni o di licenziamento di uno dei due soggetti coobbligati, si estingue – automaticamente – il vincolo contrattuale per entrambi; lo stesso accade nel caso in cui entrambi i lavoratori siano nell’impossibilità di offrire la prestazione. In un solo colpo, si produce un vulnus alla garanzia del posto di lavoro in seguito ad un’eventuale contemporaneità di assenza per malattia, infortunio o maternità!
Il job sharing non è una forma di lavoro precario: è una clausola del contratto di lavoro che non incide sulla sua durata, bensì sulla disciplina dell’estensione e collocazione temporale della prestazione nell’arco della giornata, della settimana, del mese o dell’anno. Più precisamente, questa clausola consente a due lavoratori di suddividersi tra loro il tempo di lavoro in assoluta libertà. Si tratta dunque di una forma di organizzazione del tempo di lavoro che dà al prestatore una grande libertà di auto-organizzazione. La disciplina di questa fattispecie contenuta nella legge Biagi corrisponde esattamente, parola per parola, a quella contenuta nella circolare del ministro Treu del 1998: quella forma di organizzazione del tempo di lavoro era dunque praticabile – e praticata, sia pure in un numero di casi molto esiguo – anche prima del 2003. Non mi risulta, comunque, che dopo l’entrata in vigore della legge la diffusione di questa fattispecie sia aumentata in misura rilevante. (p.i.)
R.F. – b) Contratto di lavoro intermittente (job on call)
Rilevo, in primo luogo, che la sentenza della Corte Costituzionale nr. 210/92 aveva già valutato illegittimo il part-time “a chiamata”. Il Legislatore ha (colpevolmente) omesso di prevedere alcuna sanzione a carico di quei datori di lavoro che dovessero ricorrere al lavoro intermittente al di fuori delle ipotesi previste o violarne i divieti. In modo assolutamente contraddittorio con la natura del provvedimento, tutte le attività previste dal Regio Decreto 6 dicembre 1923, nr. 2657, possono essere interessate dalla stipula di un contratto di lavoro intermittente, indipendentemente dal carattere intermittente o discontinuo della prestazione!
La possibilità di reiterazione nel tempo del contratto di lavoro a termine di brevissima durata era prevista anche dalla legge n. 230/1962 (la quale, addirittura, lo consentiva senza imporne la forma scritta, quando la durata fosse inferiore a 12 giorni): anche prima della legge Biagi vi si faceva diffusamente ricorso, per esempio, quando si ingaggiavano dei camerieri per dei banchetti, oppure delle hostess per dei convegni, o in occasioni simili. La legge Biagi non ha dunque introdotto questa fattispecie, ma si è limitata ad attribuirle un nome nuovo e a regolarla in modo più restrittivo rispetto alla disciplina precedente.
R.F. – c) Somministrazione di lavoro
Non è stato riproposto, così com’era previsto dalla legge Treu, il divieto di fornitura di mano d’opera per le attività lavorative ritenute pericolose. Il lavoratore assunto dal somministratore con contratto a tempo indeterminato ha due “spade di Damocle” sul proprio capo. Infatti, oltre l’eventuale licenziamento per “giustificato motivo oggettivo” – legato a cause inerenti all’agenzia di somministrazione – deve temerne un secondo, della stessa natura, nel caso in cui venga meno il contratto di somministrazione a tempo indeterminato. Un’altra “chicca” è rappresentata dal fatto che i lavoratori “somministrati” sono esclusi dal computo delle soglie utili ai fini dell’applicazione di clausole di tutela a favore dei lavoratori o di obblighi dei datori di lavoro, ma, contemporaneamente (e inspiegabilmente), possono essere “conteggiati” ai fini della partecipazione delle imprese a gare per l’assegnazione di appalti pubblici.
Il lavoro temporaneo tramite agenzia è stato introdotto nel nostro ordinamento dalla legge Treu del 1997: non è stata dunque la legge Biagi a introdurre questo tipo legale di contratto di lavoro, né ad aumentare il novero casi in cui esso è ammesso. La novità portata dalla legge Biagi è stata soltanto lo staff leasing, che è una forma di organizzazione del lavoro nella quale il rapporto è a tempo indeterminato, con applicazione dell’articolo 18 dello Statuto e, addirittura, con divieto di licenziamento collettivo: lo staff leasing non può dunque in alcun modo qualificarsi come un rapporto di lavoro precario. (p.i.)
R.F. – d) Contratto di inserimento
Stando alle dichiarazioni, avrebbe dovuto sostituire la disciplina dei contratti di formazione e lavoro. In realtà, si tratta di tutt’altra cosa. Tra l’altro, la legge 30/2003 prevedeva “il riordino dei contratti a contenuto formativo”, non il superamento dei cfl, né, tanto meno, l’invenzione della nuova tipologia contrattuale.
Nel merito, è sufficiente evidenziare che non è un “contratto a causa mista” (la formazione è espressamente prevista come “eventuale”), non è riservato ai giovani, è reiterabile presso un diverso datore di lavoro e, soprattutto, si applica anche nei casi di “reinserimento” nel mondo del lavoro, autorizzando una sorta di sotto-salario anche per lavoratori già dotati di ampia esperienza lavorativa e professionale. L’unico punto in comune con i cfl è il sottoinquadramento di due livelli. Per i portatori di handicap la durata massima è pari a 36 mesi e – stante il mancato divieto di reiterabilità presso un diverso datore di lavoro – non è difficile immaginare la (peregrina) sorte prospettata a danno dei soggetti più deboli del mercato del lavoro.
L’affermazione secondo cui il “contratto di inserimento” sarebbe cosa sostanzialmente diversa dal vecchio “contratto di formazione e lavoro a basso contenuto formativo” non mi sembra sostenibile: si tratta sostanzialmente della stessa cosa, sia pure disciplinata in modo marginalmente diverso. Non si può davvero sostenere che questa figura abbia allargato le possibilità di assunzione in posizione precaria rispetto alla situazione precedente, che vedeva una utilizzazione larghissima del c.f.l. nella sua versione “minimalista”. (p.i.)
R.F. – e) Lavoro a progetto
“Salvo quanto diversamente concordato nel contratto individuale, il collaboratore a progetto può prestare la propria opera a favore di più committenti”! Questo che appare come un punto in positivo (per il lavoratore) è, invece, un passo indietro rispetto alle ex Co.co.co. Infatti, secondo una ricorrente prassi, il collaboratore che concedeva la “esclusiva” a favore di un unico committente, percepiva una maggiorazione del compenso. La nuova norma, in concreto, lascia al committente la possibilità di pretendere – in sede di stesura del contratto – l’esclusiva della prestazione; senza alcun obbligo di compensare in modo adeguato tale disponibilità. Rispetto al recesso: l’aver previsto che le parti possono stabilire (con il “rapporto di forze” che ben conosciamo) il recesso prima della scadenza per giusta causa ovvero secondo diverse causali o modalità, incluso il preavviso, equivale a lasciare il collaboratore “in balia” del committente.
Resta il fatto che, prima della legge Biagi, non vi era alcun limite alla possibilità di ingaggio di un lavoratore con un contratto di collaborazione autonoma continuativa. In questo campo, dunque, la legge del 2003 ha introdotto limiti e regole dove prima non ce n’era nessuna. Tanto è vero, che il ricorso a questa fattispecie contrattuale ha subito una netta flessione in conseguenza dell’applicazione della nuova normativa. (p.i.)
R.F. – f) Somministrazione di lavoro per soggetti svantaggiati e disabili
L’art. 14 del 276/03 appariva, a prima vista, una riproposizione di quanto previsto all’art. 12 della legge 68/99, ma, in effetti, non è così; le nuove norme rappresentano un indubbio arretramento.
Infatti, a differenza di quanto previsto in precedenza, al disabile “parcheggiato” presso una cooperativa sociale, è corrisposta una retribuzione riferita ai contratti collettivi di categoria applicati dalle cooperative sociali (con livelli retributivi notoriamente più bassi), piuttosto che al contratto collettivo (più favorevole) applicato dall’azienda di provenienza.
Attraverso la previgente disciplina, il lavoratore era assunto a tempo indeterminato – dal datore di lavoro cui spettava rispettare l’obbligo della c.d. “riserva di legge” – e successivamente “parcheggiato” presso una cooperativa sociale. La nuova disposizione non prevede più (quale pre-condizione) l’assunzione a tempo indeterminato da parte del datore di lavoro “obbligato”.
L’art. 12 della legge 68/99 vietava – espressamente – che un soggetto disabile potesse essere interessato da un secondo “parcheggio” presso una cooperativa sociale. Il 276/2003 non prevede lo stesso divieto; il che, evidentemente, nel silenzio della legge, equivale a consentirlo!
In questo campo contano i risultati: la nuova norma ha, o no, aumentato le possibilità effettiva di accesso al lavoro per i disabili? (p.i.)
R.F. – g) Cessione di ramo d’azienda
La nuova formulazione dell’art. 2112, comma 5, del c.c. ha escluso la necessità che l’autonomia organizzativa dell’attività da trasferire sia precedente e conservi la sua identità all’atto del trasferimento, come, invece, era richiesto dalla previgente disciplina. A mio avviso, l’eliminazione del requisito della “preesistente autonomia funzionale” si presta a un’ampia serie di operazioni poco trasparenti.
La mia critica a R. Fioretti sulla legge Biagi riguardava soltanto la sua affermazione secondo cui quella legge avrebbe aumentato il precariato nel nostro Paese. La norma sulla cessione di ramo d’azienda si colloca in tutt’altro capitolo: ne parleremo un’altra volta, per non appesantire eccessivamente questo già lungo scambio. (p.i.)
R.F. – h) Part-time
E’ stata abolita la possibilità che la contrattazione collettiva potesse regolare il c. d. “consolidamento”.
Per quanto attiene al lavoro “supplementare”, il lavoratore, in pratica, non avrà scelta. Se previsto dal contratto di lavoro, potrà dichiararsi disponibile oppure rifiutare. Nella seconda ipotesi, però, se è vero che il datore di lavoro non potrà licenziarlo, è altrettanto vero che non è più escluso – come invece espressamente vietato dalle precedenti norme – che il datore di lavoro possa adottare un provvedimento disciplinare.
La nuova normativa ha introdotto le c.d. “clausole elastiche”, espressamente vietate dalla previgente normativa. E’ stato abrogato il “diritto di ripensamento”. Le nuove norme non prevedono più che il lavoratore, in caso di trasformazione del rapporto da tempo pieno a tempo parziale, possa essere assistito da un rappresentante sindacale che ne tuteli i diritti e verifichi che si tratta di una scelta realmente condivisa dalle parti. Quelle che una volta, per i lavoratori in regime di part-time “verticale”, erano considerate prestazioni di lavoro “straordinario”, sono state declassate a lavoro “supplementare”; con evidenti (e notevoli) conseguenze economiche a danno dei lavoratori.
Vale la stessa osservazione fatta sopra: quello del part-time è tema del tutto diverso da quello del lavoro precario. (p.i.)
R.F. – Mi auguro, con questo, di non rientrare tra coloro che dicono sciocchezze. Mi accontenterei di essere tra quanti, pur fermamente convinti della bontà delle proprie posizioni, sono altrettanto consapevoli della necessità positiva del confronto e del pluralismo delle idee.
A me sembra che, almeno per quel che riguarda la legge Biagi, questo confronto confermi la mia tesi: cioè che quella legge non ha introdotto alcuna forma nuova di lavoro precario, né ha allargato – bensì ha semmai ristretto – la possibilità di far ricorso a quelle preesistenti. (p.i.)