CONTRATTI: CHI HA PAURA DEL MODELLO TEDESCO?

NESSUNO PENSA DI ABOLIRE IL CONTRATTO COLLETTIVO NAZIONALE, VISTO CHE DUE TERZI DEI LAVORATORI NON SONO COPERTI DALLA CONTRATTAZIONE AZIENDALE – MA TUTTO QUELLO CHE SI NEGOZIA AL LIVELLO CENTRALE DEVE POTER ESSERE NEGOZIATO ANCHE AL LIVELLO AZIENDALE, COME IN GERMANIA

Lettera sul lavoro pubblicata dal Corriere della Sera il 20 giugno 2011 

Caro Direttore, sono in molti ad attendersi che i giudici del lavoro, cui la Fiom ha fatto ricorso contro gli accordi Fiat di Pomigliano e Mirafiori, decidano la sorte del contratto collettivo nazionale di lavoro e dei suoi rapporti con la contrattazione aziendale. Comunque vadano i giudizi, quelle attese andranno deluse. A Torino l’altro ieri il giudice ha avvertito le parti in causa che i contratti stipulati sono in sé legittimi: dunque produrranno i loro effetti quale che sia la sentenza, la quale verterà soltanto sul punto se ci sia stata o no una violazione procedurale ai danni della Fiom e quali debbano essere le procedure sindacali da seguire per l’attivazione dei nuovi stabilimenti.
     La questione della struttura della contrattazione collettiva devono dunque risolverla Confindustria e sindacati, che si incontrano domani per discuterne. E, se a quel tavolo non si arriverà a un grande accordo interconfederale sottoscritto da tutti – come riuscì a ottenere nel luglio 1993 il ministro del Lavoro Giugni, con un’opera di sapiente tessitura e cucitura – questa volta tutti concordano che debba essere il legislatore a sciogliere il nodo. Anche il protocollo firmato nel 1993 da tutti i sindacati, del resto, prevedeva la necessità di un intervento legislativo in materia di rappresentanza sindacale e di efficacia dei contratti collettivi di diverso livello.
     Se ne è discusso a Genova nei giorni scorsi, nell’assemblea programmatica del Pd, con la partecipazione anche dei segretari generali di Cgil, Cisl, Uil e del direttore generale di Confindustria. Uno spettatore non esperto di politichese e di sindacalese avrebbe stentato a cogliere le differenze di orientamento negli interventi che si sono susseguiti su questo punto. Tutti – anche il rappresentante degli industriali ‑ hanno sottolineato l’irrinunciabilità del contratto collettivo nazionale. Per un motivo molto semplice e da tutti condiviso: due terzi dei lavoratori italiani non sono coperti dalla contrattazione aziendale. Se dunque non ci fosse il contratto nazionale, questi due terzi dei rapporti di lavoro resterebbero senza regole sulle materie riservate alla contrattazione collettiva (soprattutto retribuzione e inquadramento professionale).
     La questione cruciale – sulla quale però il dibattito e il documento conclusivo dell’assise di Genova sono stati molto vaghi ‑ è se, a quali condizioni ed entro quali limiti il contratto aziendale possa sostituire la disciplina contenuta in quello nazionale. È la questione che la vicenda Fiat ha posto bruscamente all’ordine del giorno delle relazioni industriali italiane, strappando la tela non soltanto del protocollo del 1993, ma anche dell’accordo del 2009 con cui Cisl, Uil e Confindustria, al costo di uno scontro durissimo con la Cgil, avevano molto timidamente aperto alcuni spazi di derogabilità del contratto nazionale. Se si toglie la Fiom, che si batte per il ripristino integrale del vecchio assetto della contrattazione collettiva, oggi l’opinione che va per la maggiore nelle organizzazioni sindacali, Cgil compresa, e nel Pd è che si debba andare in direzione di uno “snellimento” del contratto nazionale, pur conservandone l’inderogabilità, per lasciare più spazio alla contrattazione aziendale. Senonché, se “snellimento” significa riduzione del contenuto del contratto, in tutta la vasta area dove la contrattazione aziendale ancora non riesce ad arrivare questo necessariamente riduce la protezione dei lavoratori. Logica vuole, dunque, che il contratto collettivo nazionale conservi la sua capacità di regolare compiutamente il lavoro in quella vasta area; ma questo implica che la contrattazione aziendale possa più largamente sostituire la disciplina nazionale. Quanto largamente? Molto.
     Nell’era della globalizzazione, il sindacato deve poter negoziare a 360 gradi su piani industriali anche fortemente innovativi in materia di organizzazione del lavoro, di struttura delle retribuzioni, di distribuzione dei tempi di lavoro. E deve poterlo fare in azienda; perché è al livello aziendale, non a quello di un intero settore, che l’innovazione si presenta nella fase iniziale della sua diffusione. È vero che non tutta l’innovazione è buona; ma se per paura di quella cattiva ci chiudiamo anche a quella buona, il Paese continua a non crescere. E gli investimenti stranieri si fermano alle Alpi. Nella Germania che è stata per decenni la patria del modello della contrattazione centralizzata, da diversi anni si è introdotta la regola che consente al contratto aziendale di sostituire il contratto nazionale in parte o anche del tutto. Perché mai ciò che sta dando buona prova in Germania dovrebbe essere impraticabile in Italia?
      D’altra parte, sindacati e Confindustria possono benissimo accordarsi per mettere briglie più strette alla contrattazione aziendale. Ma non possono impedire a un imprenditore di tenersi fuori dal loro gioco. Se dunque essi vogliono evitare che la riforma della contrattazione la facciano di fatto le imprese non associandosi a Confindustria, faranno bene a guardare con più attenzione e meno chiusure mentali al modello tedesco.

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