CHE COS’È IL DUALISMO DEL NOSTRO MERCATO DEL LAVORO E COME LO SI SUPERA DAVVERO

NON PUÒ BASTARE LA PARIFICAZIONE CONTRIBUTIVA:  PER GARANTIRE UNIVERSALITÀ EFFETTIVA AL NOSTRO DIRITTO DEL LAVORO OCCORRE RISCRIVERLO SECONDO LE INDICAZIONI CHE CI VENGONO DALL’EUROPA

Intervento all’Assemblea nazionale del Partito Democratico su Persone, Lavoro, Democrazia – Genova, 17 giugno 2011

Riprendo l’appello con cui Franco Marini ha concluso il suo bell’intervento di questa mattina: un’appello, che condivido fino in fondo, all’unità del Partito. Vorrei solo aggiungere una considerazione: l’unità che rende forte il Partito democratico non è quella che nasce da un “pensiero unico”, secondo il modello del partito monolitico del secolo scorso, ma è quella che nasce dalla volontà di stare insieme di persone con idee e retroterra culturali diversi. Quanto più diversi sono questi retroterra e gli orientamenti di ciascuno di noi, tanto più la nostra capacità di essere uniti consente al Partito democratico di candidarsi credibilmente a governare il Paese.
 Se è così, come credo, francamente non capisco il fastidio con cui è stata accolta da alcuni di noi la presentazione a questa Assemblea del documento Per dare valore al lavoro, che ho firmato insieme a Michele Salvati, Maurizio Ferrera, Ivan Scalfarotto, Enrico Morando e Paolo Giaretta, come contributo alla nostra elaborazione. (Colgo questa occasione per smentire la voce che è circolata questa mattina in sala stampa, secondo cui Sergio Chiamparino, Ignazio Marino e Walter Veltroni avrebbero ritirato il loro sostegno a questo documento: al contrario, sempre più esso sta raccogliendo consensi in una larga minoranza del nostro Partito.) Questo documento non ha mai inteso proporsi come fattore di divisione al nostro interno. Per altro verso, in un momento di discussione come questo, su di un tema così controverso e arroventato, avrei trovato appropriato che venissero presentati anche altri documenti, vista la pluralità degli orientamenti e sensibilità culturali che per sua fortuna il nostro Partito è capace di ospitare. D’altra parte, un Partito come il nostro ha bisogno non soltanto dei politici puri, che si occupano del consenso immediato dell’opione pubblica: ha bisogno anche di qualcuno che si assuma il compito sovente ingrato di lavorare sui terreni più difficili, elaborando le soluzioni necessarie ma sulle quali il consenso potrà maturare soltanto in un secondo tempo. Il lavoro di questi ultimi risulta utilissimo quando la realtà circostante subisce delle brusche accelerazioni: è quello che consente al Partito di non farsi trovare impreparato. E sul tema del dualismo del mercato del lavoro è possibile che si verifichi a breve una di queste accelerazioni: ne parlerò tra poco.

Con il documento che abbiamo distribuito ci proponiamo di mettere a fuoco e avviare a soluzione questo problema: il nostro diritto del lavoro da anni ha perso la propria vocazione e la propria attitudine all’universalità; ha deliberatamente rinunciato a proteggere le nuove leve. I datori di lavoro oggi sono del tutto liberi di scegliere se applicarlo o no; e nella maggior parte dei casi scelgono di non applicarlo. Se vogliamo che torni davvero a essere applicabile a tutti, dobbiamo in larga parte riscriverlo.

Vengo dal Senato, dove due terzi degli assistenti parlamentari sono assunti come collaboratori autonomi. Fanno esattamente lo stesso lavoro dei loro colleghi assunti come lavoratori dipendenti, ma a loro il diritto del lavoro non si applica. Stesso discorso alla Camera dei Deputati. La cosa è considerata da tutti – a quanto mi risulta, anche dalla maggior parte dei parlamentari del Pd – assolutamente regolare, anzi ovvia.

È lo stesso problema che il Segretario della Fillea-Cgil di Modena, Sauro Serri, denuncia in riferimento al settore edile, quando ci avverte che da tempo ormai nessun muratore viene più assunto come dipendente regolare: tutti a partita Iva, tranne pochi “privilegiati” soci di piccole cooperative. Stessa cosa per i medici e infermieri delle case di cura, per il settore editoriale: in questi settori da anni solo una assunzione su dieci avviene in forma di lavoro dipendente; tutte le altre, quando non sono in forma di appalti di servizi a cooperative di lavoro, sono in forma di collaborazione sedicente autonoma.

L’Inpgi e la FNSI ci informano che oggi i giornalisti regolari sono meno della metà del totale: gli altri sono tutti qualificati – se va bene – come collaboratori a progetto, altrimenti come “partite Iva”, nonostante che lavorino continuativamente per un unico committente, svolgendo esattamente la stessa prestazione di un redattore regolare. E la discriminazione appare in tutta la sua durezza nel livello retributivo: i regolari guadagnano mediamente più di 50.000 euro annui, mentre gli “autonomi” ne guadagnano mediamente meno di 10.000 (i dati esatti, raccolti in una audizione della Commissione Lavoro del Senato, sono disponibili sul mio sito).

Questa è la situazione. Il 7 giugno scorso la Commissione Europea la ha individuata con precisione come il problema cruciale del mercato del lavoro italiano. Il  documento della Commissione Europea è la risposta al capitolo di politica del lavoro del Piano Nazionale delle Riforme italiano (quel capitolo nel quale il nostro Governo aveva sostenuto che il “dualismo” fra protetti e non protetti nel nostro tessuto produttivo non sarebbe un problema, perché la percentuale del 13 per cento dei contratti a termine in Italia è in linea con la media dell’Unione). Leggiamo che cosa dice il documento della Commissione:

“Il PNR non affronta il problema del dualismo del mercato del lavoro perché, secondo le autorità, l’Italia non ne risentirebbe più di altri Paesi dell’UE. Tuttavia un dualismo esiste tra lavoratori dipendenti con contratti a durata indeterminata e lavoratori con una protezione limitata, se non del tutto inesistente”. Il vero problema – prosegue la Commissione – non riguarda “tanto i lavoratori dipendenti con contratti a tempo determinato, che rappresentano una percentuale dell’occupazione totale prossima alla media dell’UE (13%)”: non sono questi “a essere scarsamente protetti, bensì piuttosto i lavoratori registrati ufficialmente come autonomi ma in realtà in una relazione di lavoro subordinato come tutte le altre (i cosiddetti para-subordinati o collaboratori). Le loro possibilità di essere riconosciuti come dipendenti o di diventare veri lavoratori autonomi sono molto inferiori alle possibilità dei lavoratori con contratti a tempo determinato di ottenere un contratto permanente”.

Questo, dunque, è il problema, che anche l’Europa ci chiede di risolvere. E che presto l’Europa ci imporrà di risolvere: perché questo dualismo configura una discriminazione specificamente vietata dalla direttiva comunitaria numero 70 del 1999. Sto preparando con Elenora Voltolina, Giulia Innocenzi e un gruppo di giovani precari una denuncia alla Commissione che porterà – speriamo – all’apertura di una procedura di infrazione nei confronti dell’Italia, obbligandoci ad affrontarlo in modo incisivo. Già il Tribunale di Genova, del resto, nelle settimane scorse ha dichiarato l’incompatibilità del nostro regime di apartheid con il diritto europeo.

Ora dobbiamo chiederci: quando la Commissione Europea ci obbligherà a porre fine a questa indecente situazione di apartheid nel nostro mercato del lavoro e tessuto produttivo, pensiamo davvero di potercela cavare soltanto con la parificazione del contributo previdenziale dovuto alla Gestione separata dell’Inps per tutti i lavoratori di serie B e C rispetto al contributo previdenziale dovuto al Fondo Lavoratori Dipendenti?

È evidente che questa parificazione – giustamente indicata come necessaria nel documento presentato da Stefano Fassina (ma ora la propone anche il ministro Tremonti, sia pure essenzialmente al fine di fare cassa) ‑ costituisce un primo passo importante. Su questo punto siamo tutti d’accordo. Ma pensiamo davvero che, compiuto questo passo, il problema dell’apartheid sarà superato? Cioè che, parificati i contributi previdenziali, tutti i deputati e senatori riconosceranno i loro assistenti come lavoratori dipendenti, tutte le imprese edili, le case di cura, le case editrici, non avranno più motivo di tenere “a partita Iva” i loro muratori, medici, infermieri, giornalisti?

E quando Tremonti o chi lo sostituirà avrà disposto quel pareggiamento, cosa faremo? Dichiareremo risolto il problema?

Se pensiamo che questo imponente fenomeno del dualismo fra protetti e non protetti sia tenuto in piedi soltanto da quel 5 o 6 per cento che divide oggi l’aliquota contributiva per il lavoratore subordinato da quella applicabile al collaboratore autonomo, perdiamo di vista il vero nocciolo del problema. Una volta parificato il contributo previdenziale, resta la differenza profonda di disciplina, tra rapporti di lavoro dipendente e rapporti di collaborazione autonoma, in materia di malattia, di congedi parentali, di orario di lavoro e riposi, di ferie, di trattamento di fine rapporto. E resta soprattutto la differenza profonda di disciplina in materia di cessazione del rapporto: disciplina del termine e disciplina del licenziamento, individuale e collettivo.

È ancora la Commissione Europea, nello stesso documento della settimana scorsa che ho citato prima, a individuare il nodo con precisione chirurgica: “In realtà, una protezione rigida dal licenziamento, anche tramite un’applicazione molto restrittiva dei licenziamenti collettivi e dei licenziamenti per ragioni economiche, scoraggia l’assunzione di lavoratori permanenti e pertanto aumenta il ricorso a contratti … di lavoro para-subordinato” o autonomo. In altre parole, la Commissione Europea conferma che un diritto del lavoro che voglia essere capace di applicarsi all’intera area del lavoro sostanzialmente dipendente deve abbandonare il vecchio modello “anni ’60 e ’70”, che fondava la sicurezza dei lavoratori sull’ingessatura dei loro rapporti di lavoro nella grande impresa; e deve invece costruire la sicurezza delle persone sulla garanzia di continuità del reddito e sull’investimento nella professionalità del lavoratore. È il modello della flexsecurity: un modello che non ha nulla a che vedere con il liberismo selvaggio, ma al contrario attinge all’esperienza dei Paesi dove i lavoratori – soprattutto i più deboli, i drop outs, gli ultimi della fila ‑ sono meglio protetti che in qualsiasi altra parte del mondo.

Se vogliamo adempiere il nostro obbligo comunitario, e al tempo stesso rispondere positivamente alla domanda sempre più forte che l’intera società civile italiana rivolge alle proprie forze politiche, non possiamo limitarci a proporre una parificazione dei costi contributivi e/o retributivi tra lavoro dipendente e collaborazioni autonome. Né possiamo limitarci a dire che la legge c’è e la sua elusione va repressa: i 2000 ispettori del lavoro oggi all’opera nel nostro Paese riescono a stanare solo uno su diecimila casi stimati di evasione o elusione. Solo in due o tre casi ogni diecimila i lavoratori interessati ricorrono ad avvocati e giudici per contestare la forma del loro rapporto; anche perché in un caso su due di contestazione perdono la causa per difetto di “prova della subordinazione”.

Se vogliamo risolvere il problema occorre individuare l’area di applicazione del diritto del lavoro, cioè del rapporto di lavoro dipendente, sulla base di requisiti che non richiedano ispettori, avvocati o giudici per essere accertati: requisiti come la monocommittenza, la continuità e l’entità del reddito, che emergano immediatamente dai tabulati dell’Inps e dell’Erario  [*]. È solo così che possiamo garantire l’effettiva universalità del diritto del lavoro. Per questo ancora il segretario della Fillea-Cgil di Modena dice che solo così si può risolvere alla radice il problema dei muratori assunti con la partita Iva. Ma, naturalmente, se compiamo un’operazione così incisiva dobbiamo anche farci carico di ridisegnare un diritto del lavoro che ‑ almeno per le nuove assunzioni che avverranno d’ora in avanti – sia realisticamente suscettibile di applicarsi davvero in tutta questa area, in cui operano oggi quasi 19 milioni di lavoratori in Italia.

Ora, siamo tutti d’accordo che l’articolo 18 così come è strutturato oggi non è realisticamente applicabile in tutta questa area, della quale esso oggi copre meno della metà. Lo ha riconosciuto anche Stefano Fassina, in un dialogo pubblicato dal numero di MicroMega, in edicola da ieri. Ma allora non possiamo esimerci dal riscrivere delle regole in materia di licenziamenti che siano davvero suscettibili di applicarsi a tutti i rapporti di lavoro dipendente: anche a tutti quei muratori, quei giornalisti, quei medici, quegli infermieri, quei redattori e correttori di bozze delle case editrici, e gli altri milioni di lavoratori, giovani ma anche non più giovani, che oggi lasciamo privi di qualsiasi protezione.

            Si è detto e scritto – lo ha scritto ancora Ugolini sull’Unità di ieri – che la soluzione delineata in questo nostro documento eliminerebbe l’articolo 18. Può apparire paradossale, ma le cose stanno in modo opposto: c’è più articolo 18 in quel progetto che nell’ordinamento attuale. Oggi, è vero, l’articolo 18 si applica in materia di licenziamento disciplinare, di licenziamento discriminatorio e di licenziamento per motivo economico od organizzativo; ma si applica soltanto a 9 milioni di lavoratori su quasi 19 milioni. La nuova disciplina che proponiamo non tocca i vecchi rapporti di lavoro stabili; per i nuovi rapporti di lavoro dipendente estende l’applicazione dell’articolo 18 a tutti per la parte in cui davvero esso è essenziale, cioè su licenziamenti disciplinari e licenziamenti discriminatori. E soltanto sui licenziamenti di natura economica od organizzativa sostituisce la vecchia tecnica protettiva; ma la sostituisce con il modello di protezione adottato da decenni nei Paesi del Nord-Europa: quello che ci viene indicato dalla Commissione Europea come il solo modello che consenta di coniugare la flessibilità necessaria alle imprese con la massima sicurezza economica e professionale dei lavoratori. Per questo dico che c’è più articolo 18 in questo progetto che nel lasciare le cose come stanno!

            Non ho, comunque, la pretesa che la maggioranza del Partito Democratico faccia suo oggi questo progetto. Quello che chiedo alla maggioranza è di non ostracizzarlo, di non creargli intorno cordoni sanitari; di considerarlo come parte del nostro comune patrimonio progettuale, sapendo che esso è condiviso da una larga minoranza in seno al Partito stesso. Potrebbe venire, e forse verrà anche molto prima di quando ce lo attendiamo, il momento in cui avremo bisogno urgente di sperimentare una soluzione di questo genere per evitare le sanzioni dell’ordinamento europeo contro il nostro regime attuale di apartheid. Concediamoci almeno di preparare il terreno per questa eventualità con un dibattito sereno e pragmatico. Questa, del resto, è una delle ragioni costitutive del Partito Democratico.

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[*] Per i lettori che non conoscono la soluzione proposta nel d.d.l. n. 1873/2009, ne riporto qui la definizione di “lavoro subordinato e lavoro dipendente” contenuta nei primi due commi dell’articolo 2094:
           1. È prestatore di lavoro subordinato colui che si sia obbligato, dietro retribuzione, a svolgere per una azienda in modo continuativo una prestazione di lavoro personale soggetta al potere direttivo del creditore.
           2. E’ prestatore di lavoro dipendente da un’azienda il lavoratore subordinato, nonché il lavoratore autonomo continuativo, l’associato in partecipazione, o il socio lavoratore di società commerciale, che traggano più di due terzi del proprio reddito di lavoro complessivo dal rapporto con l’azienda medesima, salvo che ricorra alternativamente uno dei seguenti requisiti:
   a) la retribuzione annua lorda annua del collaboratore autonomo o dell’associato in partecipazione superi i 40.000 euro; tale limite si dimezza per i primi due anni di esercizio dell’attività professionale;
   b) il collaboratore autonomo, l’associato in partecipazione o il socio lavoratore sia iscritto a un albo o un ordine professionale incompatibile con la posizione di dipendenza dall’azienda.

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