NOTE TECNICHE SULL’ACCORDO DI RIFORMA DELLA CONTRATTAZIONE COLLETTIVA

PERCHE’ E’ TECNICAMENTE IMPOSSIBILE STABILIRE SE L’INTESA FIRMATO DA CONFINDUSTRIA CON CISL, UIL E UGL CAUSERA’ UN AUMENTO O UNA RIDUZIONE DELLA PARTE DELLE RETRIBUZIONI NEGOZIATA AL LIVELLO NAZIONALE

Articolo pubblicato sul sito lavoce.info il 30 gennaio 2009 

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 Il motivo principale per cui la Cgil ha rifiutato l’intesa sulla riforma della contrattazione collettiva è la prospettiva che nei futuri rinnovi nazionali esso produca una riduzione degli adeguamenti retributivi rispetto all’inflazione. Cisl, Uil, Ugl e Confindustria, che lo hanno firmato, negano invece questa prospettiva. Cerchiamo di capire come stanno realmente le cose.

Occorre considerare, innanzitutto, che il nuovo accordo prevede esplicitamente che sia negoziato in ogni impresa un premio di produzione: sindacato e lavoratori avranno dunque un vero e proprio diritto all’apertura della trattativa per l’istituzione del premio di produzione in ciascuna azienda in cui il nuovo sistema si applicherà. Questo deve portare a un mutamento di grande rilievo, sia dal punto di vista dell’estensione della contrattazione aziendale, sia nella struttura delle retribuzioni. I sindacati che sapranno riformare se stessi e mettersi in grado di svolgere incisivamente questa funzione attiveranno un modello di relazioni industriali significativamente diverso da quello attuale. Ed è subito evidente che, se non si tiene conto di questo dato, tutti i confronti fra vecchio e nuovo sistema sono inattendibili.

 

               Per quel che riguarda la parte della retribuzione negoziata al livello nazionale, l’intesa istituisce un meccanismo di adeguamento dei minimi tabellari secondo un indice previsionale costruito sulla base dell’IPCA (indice dei prezzi al consumo armonizzato in ambito europeo) che non è di per sé meno protettivo rispetto al meccanismo precedente, fondato sul riferimento all’“inflazione programmata”: esso, semmai, è destinato a portare un adeguamento più vicino all’inflazione reale, rispetto a quanto accaduto nel quindicennio passato.
               Nel nuovo sistema il sindacato rinuncia a negoziare al livello nazionale aumenti retributivi collegati agli aumenti di produttività (come avveniva nel vecchio sistema), al fine di lasciare più spazio allo sviluppo della contrattazione al livello aziendale su questa materia. L’accordo, però, prevede pure che i contratti nazionali di settore istituiscano un “elemento retributivo di garanzia” (ERG), destinato a scattare nelle imprese dove la contrattazione di secondo livello di fatto non si attivi. È sostanzialmente una generalizzazione del meccanismo già da tempo previsto dal contratto collettivo dei metalmeccanici (dove è chiamato “assegno perequativo”). Anche se si considera soltanto la parte di retribuzione negoziata al livello centrale, non si può ragionevolmente affermare che il risultato di queste nuove norme-quadro sarà una sua riduzione prima di conoscere l’entità dell’ERG che verrà stabilita da ciascun contratto nazionale.
               La Cgil esprime a questo proposito il timore che, nei settori in cui il sindacato è più debole, l’ERG di fatto non venga contrattato, o venga determinato in misura troppo bassa. Ma dove il sindacato è più debole era più difficile anche il “recupero di produttività” che veniva negoziato al livello nazionale nel vecchio sistema.
               Finora, dunque, nel quadro dell’accordo del 1993, al livello nazionale si negoziava una parte maggiore della retribuzione complessiva, secondo un criterio tendenzialmente uguale per tutti i settori; si lasciava così uno spazio più ridotto alla parte di retribuzione legata agli aumenti di produttività o redditività effettivi e si sacrificavano sul piano nazionale le retribuzioni delle aziende più dinamiche. È possibile che anche questo abbia contribuito a tenere il livello generale delle nostre retribuzioni nettamente più basso rispetto a quelli di tutti i nostri maggiori partner europei.
               D’altra parte, aumentare le retribuzioni è possibile soltanto in due modi. Il primo consiste nell’erosione del profitto, dove c’è, a vantaggio dei redditi di lavoro; per questo lo strumento più efficace e penetrante – almeno in riferimento alle aziende con produttività e redditività più alte della media ‑ non è certamente la negoziazione di uno standard nazionale che deve andar bene anche per i settori dove produttività e redditività sono più basse. Il secondo consiste nel rendere più produttivo il lavoro; questo è possibile soltanto attraverso l’innovazione; e l’innovazione che più conta, quella che sovente è portata dall’imprenditore straniero, la si contratta al livello aziendale, non a quello nazionale. Sindacati e lavoratori italiani finora hanno fatto troppo poco questo mestiere; non si può ragionevolmente negare che il nuovo accordo interconfederale apra maggiori spazi per svolgerlo.
               Nel maggio scorso avevo proposto una formulazione della clausola relativa all’ERG suscettibile di offrire una “garanzia” assai efficace, pur mantenendo uno stretto collegamento di questa voce retributiva con l‘andamento di ciascuna azienda. Si trattava della traduzione in linguaggio contrattuale di un’idea originariamente proposta da Tito Boeri e Pietro Garibaldi: un premio di produttività “di default” collegato al margine operativo lordo di ciascuna azienda, ma i cui parametri minimi fossero stabiliti a livello nazionale, per il caso di difetto di negoziazione nella singola impresa. Questo avrebbe anche costituito una sorta di “traccia” per la contrattazione aziendale anche nelle piccolissime aziende, da parte di lavoratori o sindacalisti privi di qualsiasi esperienza in questa materia. Vi è ragione di ritenere che, se la Cgil, nella trattativa svoltasi nel corso del 2008, avesse sostenuto un meccanismo di questo genere, la Confindustria non avrebbe opposto un rifiuto pregiudiziale. È vero che questo meccanismo non avrebbe prodotto aumenti retributivi nelle aziende che più soffrono l’attuale fase di recessione; ma questo non è necessariamente un male: la flessibilità della retribuzione in relazione all’andamento aziendale favorisce la continuità dell’occupazione ed evita le sospensioni del lavoro e i licenziamenti.

 

L’accordo del 22 gennaio prevede la stipulazione entro tre mesi di un accordo ulteriore, per la definizione dei criteri di misurazione della rappresentatività dei sindacati, al livello nazionale e a quello aziendale. È evidente che un sistema di regole sulla rappresentanza non può funzionare se non lo firma anche la confederazione sindacale maggiore. Mi sembra difficile, però, che la Cgil possa sottrarsi alla negoziazione e stipulazione di questo secondo accordo, essendo sempre stata proprio la fissazione delle regole sulla misurazione della rappresentatività dei sindacati la bandiera della stessa Cgil. Quanto al contenuto di questo futuro accordo, fin dal maggio scorso le tre confederazioni maggiori hanno raggiunto un’intesa abbastanza precisa sulle regole da istituire.

Questo secondo passaggio potrebbe costituire l’occasione per ricucire lo “strappo” tra le confederazioni. E a quel punto, anche la riforma della struttura della contrattazione collettiva potrebbe decollare, nonostante il probabile permanere del dissenso della Cgil: una volta stabilito il criterio di misurazione della rappresentatività, settore per settore sarà la coalizione sindacale maggioritaria a decidere se applicare o no le nuove regole. Così avremo, per esempio, a seconda della maggioranza sindacale operante in ciascun settore, quello tessile e quello chimico che applicheranno le nuove regole, il settore metalmeccanico e quello del commercio che non le applicheranno; e ci sarà la possibilità di misurare e verificare gli effetti dell’uno e dell’altro assetto della contrattazione collettiva. A ben vedere, un vero pluralismo sindacale significa proprio questo: possibilità di modelli diversi di relazioni industriali di confrontarsi e competere tra di loro, in modo che i lavoratori possano compiere la loro scelta a ragion veduta, in modo pragmatico e non soltanto sulla base di opzioni ideologiche. Rinvio in proposito al dialogo con Eugenio Scalfari pubblicato in questo sito nel febbraio 2006.

 

Tra le altre novità contenute nell‘intesa una di grande rilievo è costituita dalla previsione della possibilità che il contratto aziendale – se stipulato dalla coalizione sindacale maggioritaria – deroghi al contratto nazionale, sia in materia retributiva, sia in materia “normativa”; e questo sia in situazioni di difficoltà economica, dove è necessaria una riduzione dello standard retributivo, sia, al contrario, nelle situazioni in cui la deroga è necessaria per introdurre un’innovazione nell’organizzazione del lavoro non compatibile con il modello fissato dal contratto nazionale. Su questo punto è profondamente cambiata la filosofia stessa dell’accordo, rispetto al testo che era stato proposto dalla Confindustria nella primavera scorsa. Chi ha letto quanto ho scritto su questo punto (in particolare, il libro “A che cosa serve il sindacato?” e il saggio “Che cosa impedisce ai lavoratori di scegliersi l’imprenditore”) sa perché considero indispensabile questo ampliamento dello spazio della contrattazione aziendale per aprire maggiormente il nostro sistema all’innovazione e agli investimenti stranieri, che sono il solo modo per ottenere un forte aumento delle nostre retribuzioni.
               A dire il vero, nel mio libro testé citato non propongo che la facoltà di deroga venga attribuita a qualsiasi coalizione sindacale che sia maggioritaria nella singola azienda: propongo invece l’istituzione di un filtro ulteriore, costituito dall’appartenenza dei sindacati stipulanti al livello aziendale ad associazioni radicate in almeno tre altre Regioni. Questo al fine di evitare possibili degenerazioni del meccanismo, soprattutto nel Mezzogiorno. Credo che adottare questo filtro ulteriore in questo accordo interconfederale non sarebbe stato male (e le parti sono ancora in tempo per farlo); ma sono altrettanto convinto che in questa materia la possibilità di degenerazioni marginali non debba indurre a paralizzare o appesantire eccessivamente l’intero sistema nazionale.

 

Ho, invece, forti perplessità sulla possibilità di buon funzionamento del nuovo assetto della contrattazione collettiva nel settore pubblico. Fino a che non sarà stato attivato il sistema di valutazione indipendente e trasparente delle performance delle singole amministrazioni previsto dal disegno di legge approvato nel dicembre scorso dal Senato e attualmente in discussione alla Camera, non vedo come la contrattazione decentrata possa svolgere correttamente, in questo settore, la funzione di collegamento delle retribuzioni all’andamento gestionale.

 

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