SU DUE DEI QUATTRO QUESITI REFERENDARI VEDO UN CONFLITTO TRA LA RAGION POLITICA E LA RAGIONE INTELLETTUALE – MA LA BUONA POLITICA HA BISOGNO ANCHE DELLA RAGIONE INTELLETTUALE SE VUOLE METTERE IN COMUNICAZIONE IL CONSENSO DI OGGI CON QUELLO DI DOMANI
Editoriale per la Newsletter n. 155, 6 giugno 2011 – In argomento v. anche il mio editoriale per la Newsletter n. 113, del 26 luglio 2010
Su due dei quattro quesiti referendari sui quali siamo chiamati a votare domenica prossima mi trovo nella situazione che ho cercato di spiegare qualche tempo fa (Morale e politica): quella del conflitto tra ragion politica e ragione intellettuale. È questo un caso tipico in cui la logica che presiede alle scelte del buon politico, il quale non può prescindere dal consenso a breve termine, può divergere dalla logica che muove lo studioso e l’opinionista serio, il quale deve dire fino in fondo quello di cui è convinto e quello di cui non lo è, sulla base dei suoi studi e ricerche, senza curarsi dell’impopolarità.
Il mio partito invita gli elettori a votare quattro “sì”. Nessun problema, per quel che mi riguarda, sul legittimo impedimento: qui voterò “sì” con convinzione. Un problema facilmente superabile per il primo quesito sull’acqua: qui sul piano tecnico-giuridico anche il “sì” è compatibile con le mie convinzioni. Le scelte delle quali capisco la ragione politica contingente ma dalle quali le mie convinzioni o non convinzioni personali divergono sono le altre due: quella relativa al secondo quesito sull’acqua e quella relativa al quesito che originariamente verteva sul nucleare.
Vediamole una per una.
LEGITTIMO IMPEDIMENTO (scheda verde)
Qui la Corte costituzionale ha già provveduto ad abrogare la parte eccessiva della legge 7 aprile 2010 n. 51, che avrebbe consentito al capo del Governo e ai ministri di sottrarsi a qualsiasi procedimento penale: così ridimensionata, la legge n. 51/2011 si riduce sostanzialmente a una specificazione, in riferimento ai membri del Governo, della regola generale posta dall’articolo 420-ter del codice di procedura penale, a norma del quale “quando l’imputato […] non si presenta all’udienza e risulta che l’assenza è dovuta ad assoluta impossibilità di comparire per caso fortuito, forza maggiore o altro legittimo impedimento, il giudice […] rinvia ad una nuova udienza”. È vero, dunque, che l’abrogazione della parte della legge n. 51/2010 rimasta dopo il taglio operato dalla Consulta non avrà alcun effetto pratico apprezzabile sul piano tecnico-giuridico. Tuttavia, l’abrogazione anche di questa parte residua della legge ha un significato politico molto importante: è la manifestazione del rifiuto, da parte degli italiani, della prassi nefasta delle leggi ad personam, delle riforme della giustizia ideate con l’obiettivo primario di risolvere un problema personale del premier. La nostra amministrazione giudiziaria ha certamente bisogno di riforme, soprattutto sul piano organizzativo; ma quelle fin qui attuate o tentate dal Governo Berlusconi sono sempre state viziate dal fatto di essere mosse da un solo interesse prioritario, che non era quello dell’intera collettività.
Condivido dunque pienamente l’indicazione del Pd a favore del “sì”.
PRIMO QUESITO SU ACQUA, TRASPORTI MUNICIPALI E RIMOZIONE RIFIUTI (scheda rossa)
Questo quesito riguarda l’abrogazione dell’articolo 23-bis, sui “servizi pubblici locali di rilevanza economica”, del d.-l. n. 112/2008, già modificato nel 2009. La norma stabilisce che – ferma la proprietà pubblica degli impianti – la gestione del servizio di distribuzione dell’acqua (ma anche di altri servizi pubblici, come i trasporti municipali e la rimozione e smaltimento dei rifiuti), deve essere affidata, alternativamente: a) a imprese private scelte mediante gara; b) a società controllate dall’ente pubblico, ma nelle quali un soggetto privato detenga almeno il 40% del capitale (questo al fine di garantire almeno un controllo interno sulla correttezza della gestione, incentivato da un rilevante interesse economico). Questa norma costituisce attuazione particolarmente rigorosa di un principio di diritto europeo, che impone regole concorrenziali minime in materia di gara a evidenza pubblica per l’affidamento dei servizi pubblici di rilevanza economica. L’abrogazione di questo articolo 23-bis non farebbe venir meno la normativa comunitaria, né – ancor meno – impedirebbe l’affidamento di questi servizi pubblici da parte dei comuni o loro consorzi a gestori privati: l’effetto sarebbe soltanto di allentare il vincolo circa la verifica dell’economicità della gestione.
Nelle settimane scorse ho esposto, su questo sito, i motivi del mio orientamento favorevole al principio comunitario dell’affidamento del servizio all’operatore più efficiente (Referendum sull’acqua: un chiarimento necessario; v. in proposito anche l’articolo di Andrea Boitani e Antonio Massarutto, pubblicato su lavoce.info il 17 maggio scorso). A ben vedere questo principio non è contraddetto dall’abrogazione dell’articolo 23-bis, che ne costituisce soltanto una possibile attuazione: un altro modo di attuarlo è quello indicato nel disegno di legge presentato in Parlamento dal Pd, che effettivamente è più compiuto e per alcuni aspetti anche più coerente con la normativa europea. Dunque, pur non condividendo gli intendimenti di gran parte dei promotori di questo referendum, non ho particolari difficoltà a seguire l’indicazione del mio partito, favorevole al “sì” su questo quesito.
SECONDO QUESITO SULL’ACQUA (scheda gialla)
Il primo comma dell’art. 154 del d.lgs. 3 aprile 2006 n. 152 (Norme in materia ambientale) recita: “La tariffa costituisce il corrispettivo del servizio idrico integrato ed è determinata tenendo conto della qualità della risorsa idrica e del servizio fornito, delle opere e degli adeguamenti necessari, dell’entità dei costi di gestione delle opere, dell’adeguatezza della remunerazione del capitale investito e dei costi di gestione delle aree di salvaguardia […] Tutte le quote della tariffa del servizio idrico integrato hanno natura di corrispettivo”. Il referendum mira all’abrogazione delle parole qui evidenziate in grassetto.
Ora, è evidente che, se la tariffa basta per coprire soltanto i costi di gestione del servizio, ma non la remunerazione del capitale investito, nessun operatore privato investirà su questo servizio: lo potrà fare soltanto un ente pubblico. Poiché oggi né lo Stato né le Regioni né i Comuni dispongono dei capitali necessari per la manutenzione straordinaria di cui la nostra rete idrica ha urgente necessità, essi dovranno prendere il denaro a prestito nel mercato finanziario, accollandosi i relativi interessi. Il quesito referendario può dunque tradursi così: “preferite voi che il capitale necessario per la manutenzione della rete idrica sia reperito e investito dalle amministrazioni pubbliche, con relativa remunerazione a carico di tutti i contribuenti, oppure che esso sia reperito e investito da imprese pubbliche o private sotto il controllo di un regolatore pubblico, con relativa remunerazione a carico degli utenti del servizio, in proporzione all’uso che ne fanno?”. Chi preferisce la prima soluzione vota “sì” (cioè a favore dell’abrogazione della norma che prevede il capitale investito sia remunerato dalla tariffa), mentre chi preferisce la seconda soluzione vota “no”.
Così stando le cose, mentre il “sì” sul primo quesito (scheda rossa) lascia aperta la possibilità di scelta tra l’affidamento della gestione del servizio a un’azienda municipale o a un’impresa privata selezionata mediante gara, invece il “sì” sul secondo quesito (scheda gialla) taglia – per così dire – le gambe a quest’ultima opzione: la rende di fatto impossibile. A meno che, come sovente è accaduto in passato quando ancora i referendum raggiungevano il quorum, ci si riservi di disattendere l’abrogazione facendo rientrare la remunerazione del capitale investito nei “costi di gestione delle opere”: ma questo sarebbe davvero politicamente disonesto. D’altra parte, nonostante che la Corte costituzionale abbia considerato questo esito compatibile con il vincolo europeo di cui ho detto sopra, a me sembra invece che esso possa anche essere considerato non compatibile, poiché se la tariffa non copre la remunerazione del capitale investito il servizio resta chiuso a qualsiasi possibile concorrenza tra imprese.
Che fare dunque nel mio caso, essendo io convinto invece che una concorrenza tra imprese ben regolata (con il loro apporto di capitali) sia utilissima per il miglioramento del servizio e la riduzione del suo costo? Il mio commitment, che compare da tre anni nella home page di questo sito, è “verso i miei lettori ed elettori, continuare a dire, scrivere e proporre in modo chiaro e diretto tutto quello che penso; verso il partito che ho contribuito a fondare, la massima lealtà nel voto”. Con questo editoriale sto adempiendo al primo impegno; domenica prossimo adempirò correttamente il secondo.
QUESITO SUL NUCLEARE (scheda grigia)
L’art. 5 del decreto-legge c.d. “omnibus”, 31 marzo 2011 n. 34, aveva abrogato le norme contenute nelle leggi n. 133/2008 e n. 99/2009 che disponevano l’avviamento di un nuovo programma nucleare italiano, rinviando di un anno ogni decisione in proposito. La Corte di Cassazione nei giorni scorsi ha ritenuto che il nuovo testo legislativo contenesse pur sempre disposizioni orientate nella stessa direzione di quelle abrogate, quindi suscettibili di essere sottoposte a referendum. Essa ha quindi modificato il quesito referendario spostandolo su queste nuove disposizioni. Senonché, esaminato da vicino, il nuovo quesito risultante dalla sentenza della Corte di Cassazione ha ormai ben poco a che fare con la scelta dell’energia nucleare: esso riguarda soltanto la partecipazione dell’Agenzia italiana alle iniziative per la sicurezza delle altre agenzie europee e la disposizione che impegna il Governo a predisporre il piano energetico nazionale, senza specificarne il contenuto. Sul piano strettamente tecnico-giuridico, il “sì” e il “no” non riguardano dunque più la scelta se produrre in Italia energia con l’atomo o in altro modo.
Sul piano politico, tuttavia, il significato del “sì” o del “no” su questi quesiti resta quello originario. Non ci si può pertanto esimere dal prendere posizione. Propongo dunque le mie brevi considerazioni che seguono, da profano della materia, con i conseguenti interrogativi. Interrogativi niente affatto retorici: non conosco la risposta. O meglio: ho trovato molte risposte ma nessuna mi ha convinto.
1. Votare contro le centrali atomiche, come abbiamo fatto nel referendum del 1987 a seguito del disastro di Chernobil, per poi acquistare a caro prezzo un quarto dell’energia elettrica che ci è indispensabile dalla Francia e dalla Svizzera, le quali la producono con centrali atomiche situate anche a pochi chilometri dal confine con l’Italia, è cosa poco sensata sul piano economico e – mi sembra – poco onesta sul piano politico. A meno che noi riconosciamo di essere meno capaci dei francesi e degli svizzeri in questo campo: ma allora occorre esplicitarlo.
2. Se col nostro “sì” al referendum non intendiamo dire questo, sarà bene che chiariamo come altrimenti intendiamo procurarci l’energia di cui abbiamo bisogno. Sui giornali è molto diffusa la tesi secondo cui quel 25 per cento di energia possiamo produrlo sfruttando il sole e il vento (le fonti rinnovabili). Senonché nella fascia oraria tra il tardo pomeriggio e le prime ore della sera, nella quale si verifica il picco del consumo di elettricità, il sole non c’è e capita che il vento non soffi. E non esistono accumulatori che ci consentano di accantonare energia fotovoltaica o eolica a mezzogiorno per consumarla la sera. Dunque, se rinunciamo all’energia nucleare francese e svizzera, ma nel contempo diciamo che non intendiamo acquistare all’estero e bruciare in casa nostra una maggiore quantità di combustibile fossile (petrolio, carbone o gas), come intendiamo provvedere al fabbisogno?
3. È vero che esiste la possibilità di accumulare energia solare termodinamica. Ma è realistico programmare la produzione e accumulazione secondo questa tecnologia nella misura sufficiente per coprire i picchi di fabbisogno? E qualcuno ha calcolato quanti chilometri quadrati occupano gli impianti necessari per produrre secondo questa tecnologia la stessa quantità di energia che può essere prodotta da una centrale nucleare?
4. È pure diffusa la tesi secondo cui potremmo risolvere il problema modificando le nostre abitudini di consumo energetico. Ma è vero o no che anche una modifica drastica delle nostre abitudini non potrebbe produrre più che una riduzione marginale?
5. Viceversa, se vogliamo tornare a crescere sul piano economico, quindi aumentare le nostre attività produttive, occorrerà programmare una corrispondente maggiore disponibilità di energia elettrica. Come intendiamo conciliare la crescita economica indispensabile al Paese con una riduzione dei consumi elettrici?
6. È vero che anche Germania e Svizzera dopo Fukushima hanno deciso una moratoria nucleare. Ma è anche vero che nessuno dei due Paesi ha chiarito come intende sostituire l’energia prodotta con le centrali nucleari. Non sarà forse che in entrambi i casi si è trattato di un atto politico compiuto per far fronte all’onda dell’emozione per il disastro giapponese, con la riserva mentale di non considerare questa decisione definitiva e irreversibile?
7. La vera grande obiezione contro il nucleare è che produrlo in modo totalmente sicuro, e stoccare in modo altrettanto sicuro le scorie, costa troppo. Ma se rinunciare al nucleare significa inevitabilmente, per la maggior parte, bruciare più petrolio, più carbone e/o più gas, dobbiamo fare il conto del danno all’ambiente, alla salute e sicurezza delle persone e alla pace nel mondo prodotto dall’uso dei combustibili fossili, dall’anidride carbonica e dalle polveri fini diffuse nell’atmosfera. È un danno che colpisce meno l’opinione pubblica, ma si misura in milioni di malati e di morti (in particolare, non sento menzionare, in questi giorni di campagna referendaria, le migliaia di morti nelle miniere di carbone), nonché in danni ambientali complessivamente molto più gravi rispetto a quelli prodotti dagli incidenti alle centrali nucleari: si pensi anche soltanto ai disastri causati dalle catastrofi petrolifere nei nostri mari e oceani.
8. Da molti decenni l’Italia è circondata, come lo è tuttora, da molte decine di centrali atomiche che funzionano a pieno regime, a pochi chilometri dai suoi confini, con un impatto ambientale incomparabilmente inferiore rispetto a quello che sarebbe stato causato dai combustibili fossili necessari per produrre la stessa quantità di energia elettrica. Qualcuno ha calcolato i costi in termini di vite umane, di salute e di inquinamento che il nostro Paese avrebbe sofferto se in questi decenni si fossero, invece, trasportati e bruciati intorno a noi miliardi di tonnellate in più di carbone e di barili di petrolio?
9. La Micronesia ha citato in giudizio con intendimento simbolico, ma fortemente significativo, il Governo ceco per l’aumento del livello delle acque oceaniche prodotto in prospettiva dalla centrale a carbone Prunerov-2, la più grande d’Europa, con le sue enormi emissioni di CO2. Soltanto una delle tante. Ne vogliamo davvero aggiungere qualche decina? Se non lo vogliamo, non è forse più realistico, più economico e meno pericoloso, per l’umanità e per il nostro pianeta, affrontare il costo – per quanto elevato – delle misure di assoluta sicurezza nella produzione con centrali atomiche, che la migliore tecnologia oggi ci offre?
In attesa di una risposta convincente a questi interrogativi, la mia opinione sulla questione del nucleare rimane quella che ho espresso anche pubblicamente prima e dopo lo tsunami di Fukushima (Nucleare: il mestiere diverso del politico e dello scienziato, marzo 2011). Non sono affatto convinto che la scelta del nucleare sia quella giusta, ma sono riluttante a dire “sì” a un rifiuto drastico e definitivo dettato dalla paura del nucleare: una paura a carattere intermittente, cui non corrisponde altrettanta preoccupazione per i pericoli, i costi ambientali e i limiti obiettivi presentati da ciascuna delle altre fonti di energia. Credo che, come sempre, la soluzione migliore possa essere basata soltanto sulla sperimentazione scientifica e la misurazione precisa dei fenomeni e delle probabilità: occorrerebbe che su tutte le voci che abbiamo individuato si potessero mettere dei numeri precisi, di gigawatt, di intensità dell’inquinamento, di probabilità di petroliere rotte in mezzo al mare, di esplosioni di grisou nelle miniere di carbone, di incidenti nelle centrali nucleari, di conseguenti malattie e morti, di miliardi di euro di cui si prevede la spesa, degli effetti economici di quella spesa nel luogo in cui essa si colloca. Altrimenti, ciascuno dentro di sé sopravvaluta i meriti delle fonti che gli stanno più simpatiche o i costi di quelle che gli stanno più antipatiche; e la scelta non è compiuta su basi razionali.
Sta di fatto che quello di Fukushima è stato uno tsunami anche per gli orientamenti dell’opinione pubblica mondiale: sul piano politico ha prodotto un’onda a cui era ed è impossibile resistere. Tanto è vero che esso ha travolto anche la scelta nuclearista compiuta con grande convinzione dal Governo italiano nel 2008 e 2009. Capisco bene, dunque, i motivi che determinano lo schieramento del Partito democratico in questa campagna referendaria: anche questo è uno dei casi nei quali la ragion politica, necessariamente focalizzata sul consenso possibile a breve termine, può divergere dalla ragione intellettuale, che per sua natura prescinde dal criterio della popolarità. Vale dunque per me anche in questo caso la regola che ho indicato in riferimento al secondo quesito sull’acqua: lealtà verso il partito nel voto, lealtà verso i miei lettori ed elettori nel dire comunque in modo chiaro e diretto tutto quello che penso. Anche a costo di non potermi considerare un buon politico: il mio ruolo, anche all’interno del mio partito, è un altro.
Come ho detto nella conferenza su morale e politica citata all’inizio, penso che anche di questo ruolo meno politico, la buona politica abbia sempre grande bisogno, se vuol essere capace di mettere in comunicazione il consenso di oggi con quello di domani.