PER UN VOTO SENSATO AL REFERENDUM SUI SERVIZI IDRICI OCCORRE METTERE A FUOCO IN MODO PRECISO LE QUESTIONI IN GIOCO
Intervento di Giancarlo Corò (già presidente della società di gestione pubblica Acque Vicentine, poi presidente dell’Autorità d’Ambito Territoriale Ottimale (AATO) Bacchiglione) in corso di pubblicazione sul Giornale di Vicenza, giugno 2011 – In argomento leggi anche: l’articolo di Andrea Boitani e Antonio Massarutto, pubblicato su lavoce.info il 17 maggio 2011; la lettera pervenuta il 27 luglio 2010, a seguito del mio editoriale telegrafico per la Newsletter n. 113; e lo scambio di messaggi intercorso tra il 5 e il 9 aprile 2011 con un sostenitore del “sì” al referendum
Equivoci referendari
Il dibattito sui servizi idrici impostato dai movimenti referendari continua a giocare su un insieme di equivoci che si riassumono in un principio di fondo: solo la “gestione” pubblica diretta può assicurare l’efficace tutela dell’acqua. Il primo equivoco è confondere l’acqua come risorsa pubblica, che in realtà nessuno mette in discussione, con i “servizi idrici”, cioè l’insieme di infrastrutture e attività industriali per la captazione primaria e la distribuzione dell’acqua per usi civili, la sua raccolta dopo gli usi in fognatura e la depurazione prima della restituzione ai fiumi. A parte il fatto che gli acquedotti intercettano non più del 10-15% del deflusso idrico di un bacino – il resto va all’agricoltura, all’industria e alla produzione idroelettrica: tutti impieghi privati, a cui i referendari non sembrano interessati – è necessario ribadire che, in base alla legge, non solo le “riserve idriche” – in falda e in superficie – rimangono pubbliche, ma anche le “infrastrutture” impiegate dai servizi idrici, che costituiscono demanio dei comuni. Ciò che può essere messo a gara è la gestione servizio, o la partecipazione minoritaria ad un’azienda pubblica. In questo secondo caso avremo perciò una azienda industriale controllata dal pubblico, mentre nel primo nulla esclude che a vincere la gara sia un’azienda pubblica, purché dimostri di essere efficiente e finanziariamente solida almeno quanto una privata.
Un secondo equivoco è insistere sull’idea dell’acqua come “bene comune” e poi, subito dopo, affermare che “l’acqua non si vende”. Eppure, la famosa “tragedia dei beni comuni” dovrebbe ricordare che ciò che viene regalato rischia, fatalmente, di venire sprecato. Perciò, se ai referendari stesse davvero a cuore la tutela delle risorse idriche, dovrebbero essere favorevoli ad un forte aumento delle tariffe, poiché solo in questo modo si ridurrebbero i consumi di acqua, soprattutto quelli superflui che in Italia hanno pochi eguali al mondo: 240 litri pro-capite contro la media UE di 165, e siamo anche fra i primi (dopo l’Arabia Saudita!) nel consumo di acque minerali (forse perché, alla fine, ci fidiamo poco dell’acqua del sindaco?). Un’obiezione all’aumento delle tariffe in regime di liberalizzazione è che porterebbe solo maggiori profitti. Anche qui si rischia di alimentare un equivoco. Intanto, anche le organizzazioni pubbliche hanno i loro extra-profitti, solo che si chiamano diversamente: inefficienza, clientelismo, corruzione! Gli esempi, ahimé, non mancano, e i rischi di tali degenerazioni aumentano nell’area grigia in cui operano le “SpA pubbliche” dove, in virtù dell’autonomia aziendale vengono allentati i controlli amministrativi, e in virtù dell’interesse generale si elimina la pressione concorrenziale. Tuttavia, il principale limite della discussione è che tutta l’attenzione è concentrata sulla “gestione” dei servizi idrici e non invece sulla loro “programmazione e regolazione”. Bisogna invece ricordare che chi decide quanti investimenti servono ad un territorio – e dove fare gli acquedotti, le fognature, i depuratori – non sono i gestori, ma i Comuni attraverso le autorità d’ambito (oggi l’AATO, domani i Consigli di Bacino). Anche le tariffe del servizio non sono decise dal gestore, ma dell’autorità di regolazione, che dovrebbe poi controllare che amministratori e manager (pubblici o privati che siano) non approfittino, magari con il consenso dei sindacati, della condizione di monopolio a spese degli utenti. E’ proprio nelle funzioni di programmazione e regolazione dei servizi, molto più che nella gestione operativa, che si sostanzia l’interesse generale. Perché allora non dare alla creazione di autorità pubbliche di regolazione dei servizi idrici l’importanza che merita? Certo, il tema delle authority indipendenti scalda poco il cuore dei cittadini, e poi è visto con sospetto dai politici, che intravedono nella formazione di “agenzie tecniche di regolazione” una limitazione del loro potere decisionale. Tuttavia, autorevolezza tecnica e indipendenza politica di tali agenzie sono garanzie di tutela degli utenti e degli interessi di lungo periodo di una comunità.
Un altro equivoco è continuare a considerare i servizi idrici come branca della pubblica amministrazione e non, invece, un settore industriale con rilevanti fabbisogni di investimento e notevoli potenziali di sviluppo e innovazione tecnologica. Eppure, per quanti credono davvero al valore sociale ed ambientale dell’acqua, è qui che si gioca una partita decisiva. Da un lato, infatti, servono ingenti capitali finanziari per realizzare opere con lunghi tempi di ritorno: per raggiungere standard europei nei servizi idrici, sono necessari in Italia investimenti per 60 miliardi di euro, e i referendari dovrebbero spiegare dove trovare queste risorse se venisse abolita la remunerazione sul capitale! Dall’altro lato ci sono innovazioni da introdurre con molta più convinzione di quanto si è finora riusciti a fare in Italia: telecontrolli in rete, impianti idrici duali, tecnologie per il micro-tunnelling, recupero energetico dei fanghi di depurazione, contatori intelligenti, servizi di comunicazione personalizzati agli utenti, ecc. Queste innovazioni possono portare sia ad un impiego più efficiente dell’acqua, sia una crescita di occupazione qualificata. Tuttavia, risorse finanziarie e incentivi all’innovazione non sono manna dal cielo, ma fattori che si possono ottenere solo con una buona combinazione fra regolazione pubblica e organizzazione industriale. Nessuno di questi due aspetti viene considerato dai movimenti referendari. A dominare la scena è, invece, una ideologia statalista che – in un paese con un debito pubblico di 1.900 miliardi di euro, una pressione fiscale che ha raggiunto il 45% del Pil e il più basso tasso di crescita d’Europa – rischia di impoverire ulteriormente i cittadini e l’ambiente.
Giancarlo Corò