IL D.D.L. SULLE P.A. PERFEZIONA LE RIFORME CASSESE E BASSANINI-D’ANTONA
Audizione del 28 gennaio 2009, nell’ambito della discussione del disegno di legge C. 2031 Governo, approvato dal Senato, “Delega al Governo finalizzata all’ottimizzazione della produttività del lavoro pubblico e alla efficienza e trasparenza delle pubbliche amministrazioni nonché disposizioni integrative delle funzioni attribuite al CNEL e alla Corte dei Conti”
Prof. Alberto Pizzoferrato
Ordinario di Diritto del lavoro nell’Università di Bologna
Osservazioni generali
Il disegno di legge in esame (n. 2031) si apprezza particolarmente per l’innovativa risposta che fornisce al tema della valorizzazione del merito e della produttività all’interno delle pubbliche amministrazioni ed al contenimento dei costi che ne rappresenta naturale corollario.
Le riforme Cassese e Bassanini-D’Antona degli anni ’90 hanno contribuito significativamente all’ammodernamento della pubblica amministrazione italiana, assumendo per la prima volta i target dell’efficienza e dell’efficacia dell’azione amministrativa, superando il classico binomio rapporto organico e rapporto di servizio a favore di un «nuovo» rapporto di lavoro pubblico, paritetico e retto da logiche, strumenti e regole privatistiche, distinguendo fra funzioni di indirizzo politico-amministrativo, riservate agli organi di governo, e funzioni gestionali di amministrazione concreta, attribuite alla dirigenza pubblica. Tuttavia tali interventi legislativi stanno denotando un’indubbia fragilità applicativa, su un punto nodale, che condiziona il buon funzionamento dell’intero sistema, quello della responsabilizzazione della dirigenza, della programmazione e verifica dei risultati di gestione, della valutazione di qualità dei beni e servizi pubblici resi ai cittadini utenti. In assenza di un mercato competitivo, si sono allargate prassi consociative che in molte occasioni hanno sopito ogni fruttuoso impulso all’innovazione organizzativa ed alla progettualità strategica.
Il disegno di legge in oggetto intende coraggiosamente porre rimedio al problema della deresponsabilizzazione, dell’abbassamento del livello qualitativo dei servizi, del diffondersi di atteggiamenti opportunistici, facendo leva sul controllo esterno di andamento gestionale, sul c.d. civic auditing. Preso atto che la politica non è spesso in grado di fornire un’idonea controspinta all’inefficiente gestione dirigenziale, che le associazioni sindacali faticano ad assumere un ruolo super partes di controllori dei servizi, rimanendo ancorati alla loro tradizionale prospettiva rivendicativa, che i cittadini utenti non hanno in molti casi la possibilità di rivolgersi altrove e di appagare i loro bisogni sul mercato privato, data la posizione «monopolistica» pubblica (non hanno cioè l’opzione di exit, non possono cambiare fornitore in caso di insoddisfazione), si è imboccata la strada del controllo diffuso, si è dato corpo e sostanza alla voice dell’utenza, alla possibilità di denunciare disservizi, di pretendere, anche in via giurisdizionale amministrativa, il rispetto di standard minimi essenziali riconosciuti attraverso metodologie scientifiche condivise, del formarsi di una consapevolezza critica nell’opinione pubblica, basata su informazioni reali e circostanziate. Insomma, si vuole mettere in campo un meccanismo che, obiettivizzando la funzione gestionale per gruppi di servizi omogenei o affini attraverso indicatori di performance standardizzati, sia in grado di far emergere i risultati effettivi raggiunti, renderli comparabili, pubblicizzarli nelle forme più aperte possibili, consentire espressioni di dissenso individuale o collettivo sull’attività prodotta da singole strutture (che può sfociare anche in sede giurisdizionale).
Da tale processo di trasparenza totale (che passa appunto attraverso gli step della libera accessibilità ai dati, della valutazione effettuata da un organo interno dell’amministrazione ma secondo parametri e indicatori forniti da un’agenzia indipendente che svolge funzioni di indirizzo e supervisione, del c.d. benchmarking comparativo tra amministrazioni omologhe), dovrebbero trarsi, a beneficio degli organi politici di governo, gli elementi necessari per, a monte, costruire più efficacemente la griglia di obiettivi e traguardi da assegnare in sede di conferimento o rinnovo dell’incarico, a valle, sanzionare il comportamento gestionale deficitario con la mancata conferma o la revoca o, nei casi più gravi, con il licenziamento; a beneficio dell’utenza, per reclamare un eventuale cambio di gestione in ipotesi di palesi violazioni o sofferenze gestionali; a beneficio degli stessi dirigenti più meritevoli, per avanzare legittime pretese di incrementi retributivi negoziati sui risultati effettivamente raggiunti. La valutazione della qualità dei servizi resi dall’amministrazione diviene l’asse portante dell’attribuzione di responsabilità e meriti e dunque della distribuzione delle risorse e degli investimenti. Ma non si tratta di una qualunque valutazione, bensì di un giudizio ponderato secondo parametri e indicatori obbligatori, la cui corretta applicazione viene rimessa alla verifica dell’organismo centrale specializzato ed indipendente, e che culmina con l’assegnazione di uno score univoco.
L’impianto convince, anche se andrà verificato e aggiustato alla prova dei fatti (e prima ancora in sede di esercizio della delega), per prevenire fenomeni di «aggiramento» delle procedure di valutazione o di concentrazione dell’attività gestionale su risultati di breve periodo, più facilmente misurabili e remunerabili, o di scollamento dell’attività di auditing interna rispetto alle regole uniformi provenienti dall’agenzia centrale.
Allo stesso modo appare del tutto convincente la rivalutazione, operata in chiave meritocratica, del principio di concorsualità non solo nell’accesso, ma anche nelle progressioni verticali del pubblico impiego (incluso il passaggio alla dirigenza di prima fascia), secondo il costante insegnamento della Corte costituzionale dell’ultimo decennio, che ha sempre salvaguardato con grande vigore l’art. 97 della Costituzione; nonché l’affermazione del principio della selettività nell’assegnazione delle progressioni economiche, delle funzioni organizzative, degli incentivi premiali, di fatto già introdotto dalla contrattazione nazionale di comparto, ma con sfumature e soprattutto prassi applicative molto differenziate (cfr. art. 2, c. 32, l. n. 203/2008: “A decorrere dall’anno 2009 il trattamento economico accessorio dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni è corrisposto in base alla qualità, produttività e capacità innovativa della prestazione lavorativa”). La solenne riaffermazione della centralità del momento concorsuale non solo assume un importante valore simbolico di riconoscimento dei meriti individuali svincolati da logiche di appartenenza ma preserva da un appiattimento indistinto verso l’alto, stimola l’impegno personale, favorisce il risparmio dei costi e costituisce un argine alla discrezionalità delle scelte effettuate dall’organo di amministrazione.
Meno comprensibile risulta invece la volontà di procedere a una nuova ripartizione tra materie riservate alla competenza regolatoria della legge (e sulla base di questa, ad atti di macro o micro-organizzazione) e a quella della contrattazione collettiva, lasciando peraltro immutati gli attuali capisaldi dell’assetto disciplinare (il principio della derogabilità della legge ad opera del contratto collettivo, salvo previsione esplicita contraria da parte della prima; il principio del divieto di duplicazione delle materie fra livello nazionale e decentrato, quest’ultimo chiamato ad esplicarsi all’interno dei limiti e degli ambiti delineati dal contratto di comparto; il principio della piena operatività del contratto collettivo in tema di determinazione dei diritti e delle obbligazioni inerenti al rapporto di lavoro). Non ci sembra che la compressione del grado di autonomia del dirigente registratasi nei fatti, sia da ascrivere ad un’impropria distribuzione delle competenze regolatorie; piuttosto potrebbe affermarsi che gli spazi lasciati talvolta liberi dall’inerzia o dall’ignavia del dirigente siano stati riempiti dalla negoziazione collettiva integrativa e dalla prassi di “portare tutto” in commissione trattante, ma nessuna norma di legge può impedire il verificarsi di un simile fenomeno. Può farlo solo la minaccia (reale) di una sanzione dissuasiva, che penalizzi l’adozione di modelli organizzativi e gestionali inefficienti. La prima parte dell’art. 2 (c. 1 e c. 2, lett. a-d) appare dunque di scarsa incidenza e di dubbia utilità pratica, oltre che fonte di possibili tensioni sindacali in quanto direttamente incidente sulla libertà di contrattazione collettiva.
Diversamente è da salutare con favore l’iniziativa contenuta nel prosieguo dell’art. 2, di rivedere e snellire le procedure di contrattazione collettiva, nazionale e decentrata, focalizzando gli aspetti di controllo preventivo sulle compatibilità finanziarie e di bilancio, riducendo i comparti, unificando la durata giuridica ed economica, rivedendo la composizione dell’ARAN anche in versione «regionalista», ridefinendo la struttura e le competenze dei comitati di settore (ma questi ultimi sono davvero necessari e utili o concorrono solo a moltiplicare irragionevolmente le sedi decisionali?). Mancano, ma a questa lacuna dovrebbe provvedere il legislatore delegato, indicazioni precise su quali strumenti adottare per tenere a freno gli andamenti economici della contrattazione decentrata, al di là del generico rinvio ai vigenti controlli operati dalla Corte dei conti, la cui efficacia è strettamente correlata al diverso grado di “dinamismo” regionale della stessa.
Non riteniamo pertanto che il testo, nella sua formulazione attuale, possa essere tacciato di dirigismo o di intrusività nella sfera delle relazioni sindacali, sia perché l’opera di rilegificazione apportata è davvero contenuta (ai criteri generali delle progressioni in carriera ed ai procedimenti disciplinari), sia perché comunque nelle menzionate materie l’intervento legislativo si impone a tutela del superiore interesse pubblico al buon andamento ed imparzialità della pubblica amministrazione dinanzi ad una prassi negoziale indebitamente orientata agli avanzamenti «a pioggia» ed alla difesa pregiudiziale e ad oltranza del dipendente pubblico, anche se reo di comportamenti ad elevato disvalore sociale.
Il testo del disegno di legge in esame non è peraltro immune, a nostro avviso, da incongruenze e imperfezioni tecniche, anche di una certa rilevanza, di seguito sommariamente descritte.
Osservazioni specifiche su alcuni profili oggetto di possibile emendamento
Il primo profilo a nostro avviso censurabile è rappresentato dall’estensione della valutazione di produttività a tutto il personale dipendente. La previsione rischia di irreggimentare e burocratizzare il processo, ponendo vincoli esterni al dirigente preposto, con una diretta limitazione delle sue facoltà organizzative, senza offrire output gestionali realmente affidabili. Ora, un conto è valutare la produttività di un servizio e conseguentemente la capacità gestionale del soggetto responsabile, diverso discorso è promuovere valutazioni di professionalità in via generalizzata e uniforme, da cui far discendere automaticamente l’applicazione di indennità e premi, se non passaggi di livello economico. E’ evidente che la produttività gioca un importante ruolo nella valutazione della professionalità individuale (anche se non può essere l’unico, e forse nemmeno il prevalente metro di giudizio), ma non dimentichiamoci che: i) al dipendente privo di incarichi direzionali non è addossata alcuna responsabilità gestionale-organizzativa; ii) al dirigente pubblico, come accade per quello privato, deve essere lasciato un margine di manovra operativo per compensare comportamenti virtuosi e attitudini al lavoro particolarmente accentuate; iii) tale margine deve rispondere a criteri di intrinseca ragionevolezza perché non si cada nell’arbitrio o nella disparità ingiustificata di trattamento, ma non si può richiedere né l’assolvimento di obblighi di formalizzazione eccessivamente defatiganti e dispersivi, né la sottoposizione obbligata a criteri standardizzati esterni (essi possono costituire un utile riferimento, al limite una presunzione di ragionevolezza dell’agire del dirigente, ma non un vincolo gestionale insuperabile alla luce delle concrete condizioni di contesto).
Nel contempo non si giustifica l’esclusione delle società a partecipazione (quanto meno totalitaria o prevalente) pubblica dall’applicazione delle disposizioni sulla valutazione (art. 3). Tale esito mal si concilia con il processo di assimilazione funzionale in atto nel nostro ordinamento giuridico e da ultimo chiaramente espresso dall’art. 18 l. n. 133/2008 (che impone l’adozione, nelle società a partecipazione pubblica totale o di controllo, di criteri e modalità per il reclutamento del personale e per il conferimento degli incarichi analoghi a quelli previsti per le pubbliche amministrazioni), nonché dalla giurisprudenza univoca della Corte dei conti che estende la responsabilità amministrativa per danno erariale alle condotte produttive di danno patrimoniale o non patrimoniale commesse da funzionari e dirigenti di società pubbliche. Come si potrebbe giustificare il fatto che i dirigenti di società pubbliche debbano essere assunti tramite concorso, rispondano alla collettività per cattiva gestione delle risorse pubbliche, determinino a carico della società una responsabilità solidale per danni commessi a terzi nell’esercizio della loro attività istituzionale, sulla falsariga di quanto previsto dall’art. 28 Cost., e poi non siano soggetti ai meccanismi di valutazione e verifica dei risultati conseguiti al pari degli altri dirigenti pubblici (inclusi quelli di enti pubblici economici)? Il paradosso è ancora più eclatante solo che si pensi al fatto che la Corte dei conti estende attualmente il proprio sindacato giudiziale al merito dei comportamenti organizzativi adottati dai responsabili pubblici: è vero che permane il limite dell’insindacabilità delle scelte discrezionali (art. 1, l. n. 20/1994: ossia il sindacato del giudice sulla compatibilità delle scelte amministrative con i fini pubblici dell’ente), ma è altrettanto vero che, a differenza del sindacato del giudice amministrativo, che rimane ancorato alla legittimità degli atti con l’effetto che anche laddove venga riscontrata un’applicazione non conforme delle regole tecniche di giudizio non vi potrà mai essere la sostituzione della valutazione del funzionario preposto con quella del giudice procedente, per quanto riguarda il giudizio per danno erariale la Corte dei conti può valutare se una data decisione organizzativa sia o meno ragionevole, economica, efficace, se, cioè, sia convenientemente funzionalizzata alla migliore organizzazione del servizio pubblico erogato. Dunque potrebbe, in maniera del tutto insensata, avvenire che ad un dirigente di una società pubblica non possano essere applicati (ed eventualmente contestati) parametri valutativi generali per la rilevazione di manchevolezze gestionali da parte del proprio datore di lavoro mentre quegli stessi indicatori possano essere utilmente spesi dalla Corte dei conti per il giudizio di responsabilità erariale a carico dello stesso funzionario.
Il secondo profilo di possibile intervento riguarda alcuni aspetti di dettaglio dell’art. 5. Innanzi tutto come si fa a conciliare il principio avanzato al n. 1 per cui al dirigente preposto compete la “individuazione dei profili professionali necessari allo svolgimento dei compiti istituzionali dell’ufficio al quale è preposto” con la regola generale per cui gli atti di macro-organizzazione sono di competenza dell’organo di governo politico dell’amministrazione? Orbene, come si può prospettare che sul tema delle piante organiche, dell’individuazione degli uffici e delle linee fondamentali di organizzazione degli stessi possa configurarsi un terreno di codeterminazione fra organo di indirizzo e organo di gestione? E poi, sarebbe davvero utile un tale esito, o non servirebbe soltanto a creare un alibi al dirigente, una vera e propria presunzione di irresponsabilità in ipotesi di divergenza di valutazioni o di impossibilità materiale di dar corso alle sue richieste? Inoltre, sarebbe opportuno coordinare meglio le lett. c) ed e) del comma 2, e chiarire se la perdita del trattamento economico accessorio (per quanto tempo?) sia sanzione di per sé adeguata per situazioni di omesso avvio di procedimento disciplinare entro i termini decadenza, e ferma restando l’automa configurazione di un illecito disciplinare ex lett. i) c. 2, art. 6.
Ancora: non si comprende la ragione di un potenziamento del ruolo e delle funzioni del Comitato dei garanti di cui all’art. 22 d.lgs. 165/2001. Se l’intento primario del disegno di legge è quello di identificare con maggiore precisione e pertinenza gli ambiti di inefficienza e improduttività della pubblica amministrazione per poter intervenire più efficacemente alla rimozione dei dirigenti incapaci ed alla valorizzazione e conferma dei dirigenti più dinamici, perché frapporre, tra la valutazione dell’amministrazione, condotta secondo gli indicatori di performance dell’agenzia, e la decisione di revoca dell’incarico per mancato raggiungimento degli obiettivi o per inosservanza delle direttive imputabili al dirigente (o, nei casi più gravi, in verità pressoché mai verificatesi, di collocazione a disposizione dei ruoli o di recesso dal rapporto di lavoro), un ulteriore giudizio di merito assunto da un organismo terzo, che può vanificare e irrimediabilmente bloccare l’iniziativa della p.a., sostituendo la propria valutazione a quella già coerentemente resa dall’amministrazione interessata? Devono essere in questa sede richiamati, da un lato, l’orientamento giurisprudenziale assolutamente consolidato secondo cui il parere del Comitato dei garanti è obbligatorio e vincolante per la p.a. a pena di nullità dell’atto gestionale finale adottato (revoca, messa a disposizione, recesso) per carenza di potere (per tutte, v. Cass. 20 febbraio 2007, n. 3929); dall’altro, l’estensione, ad opera dei contratti collettivi di comparto, dei presupposti e modalità di intervento del Comitato dei garanti con lo sviluppo di prassi applicative estremamente sbilanciate a favore del dirigente pubblico; la previsione di modelli parzialmente differenziati per le regioni e le autonomie locali ai sensi degli artt. 107 e 109 d.lgs. n. 267/2000. Ma soprattutto è bene sottolineare che non sono previsti strumenti di impugnazione da parte della p.a. nei confronti di pareri eventualmente negativi del Comitato dei garanti. La dottrina, onde colmare la sperequazione di trattamento esistente (impugnabilità del giudizio unitamente all’atto gestionale dinanzi al giudice del lavoro da parte del dirigente, vincolata accettazione degli esiti valutativi sfavorevoli da parte della p.a.), ha ammesso la praticabilità di un’azione preventiva di accertamento in ordine alla legittimità del parere reso dal Comitato dei garanti dinanzi al giudice del lavoro, ma ha limitato l’eventuale declaratoria di illegittimità alle ipotesi di violazione dei principi di logicità, coerenza, equità nell’apprezzamento dei fatti, non per consentire una revisione della valutazione di merito difforme condotta dal Comitato. Stanti tali premesse di fondo, ci sembra più funzionale allo scopo ultimo di questo provvedimento legislativo, ridimensionare il ruolo del Comitato (se non si voglia alla radice eliminare l’art. 22 d.lgs. 165), magari prescrivendo espressamente il carattere solo consultivo e non vincolante del parere reso. Del tutto velleitaria, infine, e dagli indefiniti contorni applicativi, appare la previsione di cui alla lett. l) del c. 2 dell’art. 6, che individua una figura di responsabilità per danno erariale da mancata determinazione da parte del dirigente preposto delle unità di personale in esubero. A parte i rilievi circa la competenza politica delle eccedenze di personale e di mobilità collettiva di cui agli artt. 33 e ss. d.lgs. n. 165/2001, si innesca un delicato problema di valutazione ex post da parte della Corte dei conti circa la sussistenza dei presupposti integranti la fattispecie ed i criteri di quantificazione del danno.
Il terzo profilo concerne i rapporti tra procedimento disciplinare e processo penale. Meritevole di migliore specificazione appare il criterio direttivo di cui all’art. 6, c. 2, lett. b). E’ assolutamente condivisibile l’affermazione del principio di non pregiudizialità del procedimento penale rispetto al procedimento disciplinare (con superamento dell’attuale sospensione obbligatoria del secondo in attesa della definizione del primo, di cui al combinato disposto degli artt. 653 c.p.p e 117 dpr n. 3/1957), foriero di incresciose situazioni di fatto, anche alla luce della temporaneità dei possibili provvedimenti di sospensione cautelare dal servizio o di trasferimento d’ufficio (non oltre i cinque anni), e della conservazione, seppure parziale (50%), della retribuzione medio tempore maturata. Tuttavia appare opportuno riformulare il disposto, eliminando l’inciso “stabilendo eventuali meccanismi di raccordo all’esito di quest’ultimo” (NdA procedimento penale), e rivedendo il testo in modo da evitare incertezze in sede attuativa. Infatti, se alle pubbliche amministrazioni viene riconosciuta la discrezionalità di esercitare l’azione disciplinare dinanzi a fatti astrattamente integranti fattispecie penalmente rilevanti, in considerazione delle circostanze del fatto concreto, del castello probatorio assunto o assumibile, dei rischi di un’eventuale lesione o aggravamento della lesione all’immagine, alla credibilità e all’efficiente funzionalità della struttura e servizi cui è adibito il dipendente incolpato (discrezionalità comunque soggetta a verifica secondo i canoni delle responsabilità dirigenziali); non si può consentire il travolgimento a posteriori di tale valutazione attraverso una sentenza penale irrevocabile (indifferentemente di assoluzione o di condanna) che faccia stato nel giudizio disciplinare già concluso (ed eventualmente nel giudizio lavoristico di impugnazione attivato dal dipendente pubblico). Nel caso in cui l’amministrazione decida di espletare integralmente il procedimento disciplinare (vuoi che si chiuda con un provvedimento sanzionatorio, vuoi con una archiviazione), dovrà ritenersi svincolata dagli esiti del giudizio penale in itinere, affermandosi una netta separazione tra i due vasi procedimentali, alla stessa stregua di quanto accade per i processi penali in cui la parte lesa non si sia costituita parte civile, optando per l’avvio di un autonomo giudizio civile di risarcimento del danno (art. 652 c.p.p.). Al contrario, se l’amministrazione ritenga di sospendere da subito il procedimento disciplinare in attesa dell’esito del giudizio penale (per la complessità dell’accertamento fattuale, per l’inconfigurabilità di una minaccia immediata di danno all’immagine o da disservizio, per la piena coincidenza fra fatti contestati disciplinarmente e fatti oggetto dell’imputazione penale, o per altre ragioni obiettive), potrà mantenersi l’effetto vincolante dell’accertamento compiuto in sede penale e l’efficacia di giudicato delle sentenza irrevocabile di assoluzione o di condanna.
Appare pertanto erroneo prevedere forme di “raccordo” in ipotesi di avvenuto compimento del procedimento disciplinare. Da un lato, la scelta dell’amministrazione per la continuazione del procedimento disciplinare, e dunque il ripudio della pregiudizialità, rende i due procedimenti paralleli e non interferenti tra loro neppure quanto all’accertamento materiale dei fatti addebitati; d’altro lato, la scelta per la sospensione del procedimento disciplinare perpetua gli attuali meccanismi e conferma, senza necessità di nuove soluzioni, l’insuperabile vincolatività degli esiti processuali penali. In tal modo, la pubblica amministrazione, caso per caso, potrà ancorare l’esito disciplinare alle risultanze del processo penale, disponendo la sospensione del giudizio disciplinare; ovvero potrà svincolare definitivamente i due procedimenti, rendendoli liberi ed indipendenti fra loro, esercitando e portando a termine l’azione disciplinare in concomitanza con lo svolgimento del processo penale.
La disposizione in questione potrebbe pertanto essere così riscritta: “prevedere che il procedimento disciplinare possa proseguire e concludersi anche in pendenza del procedimento penale, affermando in tal caso la non applicabilità dell’art. 653 c.p.c. e dunque la non estensibilità dell’efficacia di giudicato delle sentenze penali irrevocabili di assoluzione o di condanna” (in tal senso, in sede di legge delegata, si dovrebbe introdurre, nell’art. 653, cc. 1 e 2, c.p.p. un inciso del tipo “salvo che la pubblica amministrazione abbia già concluso l’azione disciplinare ai sensi dell’art. 6, c. 2, lett. b), l. n…”).
Potrebbe infine essere utile precisare che, in caso di sospensione del procedimento disciplinare, la sentenza di condanna, anche non irrevocabile (di primo o secondo grado), al pari della sentenza di applicazione della pena su richiesta (c.d. patteggiamento), possa esplicare efficacia di giudicato nel giudizio per responsabilità disciplinare laddove l’imputato sia stato prosciolto per prescrizione del reato e quindi non abbia fatto valere nel processo la rinuncia alla prescrizione chiedendo di essere giudicato comunque nel merito; e che la sospensione dal servizio, come il trasferimento di ufficio e la messa in aspettativa o in disponibilità ex art. 3, l. n. 97/2001, possano operare, in ipotesi di interruzione del procedimento disciplinare, sino alla conclusione definitiva del processo penale, senza vincoli temporali, senza necessità di reiterazione di provvedimenti o valutazioni e senza il presupposto della ricorrenza di particolari tipologie di reato.
Il quarto profilo investe disposizioni immediatamente precettive relative ad aspetti funzionali ed ordinamentali della Corte dei conti. Pare opportuno segnalare che le novità di cui all’art. 9, c. 2, pur richiamando ad un più incisivo ruolo della Corte, non sono di sostanza ma solo nominalistiche (già ora la Corte dei conti, oltre ad un residuale controllo preventivo di legittimità su determinati atti, svolge un controllo successivo di gestione che, nella pratica, può ritenersi pianamente sovrapponibile ai “controlli su gestioni pubbliche statali in corso di svolgimento” indicati nel primo periodo della disposizione; già ora sussistono obblighi di comunicazione alle amministrazioni interessate circa l’accertamento di eventuali gravi irregolarità gestionali ovvero gravi deviazioni da obiettivi, procedure o tempi di attuazione; già ora l’amministrazione può agire in via di prevenzione tramite l’autotutela, comprendente la sospensione dell’impegno di somme già stanziate su determinati capitoli di spesa).
Inoltre la trasformazione del Consiglio di presidenza da «organo di autogoverno» a «organo di amministrazione del personale di magistratura», potrebbe creare conflitti di costituzionalità con riguardo agli artt. 100, 103, 108 Cost., anche a causa della sottrazione di compiti inerenti all’autorizzazione e revoca degli incarichi extra-istituzionali e soprattutto ai procedimenti disciplinari a carico dei magistrati contabili, che parrebbero espunti dalle nuove competenze del Consiglio di presidenza per effetto della esplicita abrogazione dell’art. 10 l. n. 117/1988 ad opera del c. 7, peraltro non totale poiché comunque rimane salva, ex c. 6, la previsione di cui al c. 2, lett. d) l. 117/’88, relativa all’estrazione professionale dei rappresentanti di nomina parlamentare.