COME REPERIRE LE RISORSE NECESSARIE ALL’UNIVERSITA’ IN MODO EQUO, EFFICIENTE E SOSTENIBILE

LO STATO DEVE FAVORIRE LA SCOMMESSA COMUNE TRA ATENEO E STUDENTE SUL SUCCESSO PROFESSIONALE ALL’ESITO DEL CORSO DI STUDI, CHE LI RESPONSABILIZZA ENTRAMBI

Articolo di Andrea Ichino pubblicato sul Sole 24 Ore del 27 maggio 2011 – L’articolo risponde anche a un intervento fortemente critico di Roberto Ciccarelli sul Manifesto del 26 maggio e alla durissima reazione della Flc-Cgil, di pari data, contro questa iniziativa parlamentare – V. anche il testo dell’interrogazione presentata ai ministri dell’Economia e dell’Istruzione il 18 maggio 2011

Gli atenei italiani sono strangolati dai tagli ai finanziamenti abbinati all’impossibilità di ridurre posti di lavoro intoccabili indipendentemente dalla performance dei singoli. Le retribuzioni sono uguali per tutti, a parità di anzianità, e i migliori se ne vanno, se già non sono all’estero, lasciando qui chi si accontenta spesso per mancanza di alternative. Si potrebbero liberare risorse rilevanti tagliando chirurgicamente i molti sprechi e le rendite parassitarie che pullulano nelle nostre università ma questo richiede tempo. E oggi l’Erario non può destinare somme maggiori agli atenei, neanche se tagliasse, come sarebbe auspicabile, altre sprechi nella spesa pubblica o recuperasse evasione fiscale.
C’è però una strada alternativa percorribile, promossa dall’Osservatorio sull’Università del Gruppo 2003 che ha dato origine ad un’interrogazione parlamentare presentata al Senato il 18 maggio . Una strada contro cui sta montando un’opposizione ideologica ottusa e preconcetta, costruita su una descrizione fuorviante e infondata della proposta.
Sono molti gli studenti che sicuramente potrebbero pagare di più per i loro studi universitari: sono i figli delle famiglie abbienti che attualmente pagano meno di quanto costi il loro addestramento. Questo consente loro di incrementare il capitale umano e i redditi futuri a spese della fiscalità generale, e in particolare dei poveri che pagano le tasse ma mandano con minor frequenza i figli all’università. Non riesco a trovare un solo argomento contro la proposta di alzare le tasse universitarie pagate dagli studenti più abbienti. È comunque uno scandalo che essi non paghino per un investimento di cui loro per primi godranno. Sorprende che la sinistra ancora non se ne sia accorta.
Ma che fare per gli studenti meno abbienti? Purtroppo, non bastano le tasse universitarie pagate dai super ricchi per finanziare un’istruzione terziaria di alta qualità per tutti gli altri che meritano di accedervi. E d’altro canto, dare ai poveri un’università gratis ma di pessima qualità è una truffa. Sono loro gli studenti maggiormente interessati ad atenei ben finanziati, che funzionino meglio e possano offrire quell’ascensore sociale che manca nel nostro Paese. Nonostante istruirsi costi poco in Italia, la mobilità intergenerazionale è tra le più basse nei paesi avanzati.
Esiste poi una classe media che potrebbe pagare gli studi universitari dei suoi figli, se di questi costi fosse avvertita per tempo. In USA molte famiglie iniziano quando i figli nascono a mettere da parte per il loro “college“. Ma in Italia queste stesse famiglie rifiuterebbero oggi, a buon diritto, un improvviso aumento delle tasse universitarie, anche se a regime fosse equo e consentisse di migliorare la qualità degli atenei.
Una soluzione c’è, però, anche per questi casi. Le università potrebbero essere lasciate libere, se vogliono, di aumentare le tasse universitarie (differenziate per reddito familiare) e lo Stato potrebbe anticipare l’eventuale spesa aggiuntiva degli studenti meno abbienti ad una condizione: che siano essi stessi (e non le loro famiglie) a dover ripagare il debito, ma solo se e quando, e qui sta il punto cruciale, arriveranno a guadagnare un reddito sufficiente per farlo. Solo da quel momento, e comunque gradualmente, dovranno saldare il loro debito attraverso una voce specifica del prelievo fiscale a cui saranno assoggettati.
Dal punto di vista dello Stato questo anticipo si configura come un investimento in capitale umano, finanziato con un’emissione di debito il cui rendimento atteso è funzione dei maggiori redditi che gli studenti conseguiranno proprio grazie a studi universitari di migliore qualità. È possibile che i mercati finanziari non credano alla bontà di questo investimento. Ma supponiamo che questa fonte di finanziamento sia associata ad una liberalizzazione delle università che consenta loro di dotarsi delle strutture più avanzate e di competere per gli studenti più meritevoli e per i docenti più capaci. Ossia che i timidi passi in avanti della riforma Gelmini si concretizzino in un vero miglioramento di qualità e non nel “cambiare affinché nulla cambi”. Allora i mercati avrebbero buone ragioni per fidarsi dell’operazione, perché percepirebbero che il debito finanzierebbe un investimento redditizio.
Per chi presta, esiste sempre un rischio di default del debitore. E ci sarebbe ovviamente anche in questo caso. Ma potrebbe essere contenuto se lo Stato stabilisse che la percentuale di default debba essere coperta dalle università stesse con un sistema bonus-malus. Esse risulterebbero così responsabilizzate e avrebbero forti incentivi a migliorare la qualità degli studenti ammessi e degli insegnamenti impartiti anche mediante finanziamenti alla ricerca.
Fantascienza? No. La recente riforma inglese suggerita dal Rapporto Browne è simile a quanto qui proposto. L’interrogazione promossa dal Gruppo 2003 chiede al Governo come mai, invece del Fondo per il Merito di cui poco si è capito, non sia stata data preferenza, anche solo in via sperimentale in qualche ateneo interessato, a questa soluzione che appare equa, efficiente e sostenibile.
Andrea Ichino
andrea.ichino@unibo.it

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