LAVORO E RELAZIONI INDUSTRIALI SECONDO EMMA MARCEGAGLIA

IL CAPITOLO DELLA RELAZIONE ALL’ASSEMBLEA ANNUALE, NEL QUALE LA PRESIDENTE DI CONFINDUSTRIA DELINEA LE RIFORME DEL SISTEMA DELLA CONTRATTAZIONE E DEL MERCATO DEL LAVORO RITENUTE DAGLI INDUSTRIALI NECESSARIE PER RILANCIARE LA CRESCITA DEL PAESE

Pagine estratte dalla relazione di Emma Marcegaglia all’Assemblea annuale di Confindustria, Roma, 26 maggio 2011 (v. anche il testo integrale della relazione) – Le evidenziazioni in grassetto sono mie – Per un commento, v. la mia intervista all’Agenzia Adn-Kronos del 27 maggio – In proposito v. anche la presa di posizione della stessa Marcegaglia a Davos sul progetto flexsecuritydel gennaio 2009

[omissis] Ci sono temi altrettanto fondamentali che competono prevalentemente alle parti sociali. E che contribuiscono a spiegare la straordinaria performance di crescita che la Germania sta vivendo. Mi riferisco in particolare alle riforme del mercato del lavoro e delle relazioni industriali e al livello di internazionalizzazione delle imprese. La Germania ha varato importanti riforme del mercato del lavoro che ne hanno aumentato il livello di flessibilità. Negli anni Duemila in Germania è cominciato un processo di evoluzione del sistema delle relazioni sindacali. Oggi il contratto collettivo nazionale ha ancora un peso significativo, ma il 50% circa delle aziende introduce deroghe, concordate con il sindacato. È prevista la possibilità di sostituire il contratto nazionale con quello aziendale, anche se tale possibilità è stata utilizzata solo dal 7% delle imprese.
     In molte categorie c’è un solo sindacato o comunque prevalgono impostazioni unitarie. Per proclamare uno sciopero serve il consenso del 75% dei lavoratori iscritti. Il nostro accordo interconfederale del 2009 ha introdotto il principio dei contratti flessibili, derogabili a livello aziendale ed esigibili. È un accordo che va esattamente nella direzione tedesca.
     Noi ora vogliamo andare avanti su quella strada, offrendo ai nostri associati strumenti diversificati per ottenere più produttività attraverso le relazioni sindacali.
     Ci sono imprese che vorranno mantenere la centralità del contratto nazionale, che deve essere più avanzato.
     C’è chi avrà l’esigenza di contrattare e introdurre deroghe a livello aziendale.
     C’è infine chi avrà l’esigenza di sostituire il contratto nazionale con il contratto aziendale.
     Con le nuove regole che ci siamo dati tutte queste fattispecie sono già oggi praticabili. Nessuno può dire che non abbiamo fatto tutto ciò che era necessario per ammodernare le regole della contrattazione e venire incontro alle esigenze di tutte le diverse tipologie di imprese e di settori. Su questo punto non ci sono dubbi.
     Il nuovo modello che abbiamo perseguito conosce, certamente, anche strappi e fasi di tensione con la parte del sindacato che per principio è contraria, come la FIOM che intenta cause alla FIAT ma anche a tante altre aziende. Ma noi restiamo convinti che questo nuovo modello si costruisca meglio con un confronto incessante con i sindacati, ciascuno dei quali ha diritto alla rappresentanza, ciascuno dei quali può dire no ed essere magari poi smentito dal voto dei lavoratori, come finora è avvenuto.
     Noi andremo avanti. Restare aperti al confronto è l’unico modo perché le imprese possano continuare a crescere in questo Paese. Perché crescere in Italia e non solo all’estero resta per noi un motivo di orgoglio e un impegno prioritario.
     Ma sia chiaro: chi continua a dire solo no si assume una grave responsabilità di fronte al Paese, di fronte ai giovani, di fronte al Mezzogiorno. Continuare a difendere l’occupazione in Italia sarà sempre più difficile. Vogliamo assolutamente, in tempi brevi, arrivare a un accordo condiviso sulla rappresentanza e sulla esigibilità dei contratti. Servono regole che, per la governabilità delle aziende e per la tutela stessa dei lavoratori, sanciscano che un accordo firmato dalla maggioranza vale per tutti.
     Il mercato del lavoro italiano continua a essere caratterizzato da rigidità e gravi forme di dualismo tra le generazioni, tra i generi e tra le diverse aree del Paese. All’inizio del 2011 un giovane italiano tra i 15 e i 24 anni di età aveva una probabilità di non trovare impiego del 50% più elevata rispetto a quella dei suoi coetanei nell’area euro e addirittura più che tripla rispetto a quella di un giovane tedesco. Nella fascia tra i 15 e i 24 anni l’occupazione italiana è di 30 punti inferiore a quella di Regno Unito e Germania. Nel 2010 i giovani sotto i 29 anni fuori dal mondo del lavoro e dall’istruzione sono saliti a 2,1 milioni. Uno spreco immane di vita e di risorse. In Italia la quota di donne che lavorano è di 20 punti inferiore a quella della Germania. Per le generazioni centrali (25-54 anni) l’occupazione femminile al Nord supera abbondantemente quella dell’area euro e delle maggiori nazioni europee, mentre al Sud quasi si dimezza. Lo stesso accade tra i giovani: la disoccupazione giovanile è al Sud quasi doppia che al Nord.
      Di fronte a questi dati, che denunciano il malfunzionamento e le rigidità del nostro mercato del lavoro a tutto svantaggio dei giovani, è venuto il momento di fare un ragionamento a 360°. Dobbiamo riflettere e prendere rapide decisioni sulla formazione, sul passaggio tra scuola e lavoro, su più adeguati percorsi di studio nella scuola e nell’università, su più efficienti strumenti di orientamento e collocamento al lavoro, sul nuovo contratto di apprendistato in via di riforma, su politiche fiscali meno pesanti per chi ha carichi familiari e su servizi pubblici più efficienti per la famiglia.
     Per un’Italia in cui ai giovani sia riservato un futuro meno incerto, dobbiamo riprendere in mano le leggi sul lavoro. C’è un dibattito in corso nel Paese su questo tema. C’è la proposta del Ministro Sacconi di un avviso comune tra le parti sociali per costruire un nuovo statuto dei lavori. Ci sono proposte di una parte riformista dell’opposizione su uno schema di riforma complessiva che considera anche la flessibilità in uscita. Queste proposte hanno in comune il riequilibrio delle tutele tra i lavoratori troppo garantiti e i giovani dal futuro sospeso. Occorre proteggere i lavoratori dalla perdita di reddito, non dalla perdita del posto di lavoro.
     È un problema che va affrontato senza freni ideologici, con grande serietà. In termini culturali, prima che di appartenenze politiche o di vetusti riflessi condizionati. La soluzione non può venire dalle trasformazioni in massa di contratti flessibili in assunzioni a tempo indeterminato, come avverrà ora nella scuola senza alcuna considerazione per il merito e il talento e applicando l’unica regola aurea che vale da sempre nel pubblico impiego, quella dell’anzianità e dei cosiddetti diritti acquisiti. La soluzione può venire invece da un ampio disegno riformatore che deve vederci tutti impegnati. Questo è l’unico modo per consegnare all’Italia un futuro migliore e più giusto verso giovani, donne e Mezzogiorno.
     C’è poi chi continua a ripetere che il problema dell’Italia è una cattiva distribuzione del reddito, che le imprese si sono tenute tutti i guadagni di produttività. Le cifre raccontano una storia molto diversa. Nei dieci anni precedenti la crisi le retribuzioni reali sono salite in Italia appena dell’8%, ma la produttività del lavoro ancora meno: solo del 4,5%. In Germania nello stesso arco di tempo la produttività è aumentata del 19,3% e le retribuzioni reali sono diminuite del 2,7%. In Francia la produttività è salita del 18,5% e le retribuzioni reali sono aumentate del 14,2%. I margini di profitto in Italia sono in diminuzione: nell’industria manifatturiera il margine operativo lordo in rapporto al valore aggiunto si è ridotto di un quarto. Una tendenza opposta a quella osservata in Germania e negli Stati Uniti. Non ci si può stupire se una simile diminuzione di risorse e redditività scoraggi gli investimenti.
     La verità è che la bassa crescita penalizza tutti. [omissis]

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