I RISULTATI DI TORINO, MILANO, BOLOGNA E NAPOLI POTREBBERO APPARIRE FRA LORO CONTRADDITTORI – MA LI SI POSSONO CAPIRE SE SI CONSIDERANO, UNA PER UNA, LE SITUAZIONI PARTICOLARI IN CUI GLI ELETTORI SI SONO TROVATI A COMPIERE LE LORO SCELTE
Editoriale di Luca Ricolfi, pubblicato su la Stampa del 18 maggio 2011 – Sul voto del 15 maggio v. anche il mio editoriale La vittoria del partito delle primarie
Al voto ogni città fa storia a sé. E’ difficile dar torto a Giuliano Ferrara che, la sera dei risultati elettorali, li commentava più o meno così: Berlusconi è stato punito, la Moratti ha sbagliato, il governo di centro-destra è alle corde, ma farebbe male la sinistra a cantare vittoria, visto che quel che sta venendo fuori non è una coalizione alternativa, costruita intorno a un Partito democratico forte e vincente. Ma un centro-sinistra sempre più egemonizzato dalle sue componenti più estreme: Di Pietro, Vendola, Beppe Grillo.
La lettura di Ferrara ha il merito di stoppare le letture autocelebrative o autoconsolatorie date dalla maggior parte degli attori in campo. È abbastanza penoso, ad esempio, il tentativo del centro-destra di dire che – Milano a parte – nulla di grave sia successo. Come è fuori della realtà l’idea di alcuni leader del Pd secondo cui il «vento del Nord» starebbe premiando il partito di Bersani. Per non parlare dei tre leader del «terzo polo», secondo cui le elezioni avrebbero dimostrato che senza il terzo polo non si vince, quando semmai – le cifre dicono che la doppia scissione di Fini (Fli) e Rutelli (Api) dalle rispettive case-madri, Pdl e Pd, ha aggiunto ben poco consenso a quello che Casini era in grado di attirare da solo con la sua Udc. Insomma Ferrara ha ragione a sottolineare che gli unici che possono davvero cantare vittoria sono gli outsider: Grillo un po’ dappertutto, De Magistris a Napoli, Pisapia a Milano.
E tuttavia, a dispetto di questa diagnosi di fondo, indubbiamente confortata dai risultati finali, a me pare che il quadro sia meno nitido di quello che sembra. E questo per almeno due ragioni di fondo.
La prima è che la indubbia e prevedibile sconfitta di Berlusconi non necessariamente segnala un’inversione di tendenza negli orientamenti generali dell’elettorato. È noto che, nei Paesi democratici, il consenso al governo segue una traiettoria ben definita (la cosiddetta curva di Schmitt), con il momento più favorevole all’inizio della legislatura, e il momento più sfavorevole intorno al terzo anno. Adesso siamo appunto al terzo anno, e nulla esclude che a fine legislatura si verifichi di nuovo quel che accadde nel 2006, quando il centro-destra andò a un passo dal riacciuffare la vittoria. La sola differenza importante è che allora fu proprio Berlusconi a guidare la rimonta, mentre ora è ben difficile immaginare che egli sia in condizione di farlo. Il compito toccherà a Tremonti.
Ma c’è anche una seconda ragione che mi suggerisce prudenza, prima di azzardare interpretazioni generali del voto. Ed è che, a ben riflettere, ogni realtà locale sembra fare storia a sé. In Sardegna, ad esempio, il voto (negativo per il governo) è stato condizionato pesantemente non solo dall’abbinamento al referendum sul nucleare, che ha fatto aumentare la partecipazione (in controtendenza con il resto del Paese), ma dal dramma dei fallimenti, spesso dovuti alla impossibilità di pagare le tasse, ed esplosi l’anno scorso in Sardegna più che in qualsiasi altra regione italiana (+106,1%, contro il 47,7% nazionale).
E anche se spostiamo la nostra attenzione alle quattro grandi sfide di Torino, Bologna, Napoli e Milano, è difficile non riconoscere le radici locali, contingenti, specifiche delle scelte degli elettori.
Ho provato a fare un esperimento mentale, e ad immaginarmi come cittadino di ciascuna di queste città. A Torino ha vinto Fassino, promettendo continuità con Chiamparino, uno dei sindaci più popolari d’Italia, amato dalla sinistra, rispettato dalla destra, uno dei pochi «riformisti Doc» del centro-sinistra. Qualcuno può stupirsi che non sia bastata la sua età – il fatto di essere vecchio – a metterlo in difficoltà?
Vediamo Bologna. Qui la sinistra ha rischiato di essere costretta al ballottaggio, la Lega ha avuto un’ottima affermazione, ma la vera novità è stata il successo della lista di Beppe Grillo. Un altro esito del tutto logico, se si pensa che il sindaco uscente era un esponente del Pd (il sindaco Delbono), costretto alle dimissioni per uno scandalo sentimental-economico-amministrativo.
E Napoli? Quasi tutti si sono stupiti perché la sinistra, andata divisa al voto, ha portato al ballottaggio non il candidato del Pd ma il candidato dell’Italia dei valori, quel De Magistris che è considerato l’espressione più compiuta del giustizialismo.Qualcuno può stupirsi che abbia raccolto quasi il 30% dei voti, abbia battuto il candidato del Pd, e sia andato al ballottaggio? Secondo me no, e lo dico per introspezione, ossia guardando dentro me stesso. Sono lontanissimo dalle posizioni di Di Pietro e De Magistris, mi sento molto più vicino ai garantisti che al partito delle manette, eppure se fossi un cittadino di Napoli avrei preso anch’io in seria considerazione l’idea di votare De Magistris. Mettetevi nei panni di uno sfortunato cittadino di Napoli e provate a chiedervi: dopo anni di malgoverno della sinistra (Bassolino e Russo-Jervolino), con la città invasa dai rifiuti, e con Berlusconi che lascia intendere che varerà l’ennesimo condono edilizio, come potevo scegliere fra Pdl e Pd? Mi sa che avrei scelto De Magistris persino io.
Resta Milano. E qui si annida l’equivoco più grande. Qualcuno ha provato a leggere la vittoria di Pisapia, candidato della sinistra radicale alle primarie del Pd, come uno dei tanti segni che il centro-sinistra stia perdendo sempre più i suoi tratti moderati, e stia diventando sempre più estremista. Ma è una lettura sbagliatissima. Non solo perché ignora che i milanesi sono insoddisfatti di come la città è stata amministrata, trascura che la propaganda del Pdl è stata inutilmente aggressiva, dimentica che la Moratti ha chiuso la sua campagna con una clamorosa scorrettezza (aggravata dal rifiuto di chiedere scusa), ma perché dimostra di non conoscere il candidato Pisapia. Contrariamente a quanto alcuni credono, e a dispetto delle sue simpatie politiche giovanili, Pisapia non è né un estremista, né tantomeno un giustizialista. E’ semmai l’esatto contrario, una delle voci più limpide del garantismo in Italia. Chi avesse dei dubbi, e non si accontentasse di scoprirlo ripercorrendo la sua storia politica e parlamentare, può leggere il suo ultimo libro, In attesa di giustizia. Dialogo sulle riforme possibili (Guerini 2010), scritto insieme a Carlo Nordio, forse il magistrato italiano più consapevole dei limiti (e delle colpe) di giudici e pubblici ministeri. Una coppia inedita, che – nell’introduzione al loro libro – Sergio Romano descrive così: Nordio «è un liberale voltairiano, scettico e realista», Pisapia «appartiene a una sinistra idealista e generosa». Al punto che ieri, scherzando, Massimo Gramellini si è spinto a dire che Berlusconi, deluso dalla Moratti, «starebbe meditando di candidare lui», il super-garantista Pisapia, «a sindaco di Milano».
Posso sbagliarmi, ma a me pare che in queste elezioni non abbiano vinto né la destra né la sinistra, né i moderati né gli estremisti. Quel che è successo è, semplicemente, che i cittadini certe cose non le digeriscono più. Dove il potere è rimasto nei limiti della decenza, confermano chi ha governato. Dove il potere è andato oltre, rubando, sprecando, o semplicemente perdendo il senso della misura e della buona educazione, cercano un’alternativa, o mandano segnali. E nel fare questo usano quello che trovano: un magistrato-Savonarola (De Magistris), un comico indignato (Grillo), un avvocato gentile (Pisapia).
Può darsi che tutto questo, domani, si traduca e si sostanzi in qualche tendenza generale, e ci mostri un’evoluzione, un percorso, una via. Ma, per ora, mi pare che quel che ognuno di noi è incline a vedere sia soprattutto frutto dei suoi sogni, come le costellazioni che crediamo di indovinare nelle notti d’estate.