OCCORRONO UN MIGLIORE COORDINAMENTO TRA SISTEMA FORMATIVO E TESSUTO PRODUTTIVO, MAGGIORE APERTURA AGLI INVESTIMENTI STRANIERI E UN NUOVO DIRITTO DEL LAVORO SEMPLIFICATO, CAPACE DI APPLICARSI A TUTTI I NUOVI RAPPORTI DI LAVORO
Intervista a cura di Eugenia Campo di Costa in corso di pubblicazione sull’inserto Dossier del quotidiano il Giornale, maggio 2011 – In argomento v. anche la mia intervista al mensile della Diocesi di Vicenza, del marzo scorso
In Italia circa 1,1 milioni di giovani sotto i 30 anni non studiano, non lavorano, né cercano attivamente un lavoro. È il fenomeno dei Neet, una condizione che può avere effetti deleteri e permanenti sul futuro professionale di questi giovani.
Le principali cause di questa situazione, secondo lei, sono riconducibili esclusivamente alla crisi o ci sono altre motivazioni che hanno portato alla crescita di questo fenomeno?
Il fenomeno dell’alto numero di giovani non più a scuola e non ancora al lavoro è il risultato di uno dei difetti più gravi del nostro mercato del lavoro: il difetto di cattivo coordinamento tra sistema scolastico-formativo e tessuto produttivo, che si manifesta anche nella mancanza di servizi regionali efficienti e capillari di orientamento scolastico e professionale. Il tutto è aggravato dalla domanda di lavoro fiacca in un Paese che subisce i danni della globalizzazione senza saper approfittare dei suoi vantaggi.
Eppure in questo quadro, in molti settori risultano esserci migliaia di posti scoperti, come mai secondo lei?
È proprio qui che si vede l’inesistenza o comunque l’inefficienza dei servizi di orientamento scolastico e professionale. Quei posti scoperti richiedono per larga parte capacità professionali comprendenti anche abilità manuali: parliamo per esempio di installatori, falegnami, elettricisti, macellai, idraulici, tecnici informatici. Queste qualifiche sarebbero accessibili agevolmente da quasi tutti i nostri Neet; ma nessuno li informa, né dell’esistenza di questa possibilità di lavoro, né dei canali formativi disponibili per raggiungerla. E non è solo questione di mancanza di buona informazione: ai nostri giovani forniamo informazioni sbagliate, che li inducono a compiere scelte sbagliate.
Quali misure bisognerebbe prendere per sbloccare la situazione e incentivare l’occupazione?
Innanzitutto occorre rimettere in moto la crescita nel nostro Paese. E la sola leva di cui disponiamo per aumentare gli investimenti e l’afflusso di buoni piani industriali consiste nell’aprire il Paese agli investimenti stranieri. Su questo terreno oggi l’Italia è fanalino di coda in Europa. Se solo riuscissimo ad allineare l’Italia con la media europea, potremmo attirare ogni anno un flusso aggiuntivo di investimenti stranieri tra i cinquanta e i sessanta miliardi: trenta volte il pur cospicuo investimento proposto dalla Fiat di Marchionne con il piano Fabbrica Italia.
A che cosa si riferisce?
In Svezia, dove i servizi di orientamento funzionano capillarmente, circa il 40 per cento degli adolescenti intervistati per Eurobarometro al termine del loro ciclo di studi medi dichiarano di vedere nel proprio futuro un lavoro che comporta qualche attività manuale. E questa percentuale corrisponde in modo impressionante agli sbocchi occupazionali comportanti attività manuale che attendono realmente quei ragazzi. In Italia, dove i buoni servizi di orientamento scolastico non ci sono, i genitori e la scuola media instillano sovente nei ragazzi l’idea che andare all’università sia comunque per tutti la scelta migliore; e l’università, pur di aumentare gli studenti iscritti, asseconda questa idea. Col risultato che soltanto il 5 per cento dei ragazzi intervistati per Eurobarometro alla fine di un ciclo di studi medi risponde di prevedere per sé un lavoro che comporti qualche attività manuale. Non ci si deve stupire se poi essi andranno ad affollare facoltà universitarie che, dal punto di vista occupazionale, sono dei veri e propri vicoli ciechi.
Oggi in Italia di fatto si può assumere con partita iva o con contratto a progetto qualsiasi lavoratore dipendente; e questa è la sorte della maggior parte dei giovani, non soltanto per la fase di ingresso nel mercato del lavoro. Come si può superare questa situazione?
Questo fenomeno è in larga parte la conseguenza dell’iperprotezione che caratterizza il rapporto di lavoro regolare. L’unico modo per superarlo è riscrivere un diritto del lavoro che possa davvero applicarsi a tutti i rapporti di lavoro dipendente che si costituiscono da qui in avanti: tutti a tempo indeterminato, a tutti le protezioni essenziali, ma nessuno inamovibile. È il progetto che ho presentato, insieme ad altri 54 senatori, con il disegno di legge n. 1873/2009.
Quali strumenti strategici mancano al Paese per far evolvere in chiave costruttiva i rapporti contrattuali di lavoro, combattendo in primis il precariato?
Occorre un diritto del lavoro che possa applicarsi a tutti i rapporti di lavoro dipendente, intendendosi per tali quelli in cui il prestatore trae continuativamente tutto o quasi tutto il suo reddito da un’unica azienda, salvo che quel reddito superi una soglia determinata: per esempio, 30.000 o 40.000 euro annui. La mia proposta è che, per i rapporti di lavoro di questo tipo che si costituiranno d’ora in poi si elimini del tutto il controllo giudiziale sul licenziamento per motivi economici od organizzativi, e lo si sostituisca con un’indennità di licenziamento e un trattamento complementare di disoccupazione a carico dell’impresa che licenzia.
Sotto quali altri aspetti normativi i contratti di lavoro vanno resi più flessibili, anche in un’ottica di riduzione del tasso di disoccupazione giovanile?
La nuova disciplina dovrebbe essere drasticamente semplificata: il mio progetto sostituisce l’intera legislazione di fonte nazionale in materia di lavoro con 70 articoli brevi, chiari e traducibili in inglese. E dovrebbe tenersi aderente agli standard europei: nulla di meno, ma il meno possibile di più rispetto a quegli standard, sia in materia di mansioni, sia in materia di orario e permessi.