QUEL CHE NON MI VA GIU’ DI QUESTO PRIMO MAGGIO

NELLA FESTA DEL LAVORO NON FA UN PASSO AVANTI NÉ IL DISCORSO SULLA DEMOCRAZIA SINDACALE NÉ QUELLO SUL SUPERAMENTO DELL’APARTHEID NEL MERCATO DEL LAVORO TRA PROTETTI E NON PROTETTI

Editoriale per Qualcosa di Riformista, 2 maggio 2011

            Non mi scandalizza che anche nel giorno della Festa del Lavoro i sindacati maggiori preferiscano sottolineare i dissensi rispetto alle possibili convergenze: in un regime di pluralismo sindacale anche questa divisione deve considerarsi fisiologica. Ma non mi va giù che nemmeno nel giorno della Festa del Lavoro si registri la minima convergenza neppure sulla necessità di una cornice essenziale di regole per evitare che il dissenso tra i sindacati produca paralisi. Che in questa giornata non faccia neppure mezzo passo avanti l’idea di un sistema di democrazia sindacale, per cui in ogni luogo di lavoro la maggioranza rispetti i diritti della minoranza e la minoranza rispetti quelli della maggioranza.
            Non mi scandalizza che anche nel giorno della Festa del Lavoro i sindacati maggiori scelgano come tema centrale nelle loro celebrazioni la denuncia degli attacchi ai diritti dei lavoratori e la difesa del posto stabile regolare per chi rischia di perderlo. Quello che non mi va giù è che questi discorsi riguardino sempre, in sostanza, soltanto i dipendenti regolari delle grandi aziende. Che non si spenda una parola per spiegare come si possa rendere concreta la possibilità di accesso al diritto del lavoro e a un posto regolare per la metà dei lavoratori dipendenti italiani che oggi ne è permanentemente esclusa. Che in nome di questa difesa si perpetui il rifiuto di una riforma profonda capace di ridare al nostro diritto del lavoro il carattere dell’effettività e dell’universalità.
            Non mi va giù, poi, che neppure una parola venga spesa per gli altri cinque milioni di italiani – di cui quattro quinti italiane – oggi tenuti fuori dalle forze di lavoro, che potrebbero invece farne parte a pieno titolo se il nostro tessuto produttivo fosse più capace di crescita e più aperto agli investimenti esteri, se il nostro mercato del lavoro funzionasse come l’Unione Europea ci chiede che funzioni.
            Non mi va giù, infine, la concezione del Primo Maggio che ne fa una festa dei lavoratori contro i consumatori, contro i viaggiatori e i turisti, contro gli utenti dei servizi pubblici. È la concezione che ha indotto gran parte del movimento sindacale a rivendicare dai sindaci per questa giornata ordinanze di chiusura ermetica delle città, ivi compreso il blocco dei mezzi di trasporto. Là dove, invece, i sindaci hanno consentito l’apertura degli esercizi pubblici, i centri sociali hanno minacciato i commercianti: “se aprite ve ne faremo pentire”. E i sindacati del commercio hanno proclamato lo sciopero per tutta la giornata. Che senso ha lo sciopero, in un giorno in cui la legge consente a qualsiasi lavoratore – salvo che nei servizi pubblici essenziali – di rifiutare la propria prestazione senza perdere la normale retribuzione? Non sarebbe stato meglio informare diffusamente i lavoratori di questo loro diritto di autodeterminazione? E poi, sciopero contro che cosa? Non sono forse gli stessi lavoratori anche consumatori, viaggiatori, utenti dei servizi pubblici? E non sono forse proprio le persone meno agiate – come ha giustamente osservato Irene Tinagli sulla Stampa – ad avere più bisogno di città aperte e ospitali per poter celebrare la propria festa? Dov’è il valore comunitario di una festa in cui, finito il corteo, ciascuno è costretto a starsene recluso nella propria auto o a casa propria?

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