CONTRO LA PRECARIETÀ OCCORRE (ANCHE) UNA RIFORMA INCISIVA DEL DIRITTO DEL LAVORO

NON BISOGNA AVERE PAURA A SOSTENERE UNA RIFORMA FORTE DEL DIRITTO DEL LAVORO, CHE PREVEDA UN CONTRATTO UNICO DI LAVORO CON PROTEZIONE DELLA STABILITÀ CRESCENTE CON IL CRESCERE DELL’ANZIANITÀ

Articolo di Eleonora Voltolina, pubblicato su Il Fatto Quotidiano il 21 aprile 2011

Ho letto sul Fatto la lettera aperta firmata da Ilaria Lani, Salvo Barrano e Teresa Di Martino, tre dei promotori de «Il nostro tempo è adesso». Essendo anch’io fra i promotori di quell’evento, vorrei sottolineare che fin da subito uno dei problemi più scottanti è stato capire come sarebbe stato gestito il “post 9 aprile”. Nella fase preparatoria avevamo scelto di rimandare questa decisione, puntando ad unificare le forze sotto il cappello di un appello molto ampio, che sottolineasse le enormi difficoltà dei giovani italiani di oggi a trovare buona occupazione, salari dignitosi, ricambio generazionale.
Ora Lani, Barrano e Di Martino indicano una loro strada: sostengono che si debba puntare all’abolizione dei contratti temporanei, e che il dibattito tra flessibilità buona e flessibilità cattiva sia non pertinente. Penso sia importante a questo punto chiarire che tra coloro che hanno promosso la manifestazione, e tra le migliaia di giovani che hanno partecipato, vi è anche chi crede in una linea diversa. Una linea che vuole prendere esempio dall’estero, dove la flessibilità buona è una realtà consolidata, i contratti “a tempo” non si trasformano automaticamente in precarietà e i giovani sono molto più valorizzati che da noi. Partendo dal confronto con gli altri Paesi e dall’analisi della situazione italiana, bisognerebbe puntare a separare il bambino dall’acqua sporca: sì alla flessibilità, che serve alle imprese a competere e quindi a creare non solo utili ma anche posti di lavoro, e però no alla precarietà.
Che vuol dire in pratica? Vuol dire, come giustamente dicono anche Lani Barrano e Di Martino, spingere per introdurre al più presto retribuzioni e contributi più alti per i contratti “a tempo”, e contemporaneamente abbassare i costi per quelli stabili. Ma vuol dire anche chiedere che sia sostenuta l’imprenditoria giovanile, con poderosi sgravi nei primi anni, e pretendere che sia introdotto dai sistemi bancari il credito ai giovani: sia per formarsi senza prosciugare le tasche dei genitori, sia per provare a realizzare un’idea imprenditoriale. Vuol dire lottare per una revisione delle politiche di welfare che introduca sostegni economici per tutti coloro che perdono il lavoro, vincolando questi sostegni a un impegno attivo di ciascuno nella ricerca di una nuova occupazione; e allo stesso tempo vuol dire rivoluzionare i centri per l’impiego, monitorandone l’efficienza e l’efficacia affinché siano competitivi sul mercato domanda-offerta. Vuol dire proporre l’introduzione di un salario minimo, sul modello per esempio dello Smic francese – che è cosa molto diversa dal “reddito di cittadinanza” che metterebbe in ginocchio le casse dello Stato. Del resto anche la Costituzione all’articolo 36 dice che «il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa».
E però vuol dire anche non avere paura a sostenere una riforma forte del diritto del lavoro, con l’introduzione di un contratto unico che preveda tutele progressive con il passare degli anni, sul modello di quelli elaborati da tanti esperti, da Pietro Ichino a Tito Boeri. Avere il coraggio di sostenere politiche che incentivino il merito, anche se questo significa perdere quei diritti di “inamovibilità” che specialmente nel settore pubblico si sono consolidati negli ultimi 40 anni. Vuol dire premere sull’Inps per risolvere l’enorme problema taciuto delle (inesistenti) pensioni che tra trent’anni (non) percepiranno i precari di oggi. Vuol dire lottare per i diritti ma non per i privilegi, che sono cosa ben diversa e bloccano ogni cambiamento.
A partire dalla protesta de «Il nostro tempo è adesso», la proposta per risolvere i problemi dei giovani italiani può essere declinata anche in un altro modo. Non per forza demonizzando il nuovo assetto del mercato del lavoro, bensì piuttosto cercando di migliorarlo e di impedire che al suo interno vi siano diseguaglianze tanto intollerabili tra chi ha un buon contratto e chi invece, da atipico, si ritrova cornuto e mazziato.
Il dibattito su come affrontare il post 9 aprile è prezioso: dobbiamo sforzarci di farlo guardando avanti anziché indietro, perché solo così potremo ambire a costruire un futuro diverso per i giovani italiani. Un futuro in cui ci possa essere una «flessibilità buona», e non precarietà.

(*)Eleonora Voltolina, membro del comitato Il nostro tempo è adesso, http://www.repubblicadeglistagisti.it/

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