UN ECONOMISTA ITALIANO CHE LAVORA NEGLI USA SPIEGA L’ERRORE DI PROSPETTIVA CHE CI INDUCE A RESTARE ABBARBICATI ALLA NOSTRA VECCHIA DISCIPLINA PROTETTIVA CONTRO I LICENZIAMENTI
Articolo di Alberto Bisin, Professore di economia alla New York University, pubblicato su il Fatto Quotidiano il 13 aprile 2011 (del quale, tranne il riferimento alla mala fede di chi dissente da questa prospettiva, condivido tutto) – In argomento v. ultimamente anche il “botta e risposta” tra Stefano Fassina e me
La manifestazione dei precari di sabato ha evidenziato ancora una volta le difficili condizioni di lavoro di coloro che, in Italia, non godono di protezione contrattuale e l’inefficienza del nostro mercato del lavoro che si manifesta appunto nel suo eccessivo dualismo: protezione estesa per alcuni e minima per altri. Molti commentatori reagiscono proponendo una soluzione “morale”: estendere le protezioni a tutti. Spesso abbinata a dichiarazioni da lotta di classe, lavoratori contro padroni.
Come sarebbe bello se fosse così facile. Ai precari manca sicurezza? Diamogliela. Dove prenderla? Dai padroni (o dai ricchi, o da chi non paga le tasse, e via discorrendo). Lo dico con ironia, naturalmente, ma piacerebbe anche a me vivere in un mondo in cui la redistribuzione del reddito potesse risolvere ogni problema. Non è così purtroppo, estendere la protezione del lavoro – garantire contratti a tempo indeterminato con solide garanzie contro il licenziamento – a tutti o quasi si può fare, ma a un costo: un’ulteriore riduzione del tasso di occupazione, soprattutto dei giovani e delle donne. È brutto da dirsi ma è così: più si protegge il lavoro, minore è il numero dei lavoratori protetti (a meno di non avere salari molto più bassi). Proteggere costa, riduce la produttività del lavoro e quindi l’occupazione del lavoro stesso a parità di salario. So che, messa così, è una affermazione apodittica e che chiunque sappia come trovare o massaggiare un dato proverà a contraddirmi, a mostrare che la Svezia garantisce protezione e occupazione e la Gran Bretagna all’opposto non garantisce né protezione né occupazione. Non è così, mi spiace. Ma entrare in una disamina seria dei dati non è possibile qui, perché voglio provare a fare un ragionamento più “leggero”. Chiedo al lettore di credermi, quindi, di concedermi per una volta il principio di autorità, accettare la mia provocazione e continuare a leggere.
Ma torniamo ai precari. Dovrebbero essere contenti? Meglio precari che disoccupati, dopotutto. Assolutamente no. Un lavoro precario in Italia è una sciagura. Hanno completamente ragione. Perché se si perde, il lavoro precario, si è rovinati, in Italia. Perché lavori precari ce ne sono pochi e lavori protetti ancora meno. Proviamo a immaginare un mondo diverso. Un mondo in cui di lavori precari ce ne fossero a iosa: finito uno se ne trovano altri, diversi, altrove. In questo mondo essere precario non è affatto male, specie per un giovane, magari con poca istruzione: il pizzaiolo per sei mesi, il barista per due (che lavorare la notte è bello ma stanca), il massaggiatore per un anno; un periodo a Milano, uno a Venezia, uno a Urbino e uno a Londra.
Mi rendo conto di quanto anche solo ipotizzare un mondo di questo tipo possa sembrare assurdo e che chi oggi in Italia cerca di tenersi stretto il lavoro al call center possa essere addirittura insultato da questo mio ragionamento. Non ho nessuna intenzione di insultare nessuno. Ma li vedo tutti i giorni ragazzi giovani (spesso anche italiani), che fanno esperienze sul mercato del lavoro a questo modo. Cambiano lavoro in continuazione e si stabilizzano lentamente, alcuni attraverso attività imprenditoriali, altri cercando lavori più protetti. Sto parlando degli Stati Uniti (o meglio, di New York), naturalmente. Ma non sto sostenendo che il mercato del lavoro negli Stati Uniti sia il migliore dei mercati del lavoro possibili. Anzi. È un inferno da molti punti di vista. Ma la questione del precariato non esiste. Non ho mai sentito nessuno lamentarsi del precariato. Della mancanza di assicurazione sanitaria, sì, sempre. Della disoccupazione ogni tanto, specie nei periodi di crisi come questo. Ma mai del precariato. Mai dei giovani che non riescono ad avere sicurezza sufficiente per metter su famiglia. Non esiste nemmeno la parola “precariato”. almeno non con il significato peggiorativo che ha in italiano.
E non sto parlando solo di lavoro manuale. I professori universitari, per esempio, prima di avere lavori fissi e protetti, hanno lavori precari. Cambiano università continuamente: perché si stufano di stare in città noiose, perché cambia la loro situazione familiare, perché vogliono essere più vicini a qualcuno con cui fanno ricerca… e perché l’università dove lavorano li manda via. Girano, per anni. Il lavoro fisso (si chiama tenure per gli accademici) è un obiettivo importante, naturalmente. Ma non è che senza non si vive o non si crea famiglia. Perché precariato non significa rischiare di perdere lavoro, ma al massimo trovarlo in un’altra città o in un’università meno prestigiosa. Parlo anche per esperienza. Ho la tenure, adesso; ma sono stato precario per circa 10 anni girando Stati Uniti ed Europa, senza mai sentirmi precario. La stessa cosa si può dire per medici, avvocati, operatori finanziari.
Per arrivare a un mercato del lavoro di questo tipo è necessario ridurre la protezione del posto di lavoro, permettere alle imprese di licenziare per ragioni economiche, ad esempio. Mi rendo conto che possa apparire un po’ un salto nel buio. Capisco anche che possa essere inattuabile, nelle presenti condizioni in Italia. Mi riferisco sia alle condizioni economiche (l’eccessiva partecipazione dello Stato inefficiente nella vita economica) che a quelle culturali (in cui il desiderio del “posto fisso” è scolpito quasi indelebilmente nella mente di molti). Però so anche che se non si arriva a un mercato del lavoro di questo tipo i problemi dei precari sono irresolubili. Non c’è via d’uscita, purtroppo: più si protegge una parte dei lavoratori, più gli altri ne fanno le spese. Chi dice il contrario, o non capisce o è in malafede. Nel caso italiano, di solito, è in malafede.