“ICHINO ROSSI E MONTEZEMOLO PROPONGONO AI GIOVANI FATUE ILLUSIONI”

IL RESPONSABILE PER L’ECONOMIA DEL PD RIBADISCE CON DUREZZA LA LINEA OGGI MAGGIORITARIA NEL PARTITO, NEGANDO IN RADICE CHE IL FENOMENO DEL PRECARIATO SIA L’ALTRA FACCIA DELL’IPER-PROTEZIONE DEL LAVORO REGOLARE – GLI RISPONDO PUNTO PER PUNTO

Intervento di Stefano Fassina diffuso in rete il giorno stesso della pubblicazione dell’articolo di  Pietro Ichino, Nicola Rossi e Luca Montezemolo sul Corriere della Sera, 8 aprile 2011 – Segue la mia replica

Ancora una volta, oggi su Il Corriere della Sera, Pietro Ichino, Nicola Rossi e il presidente Montezemolo propongono fatue illusioni ai giovani impigliati nella precarietà, decine di migliaia dei quali impegnati domani in una grande mobilitazione in tante città italiane. Ancora una volta, ritornano sul paradigma culturale sbagliato e subalterno, di moda fino a qualche tempo fa, del “meno ai padri, più ai figli”. Un paradigma ideologico e fasullo, ma efficace ad allontanare dal centro-sinistra i padri, senza riuscire, proprio perché fasullo, ad avvicinare i figli. Ancora una volta, contrappongono la “generazione 1000 euro” dei figli, a quella 1200 euro dei padri, senza notare che il conflitto reale, nonostante le favole neo-liberiste, è ancora nella dimensione sociale. Per verificarlo, sarebbe sufficiente leggere i dati della Banca d’Italia sull’impoverimento relativo dei lavoratori dipendenti, operai ed impiegati, rispetto ad altre classi sociali. Ma, non se ne parla. I nostri amici preferiscono, ancora una volta, puntare il dito contro i cosiddetti “garantiti”, specie oramai in via di estinzione nell’universo del lavoro privato, dominato anche per i lavoratori con contratto a tempo indeterminato di grandi imprese da precarietà e insicurezza, cassa integrazione, mobilità, licenziamenti in massa, miseri salari. Per verificarlo, si potrebbe prendere l’elenco dei circa 200 tavoli di crisi aperti al Ministero dello Sviluppo Economico. Ma, anche qui, non si vuole vedere la realtà. Insomma, l’apartheid denunciato da nostri amici giovanilisti riguarda tutto il lavoro dipendente esplicito o assimilato ed i settori deboli del lavoro autonomo e professionale.
Nonostante i dati di realtà, si continuano ad illudere i figli che, eliminando l’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori applicato ad una parte dei padri, magicamente finisce la precarietà. Non è così. Come abbiamo evidenziato con i numeri, la precarietà con l’art 18 ha ben poco a che vedere. Tant’è che i contratti precari sono enormemente concentrati nelle micro-imprese e, in generale, nelle imprese con meno di 15 dipendenti, ossia le unità produttive fuori dallo Statuto dei Lavoratori. È un dato, ma l’ideologia, come noto resiste ai dati.
Per sconfiggere la precarietà è necessaria la crescita. È necessario aprire una stagione di riforme contro le rendite vere. È necessario una politica macro-economica espansiva a livello europeo. È necessaria la politica industriale e la redistribuzione del reddito e della ricchezza. Continuare ad applicare le politiche supply side ai poveri cristi nel mercato del lavoro peggiora la situazione per tutti, padri e figli.
Inoltre, per contrastare la precarietà è necessario eliminare i vantaggi di costo di cui oggi godono i contratti precari rispetto a quelli a tempo indeterminato. Noi abbiamo proposto di allineare gli oneri sociali sul lavoro ad un livello intermedio tra quanto oggi previsto per i contratti “standard” e per i contratti “low cost”. Tale soluzione porta ad una riduzione di costo del lavoro per le imprese, da finanziare attraverso l’innalzamento delle imposte sulle rendite e sui redditi da capitale.
È una soluzione semplice e possibile. Ha, però, lo svantaggio di non corrispondere all’ideologia neo-liberista, colpita dalla crisi, ma ancora potente nei media, nella politica, nell’accademia. Tuttavia, siamo fiduciosi e insistiamo nella nostra controffensiva culturale e politica. La piattaforma delle mobilitazioni di domani dimostra che tanti figli sono più saggi e culturalmente autonomi di qualche padre con la testa rivolta all’indietro.

LA MIA REPLICA A STEFANO FASSINA

     1.  “Subalterno” a che cosa? – Una prima osservazione sul linguaggio di questo intervento. L’espressione “paradigma culturale subalterno” richiama alla mente un lessico che il Partito Democratico ha inteso lasciarsi alle spalle. Se, comunque, Stefano Fassina intende dire che il mio progetto è “subalterno agli interessi degli imprenditori”, gli rispondo che: a) il PD è nato anche per difendere gli interessi degli imprenditori onesti, che in larga parte coincidono con quelli dei loro dipendenti; b) a molti imprenditori italiani un po’ meno attenti alla cultura delle regole, il dualismo attuale del nostro mercato del lavoro sembra stare molto bene, dal momento che esso consente di scaricare tutta la flessibilità di cui le aziende hanno bisogno sulla metà sfortunata dei lavoratori dipendenti (su quelli, per intendersi, che quando occorre possono essere lasciati a casa senza una lira di indennizzo e senza un giorno di preavviso).
     Se invece Fassina intende dire che il mio progetto è “subalterno” ai programmi del centrodestra, gli ricordo che il regime attuale del nostro mercato del lavoro trova proprio nel centrodestra i suoi difensori più convinti, a cominciare dal ministro del Lavoro e dai suoi consulenti (v. l’ultimo articolo di Michele Tiraboschi). E che in questo immobilismo il centrodestra è, semmai, oggettivamente aiutato dai tabù dai quali troppo a lungo si è lasciata paralizzare l’opposizione di centrosinistra.
     Quanto al “
paradigma ideologico e fasullo, ma efficace ad allontanare dal centro-sinistra i padri, senza riuscire, proprio perché fasullo, ad avvicinare i figli”, forse è il caso che Stefano Fassina rifletta sul fatto che da molto tempo, ormai, il 60 per cento degli operai dell’Italia centro-settentrionale votano a destra: i padri, dunque, si sono già allontanati da tempo. Quanto ai figli, essi sono interessati – eccome! – all’eliminazione dell’attuale regime di apartheid, alla  garanzia dei diritti fondamentali che oggi vengono loro negati, a una prospettiva previdenziale decente. E di queste tre esigenze la proposta di Fassina soddisfa soltanto (e solo in parte) la terza, lasciando le prime due senza risposta o con una risposta negativa (v. § 3).

     2. La contrapposizione insiders/outsiders – Stefano Fassina nega alla radice questa contrapposizione; a me sembra invece che da almeno un quarto di secolo essa caratterizzi sempre più largamente il tessuto produttivo italiano, sia nel settore privato, sia – ancor più – nel pubblico. Il nostro diritto del lavoro oggi è uno dei più rigidamente protettivi, nel panorama dei Paesi occidentali; ma, proprio per questo, di fatto oggi in Italia noi consentiamo a qualsiasi imprenditore di decidere se applicarlo ai nuovi assunti, oppure no. Il risultato è questo: oggi più di tre quarti dei contratti che vengono stipulati nel nostro Paese per un lavoro sostanzialmente dipendente sono contratti diversi da quello di lavoro regolare a tempo indeterminato; e chi viene assunto in questo modo ha una probabilità molto alta di rimanere in quella posizione per periodi molto lunghi, o addirittura per tutta la vita lavorativa.
     Il mio progetto indica un modo efficace per impedire questa elusione, al tempo stesso riscrivendo il diritto del lavoro in modo da renderlo davvero suscettibile di applicarsi a tutti i lavoratori sostanzialmente dipendenti che verranno assunti da qui in avanti e da rendere immediatamente possibile imporne l’applicazione, senza bisogno di inviare gli ispettori e/o di costringere i lavoratori interessati ad agire in giudizio contro i propri datori di lavoro o committenti. Il meccanismo che propongo consente di individuare gli elementi essenziali della “dipendenza economica” – continuità della prestazione, monocommittenza e limite di reddito – direttamente sui tabulati dell’Inps o dell’Agenzia delle entrate.
     La riforma che propongo si propone dunque di garantire d’ora in poi a tutti i lavoratori dipendenti, oltre alle protezioni essenziali (in particolare: tutela antidiscriminatoria, antinfortunistica, contro le malattie), anche la continuità del reddito e della copertura previdenziale in caso di licenziamento per motivi economici od organizzativi. Garanzia, questa, persino migliore, a mio avviso, di quella offerta oggi dall’articolo 18. Cesare Damiano nei giorni scorsi ha sostenuto che senza articolo 18 un rapporto di lavoro non potrebbe considerarsi “a tempo indeterminato”; se questo fosse vero, ne dovremmo dedurre che in Europa (tolta l’Italia) non esistono rapporti di lavoro a tempo indeterminato; quindi la direttiva europea n. 70/1999 sarebbe priva di ogni significato. Ovviamente non è così: rapporto a tempo indeterminato non significa affatto inamovibilità; e – come molte esperienze straniere dimostrano – l’articolo 18 non è affatto l’unico modo, né il migliore, in cui si può garantire sicurezza professionale e di reddito ai lavoratori.
     E’ comunque evidente, a questo punto, che il progetto in questione offre una soluzione – graduale, ma di un gradualismo non troppo lento – della contrapposizione
insiders/outsiders senza cambiare una virgola del diritto del lavoro oggi applicabile ai primi, offrendo però ai secondi una prospettiva incomparabilmente migliore rispetto a quella che si offre loro oggi nel mercato del lavoro italiano.

     3. La soluzione elaborata da Fassina –  Questa soluzione, che oggi è fatta propria dalla maggioranza del Pd, si limita invece a parificare il costo della contribuzione previdenziale per i rapporti di “lavoro a progetto” o “a partita iva” con i rapporti di lavoro subordinato regolare; ma non modifica per nulla la possibilità effettiva attuale, per l’impresa, di ingaggiare il lavoratore sostanzialmente dipendente con un contratto di lavoro a progetto o simulando un rapporto “con partita iva”.  E’ ben vero che questa simulazione sarebbe in teoria vietata; ma l’esperienza insegna che i duemila ispettori del lavoro non sono in grado di incidere neppure marginalmente sui milioni di casi di simulazione che pullulano nel nostro tessuto produttivo; insegna altresì che soltanto in un caso su diecimila i lavoratori interessati denunciano la simulazione di cui sono vittime. Dunque, limitarsi a ad auspicare una rigorosa applicazione del diritto (teoricamente) vigente equivale a lasciare le cose come stanno.
     Stefano Fassina obietta che, una volta parificato il costo previdenziale del rapporto, l’impresa non avrebbe più alcun interesse a simulare la collaborazione autonoma. Qui sta quello che mi sembra il suo errore più grave e dunque anche il difetto più grave della linea oggi fatta propria dalla maggioranza del Pd. Perché anche dopo la parificazione del costo previdenziale rimangono alcune rilevantissime differenze, che possono rendere il contratto di collaborazione autonoma immediatamente molto vantaggioso per l’impresa rispetto al contratto di lavoro regolare:
   – innanzitutto l’assenza di tutele per il caso di malattia del lavoratore, di permessi retribuiti, di limiti di orario e altre protezioni che caratterizzano il lavoro subordinato;
   – inoltre, e soprattutto, l’assenza di qualsiasi limitazione della facoltà di recesso del datore di lavoro o committente, che consente di interrompere il rapporto non appena l’impresa vi abbia anche il minimo interesse: quest’ultima protezione, secondo diversi studi (di cui uno anche della Banca d’Italia), nella forma in cui essa è disposta dall’articolo 18 St. lav., vale da sola almeno il 25 per cento del costo complessivo del lavoro, per il ritardo che comporta nell’aggiustamento quantitativo e qualitativo degli organici aziendali; e probabilmente incide molto di più, se si considerano anche gli effetti di questa protezione (misurati con precisione da diversi studi) sui tassi di assenza per malattia e sull’impegno nel lavoro dei c.d.
conditional workers.
     Stefano Fassina nega quest’ultimo punto, adducendo che “
i contratti precari sono concentrati nelle micro-imprese e, in generale, nelle imprese con meno di 15 dipendenti”. Ma questo dato non dimostra la sua tesi perché:
   –  a quanto mi risulta, esso non riguarda le false partite iva, ma soltanto il “lavoro a progetto”, che dopo la legge Biagi copre ormai soltanto una piccola frazione dell’area dell’elusione ed evasione del diritto del lavoro;
   – anche l’impresa di piccole dimensioni ha interesse a eludere le protezioni differenziali del lavoro subordinato regolare, ivi comprese quelle – pur ridotte – disposte dalla legge n. 108/1990 in materia di licenziamento;
   – d’altra parte, l’impresa di piccole dimensioni è quella dove l’elusione e l’evasione è più agevole e dove i lavoratori sono più esposti agli abusi, perché essa sfugge più facilmente ai controlli sindacali e amministrativi.
     Stefano Fassina deve prendere posizione con chiarezza su di una questione cruciale: davvero egli è convinto che il diritto del lavoro attuale, nella sua interezza (articolo 18 compreso), sia suscettibile di applicarsi a tutti (18 milioni e mezzo) i lavoratori in posizione di sostanziale dipendenza dall’impresa, e non soltanto a 9 milioni e mezzo come accade oggi? Se sì, allora abbia il coraggio di adottare il criterio di individuazione della “dipendenza economica” indicato nel mio progetto e nei progetti Nerozzi e Madia, o un altro criterio più convincente, e di proporre che quello e solo quello sia il criterio per l’applicazione dell’intero vecchio diritto del lavoro. Rifiutare questa scelta significa di fatto optare per il mantenimento del regime attuale di apartheid, sia pure attenuato dalla parificazione del costo contributivo per tutti i rapporti di lavoro.
     Quanto a me, invece, sono convinto che il regime di rigida stabilità del posto di lavoro fondato sull’articolo 18, oggi applicato soltanto a 9 milioni e mezzo di rapporti, non sia ragionevolmente suscettibile di essere esteso a tutti i 18 milioni di lavoratori dipendenti, né tanto meno agli altri 5 milioni di lavoratori che si aggiungerebbero agli attuali, se il nostro tasso di occupazione complessivo fosse portato ai livelli che l’UE ci indica come
benchmark. Sono convinto, al contrario, che il fenomeno attuale del precariato costituisca in larga parte proprio una conseguenza del regime attuale. Per questo motivo propongo di riscrivere il diritto del lavoro, per renderlo davvero applicabile a tutti i nuovi rapporti di lavoro in posizione di sostanziale dipendenza. Convinto che questo corrisponda non soltanto a un’esigenza di efficienza del sistema produttivo, ma anche e in primo luogo a un’esigenza di equità.    (p.i.)

 

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