PER SUPERARE IL DUALISMO CHE CARATTERIZZA L’APPLICAZIONE DEL NOSTRO DIRITTO DEL LAVORO, E’ INDISPENSABILE RISCRIVERE IL NOSTRO DIRITTO DEL LAVORO, IN MODO DA RENDERLO DAVVERO APPLICABILE A TUTTI I LAVORATORI IN POSIZIONE DI DIPENDENZA ECONOMICA
Intervista a cura di Sergio Luciano, pubblicata su Italia Oggi il 9 aprile 2011 – In argomento v. anche, su questo sito, l’articolo mio, di Luca di Montezemolo e Nicola Rossi, Figli e padri contro l’apartheid e per il merito nel lavoro, pubblicato sul Corriere della Sera l’8 aprile 2011
Pietro Ichino non propone una ricetta specifica per risolvere l’impasse dei precari del settore dell’istruzione. Ma ha da tempo una proposta complessiva di riordino dei rapporti di lavoro che risolverebbe, insieme, anche quel caso: “Dobbiamo imparare a fare come fanno in Gran Bretagna, nei Paesi scandinavi, negli Stati Uniti di Obama: tutti i nuovi rapporti, d’ora in avanti, devono essere stipulati a tempo indeterminato, tutti con le protezioni essenziali, ma nessuno dev’essere più inamovibile”.
Sembra provocatore, ma è solo esplicito, Ichino. In realtà, si considera – ed è – assai più garantista di tanti difensori a oltranza dello status quo. Ma ritiene che per ridurre abusi e precariato si debba procedere a una riforma radicale del contratto di lavoro. E ne parla diffusamente con Italia Oggi. “Cosa intendo per ‘protezioni essenziali’? Tutte quelle contro le discriminazioni, la salvaguardia della salute e sicurezza nel luogo di lavoro, il sostegno del reddito per il caso di malattie serie. Tutto il resto, o quasi, deve essere oggetto di contrattazione collettiva, non di norme legislative”.
Secondo Ichino, la pretesa di normare tutta questa materia in via legislativa presenta “il forte rischio di diventare una protezione degli insiders (cioè i lavoratori protetti, già interni al sistema, ndr) contro la concorrenza di outsiders (i disoccupati o i precari, ndr) e new entrants (quelli in cerca di prima occupazione, ndr), quindi un diaframma dannoso tra domanda e offerta di lavoro. Come effettivamente accade oggi: il precariato non è che l’altra faccia dell’iper-protezione dei lavoratori “regolari”.”
Naturalmente, da sinistra, queste posizioni di Ichino vengono attaccate per asserita scarsità di garantismo. In particolare perché non sarebbero sufficientemente forti contro gli abusi che vengono compiuti contro la nuova normativa introdotta in Italia con la cosiddetta riforma Biagi “Gli abusi ci sono, sì: ma non rispetto a norme nuove introdotte da quella legge o da altre”, rettifica però il professore. “Per esempio, la figura dell’insegnante precario, in contrapposizione a quella del lavoratore di ruolo, è sempre esistita. Così come sono sempre esistite le collaborazioni autonome continuative, le partite Iva, o l’associazione in partecipazione. Più il lavoro “regolare” è stato circondato di protezioni e bardature, più il tessuto produttivo ha cercato la flessibilità necessaria – e magari anche quella non necessaria – in quelle forme “atipiche” di collaborazione continuativa”.
Secondo Ichino, la strada concettuale per superare questa rinnovata contraddizione tra i protetti e i precari l’ha indicata il governatore della Banca d’Italia Mario Draghi, in un suo recente discorso agli studenti di Ancona: “Bisogna riscrivere il diritto del lavoro in modo che sia realmente applicabile a tutti i rapporti di lavoro sostanzialmente dipendente che si costituiranno da qui in avanti. Ripeto: tutti a tempo indeterminato, tutti protetti contro le discriminazioni, a tutti una protezione essenziale della salute e sicurezza, ma nessuno inamovibile”. Tuttavia Ichino – che è stato per dieci anni responsabile del coordinamento dei servizi legali della Cgil milanese ed è tuttora iscritto alla confederazione di Corso d’Italia – non elude il problema: sa perfettamente che quell’espressione “nessuno inamovibile” viola il tabù dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, che proibisce i licenziamenti individuali. Come se ne esce? “Nel caso dei licenziamenti discriminatori, il disegno di legge n. 1873/2009, che ho presentato con altri 54 senatori, prevede l’applicazione di una norma simile all’articolo 18. Stessa cosa per i licenziamenti disciplinari, quando la prova della mancanza grave non venga raggiunta: in questo caso, però, la proposta è di lasciare l’alternativa tra la reintegrazione e il risarcimento del danno. Nel caso, invece, di licenziamento per motivi economici od organizzativi, la nostra proposta è di sostituire drasticamente il controllo giudiziale con una responsabilizzazione economica dell’impresa. In altre parole: chi licenzia deve assicurare al lavoratore una indennità proporzionata all’anzianità di servizio e, quando il lavoratore abbia più di due anni di anzianità di servizio, un trattamento complementare di disoccupazione e un servizio di outplacement”. Insomma, tanti soldi: un onere però gestibile (per esempio, perché assicurabile) da parte delle imprese, a fronte della possibilità pratica di operare l’aggiustamento industriale in modo più immediato, o di sostituire il pelandrone con uno più bravo, dando così finalmente un contenuto pratico concreto al principio meritocratico.
Eppure una riforma di questo respiro rischia nuovamente le sabbie mobili della passività, e degli imbarazzi, della politica. Quante chances ha la proposta di Ichino e dei suoi 54 co-firmatari di diventare legge? “Be’, certo, la metabolizzazione del mio progetto ha richiesto qualche tempo non solo nel movimento sindacale, ma anche in seno alla maggioranza e a Confindustria e Confcommercio. Ma molti segnali ora dicono che i tempi ormai sono maturi per questa riforma. Il più importante è la mozione in questo senso – primo firmatario Rutelli – votata dal Senato il 10 novembre scorso con larghissima maggioranza: 255 voti a favore, 24 soli i contrari e gli astenuti”.