LA MANIFESTAZIONE DEL 9 APRILE CI AVVERTE CHE LA PAZIENZA CON CUI LA SOCIETA’ CIVILE HA SOPPORTATO FIN QUI LA PIAGA DEL DUALISMO DEL MERCATO DELLE OCCUPAZIONI NON E’ ILLIMITATA – IL COMPITO DELLA BUONA POLITICA, ORA, E’ INDICARE LA SOLUZIONE E REALIZZARLA
Articolo di Pietro Ichino, Luca di Montezemolo e Nicola Rossi, pubblicato sul Corriere della Sera dell’8 aprile 2011 – Sul nodo dell’apartheid, venuto al pettine con la sentenza del Tribunale di Genova, leggi anche la mia “Lettera sul lavoro” I nodi dell’apartheid vengono al pettine, sul Corriere della sera del 31 marzo 2011 – In argomento leggi anche l’articolo di Piercamillo Falasca, Guardiamo la luna, non il dito: Montezemolo, Ichino e Rossi hanno ragione, pubblicato su Libertiamo.it l’8 aprile 2011; – Piercamillo Falasca, su Libertiamo.it mi appoggia: Guardiamo la luna, non il dito; Stefano Fassina su Facebook: Fatue illusioni, con una mia replica punto per punto; Michele Tiraboschi sul Sole 24 Ore del 12 aprile: Contratto unico, suggestione fuori dal tempo (con la replica di Tito Boeri, Benedetto Della Vedova, Pietro Garibaldi e mia). Segnalo inoltre il disegno di legge presentato da Benedetto Della Vedova alla Camera, 7 aprile 2011 n. 4722, esplicitamente ispirato al mio d.d.l. n. 1873/2009.
Domani i lavoratori precari scenderanno in piazza uniti dallo slogan “Il nostro tempo è adesso, la vita non aspetta”. Convocata via Internet, la manifestazione – che ha avuto migliaia di adesioni – interesserà molte città italiane. Se le cose andranno come sono andate fin qui, anche in questo caso alle manifestazioni non farà seguito alcun atto concreto. Il tema dovrebbe invece essere al centro del dibattito e dell’azione di politica economica.
Valgano, per tutte, le parole rivolte qualche mese orsono dal Governatore Draghi agli studenti di Ancona: “Senza la prospettiva di una pur graduale stabilizzazione dei rapporti di lavoro precari, si indebolisce l’accumulazione di capitale umano specifico, con effetti alla lunga negativi su produttività e profittabilità”. Parole che corrono il rischio, nella migliore delle tradizioni, di diventare l’ennesima “predica inutile” di questo nostro Paese.
Parole il cui significato, sul piano del “che fare”, è invece chiarissimo. Primo, non si può semplicisticamente pensare di affrontare il tema prendendo la scorciatoia delle sanatorie o considerando il pubblico come luogo deputato all’occupazione assistenziale. Secondo, non si può altrettanto semplicisticamente pensare di contrastare la patologia della precarietà togliendo al sistema i margini di flessibilità di cui ha grande e, anzi, crescente bisogno. Terzo, come dimostra la recente sentenza del Tribunale di Genova in applicazione della direttiva europea sulle modalità di utilizzo dei contratti a termine, mantenere e anzi irrobustire i margini di flessibilità del sistema non si può fare nel modo in cui lo si è fatto fin qui, scaricandone tutto il peso sulle nuove generazioni: oltre che iniquo, può costare troppo caro.
La strada, dunque, è stretta e impervia; ma non per questo impossibile da percorrere. E, ancora una volta, la maniera migliore per percorrerla è quella di lasciare il sentiero in cui ci hanno costretto gli ultimi decenni per provare ad aprire un passaggio più in alto, lì dove tante e diverse rendite di posizione ci hanno finora impedito di passare. Fuor di metafora: riscrivendo il diritto del lavoro in modo che tutti i nuovi rapporti da qui in avanti possano essere costituiti a tempo indeterminato: anche quelli che fino a oggi sono stati l’espressione patologica della precarietà (contratti a progetto, partite iva fasulle, …), garantendo la piena copertura di eventuali oneri economici aggiuntivi per le imprese piccole e grandi, trattando nella stessa maniera l’operatore privato e l’operatore pubblico.
E quindi, un contratto di lavoro a protezione crescente per tutti i futuri lavoratori dipendenti (ferme restando le ovvie eccezioni a contenuto formativo o dei contratti a termine per i casi di sostituzioni temporanee o di punte stagionali): occupazione a tempo indeterminato per tutti e piena protezione contro le discriminazioni e contro i licenziamenti disciplinari ingiustificati, ma nessuna inamovibilità per motivi economici e organizzativi. In caso di licenziamento, trattamento complementare di disoccupazione “alla scandinava”, contribuzione figurativa per i periodi di disoccupazione, assistenza nel mercato del lavoro più efficace e controllo altrettanto efficace sulla effettiva disponibilità del lavoratore alla nuova occupazione. Nel contempo, attenta valutazione dei maggiori oneri monetari sopportati dalle imprese a seguito del cambio di regime (valutabili in media e in termini prudenziali in circa lo 0,3% della retribuzione lorda) e rimborso degli stessi oneri medi in via permanente attraverso una riduzione di pari importo di alcune voci di contribuzione e i rimborsi resi possibili dal Fondo Sociale Europeo. Infine, copertura della maggiore spesa attraverso un atto di solidarietà intergenerazionale: un anno (o anche meno) in più al lavoro per i padri in cambio di una concreta prospettiva di stabilità e di una pensione decente per i figli.
Sappiamo tutti, fin troppo bene, che il sistema produttivo italiano si regge oggi su un equilibrio instabile e iniquo: incertezza come condizione di vita per alcuni, stabilità come diritto acquisito per altri. Una vera e propria condizione di apartheid per le generazioni più giovani. Sappiamo anche, fin troppo bene, che la condizione di lavoro di alcuni (dei “paria”) è l’altra faccia della medaglia della condizione di lavoro di chi nella cittadella fortificata del lavoro regolare è riuscito a entrare; e che il superamento di questa frattura mette in discussione il nostro sistema di protezione del lavoro e la sua attuale struttura. E questa discussione, da quindici anni, ci spaventa e ci paralizza. Ma è un timore infondato: una soluzione è possibile senza toccare la posizione di chi ha già un rapporto di lavoro stabile, regolato dalla vecchia disciplina; offrendo a tutti i giovani che si affacciano sul mercato del lavoro, e anche agli adulti che il lavoro lo hanno perso, qualche cosa di molto, molto meglio rispetto alle prospettive che oggi si offrono loro nel nostro mercato del lavoro. E facendo finalmente un passo avanti verso quella “meritocrazia”, tanto predicata quanto poco praticata in casa nostra.
La pazienza con cui la società civile ha sopportato fin qui i guasti dell’apartheid nel mercato del lavoro non deve ingannare. Il silenzio delle generazioni più giovani non è acquiescenza. Quello delle generazioni meno giovani non è indifferenza. Sta ora alla classe politica dimostrare che il suo silenzio non è – come spesso appare – impotenza.