SE E’ BEN REGOLATA, LA CONCORRENZA È UTILE NON SOLTANTO NEL MERCATO DEI PRODOTTI, MA ANCHE NEL MERCATO DEI CAPITALI: DIFENDERE L’ITALIANITÀ DELLE NOSTRE IMPRESE FINISCE COLL’IMPOVERIRLE, TENENDO LONTANI IL MANAGEMENT MIGLIORE E I PIANI INDUSTRIALI PIÙ INNOVATIVI
Articolo di Franco Debenedetti su Il Sole-24 Ore del 2 aprile 2011 – Sullo stesso tema v. il mio editoriale del 21 marzo scorso, cui hanno fatto seguito l’articolo di Fabiano Schivardi su lavoce.info del 23 marzo e l’articolo di Stefano Lepri su la Stampa del 24 marzo.
Che danni provoca all’economia del Paese una sua azienda che cambia passaporto? Evocata dalla vicenda Parmalat, la domanda richiama problemi di fondo del nostro capitalismo. Senza farsi scoraggiare dalle iniziative di un Governo che, ormai alla caccia di qualsiasi populismo, “libera la CdP su Parmalat”, vale la pena discuterne con quanti ne hanno ancora a cuore il futuro.
Innanzi tutto é un male? Sempre e in assoluto, evidentemente no: quando l’azienda alla fine é diventata decotta stendiamo tappeti rossi al salvatore senza andare tanto per il sottile. Ma soprattutto, per chi é male? Tanta retorica nel contrapporre economia reale ad economia finanziaria, e poi tutta questa gran discussione senza distinguere se il male di cui si parla riguarda l’azienda o la sua proprietà.
Se un’azienda passa di mano, e se c’é concorrenza per il controllo, é presumibile che il prezzo pagato sia quello “giusto”, cioè quello che riflette i redditi futuri. Questi dipendono dalle strategie che verranno adottate: saranno più prudenti o più ambiziose, comporteranno maggiori o minori investimenti, ma non c’é nessuna ragione perché sulla loro scelta influisca la nazionalità del compratore. Si teme che il compratore estero possa “svuotare” l’azienda. Ma se la possiede al 100% non si capisce che vantaggio avrebbe a svuotare un bene che ha strappato al concorrente a caro prezzo. Se ha comperato il controllo con una quota minore, potrebbe trarne un beneficio privato trasferendo alcune attività e appropriandosi delle sinergie con altre aziende di sua proprietà: rischia però azioni di responsabilità da parte dei soci di minoranza, e se l’azienda é quotata, deve sottostare alle procedure previste ex ante per le trattative con parti correlate. Quanto poi al valore di quel “peculiare made in Italy” di cui parla Giuseppe Berta (“La cultura che dà da mangiare”, Il Sole24Ore del 30 marzo) come é il caso dell’alimentare “in cui convivono nicchie di qualità e prodotti rivolti al consumo di massa” un compratore straniero, proprio perché straniero, avrà interesse a raddoppiare le attenzioni per non perdere il bene immateriale per cui ha pagato. Al contrario, cercherà di sfruttarlo al massimo, realizzando sinergie nel campo commerciale e distributivo, come ha fatto ad esempio la Nestlè con l’acqua San Pellegrino, che ora fi offrono nei migliori ristoranti di New York.
Tutt’altra cosa se si parla non dell’azienda, ma della sua proprietà. E’ questa che i provvedimenti antiscalata inendono “proteggere”: mucche e mungitori continuano a fare il loro mestiere, e pure le stalle son quelle di prima. I prodotti continuano a circolare liberamente, il mercato dove il Governo vuole limitare la concorrenza non é (vivaddio!) quello dei prodotti, bensì quello dei capitali, che devono, loro, mostrare il passaporto. Il contributo di un’azienda al PIL dipende in modo determinante da come é gestita, poco e nulla dalla nazionalità di chi la controlla. Invece il contributo che possono dare gruppi finanziari importanti e vivaci é rilevantissimo, e sarebbe importane che crescesse il numero dei protagonisti italiani nel mercato dei capitali, e l’entità delle risorse finanziarie che essi riescono a mobilitare. Anche nell’era del web 2.0 nascono imprenditori alla Horatio Alger, che si affermano perché sanno “build a better mousetrap”: ma nell’epoca dell’economia finanziaria, sempre di più l’imprenditore é il soggetto, magari collettivo, che ricerca nuovi modi di far fruttare i capitali. Non, ovviamente, per tenere in Italia i dividendi, ma per avere in Italia la testa che progetta nuove avventure imprenditoriali e trova i capitali per finanziarle. Il mercato che, come dice Emma Marcegaglia nella sua intervista di ieri “resta l’unica vera cura utile alla crescita” , non é solo quello dei beni e servizi prodotti dalle aziende, é anche, e in maniera sempre più importante, quello per il loro controllo. Abbiamo i nostri Ferrero e Benetton e Del Vecchio, abbiamo i fondi di Prysmian e di Moncler, vantiamo l’entità dei patrimoni delle famiglie italiane: ma sembra non sia un modo adeguato di aggregare il nostro risparmio e di convogliarlo su iniziative di orizzonte mondiale.
Quella del capitalismo italiano é una storia di protezioni, le partecipazioni statali da un lato, Mediobanca dall’altro. Il primo é rimasto sostanzialmente inalterato: tolta la telefonia, un’assicurazione e una fabbrica di turbine, Tesoro e Fondazioni hanno capito che si può assicurare il controllo anche con percentuali modeste di capitale. Quanto al capitalismo privato, i metodi inventati per proteggere le grandi famiglie dallo stato onnivoro e, sovente, dai loro errori, oggi sembrano più volti a mantenere l’esistente che ad aggregare il risparmio ed accompagnarlo verso una prospettiva schumpeteriana. Ciò che si vede é lo sforzo per assemblare cordate eterogenee e svogliate, dove sull’assunzione di rischio d’impresa sembra prevalere l’obbiettivo della riduzione dell’esposizione bancaria. Inevitabile pensare che il deficit di imprenditoria finanziaria, se esiste, sia il frutto di questa storia di protezioni accordate alla proprietà.
Proporsi di fare dell’Italia un centro finanziario é peggio di un’utopia, é un errore. Ieri Intesa Mediobanca e Unicredit hanno dichiarato a Parmalat che sono pronte a sostenere un progetto industriale. Non si va certo nella direzione giusta se il sostengo é offerto a prescindere, e si va probabilmente in quella sbagliata se sono loro a formulare i piani. Ma é matematicamente sicuro che procedere sulla strada di sempre, ricominciando ad ampliare l’area occupata dal capitale pubblico (e insieme dall’ingerenza partitica, che non a caso rialza proterva la testa), e schermando dalla concorrenza il mercato del controllo, ci si allontana dall’obbiettivo che a parole si vorrebbe raggiungere. Farlo poi confondendo i problemi, e far passare come protezione delle aziende e dei loro prodotti quello che invece é protezione della proprietà e del suo passaporto, è pura mistificazione.