ALLA TESI PROTEZIONISTA DI TREMONTI SI DEVE RISPONDERE CHE GLI INVESTIMENTI ESTERI FANNO BENE PRINCIPALMENTE A CHI LI RICEVE – SOTTO LA DIFESA DELL'”ITALIANITA'” DELL’AZIENDA SI NASCONDE LA DIFESA DI UN MANAGEMENT INDIGENO MENO EFFICIENTE (MA IL CONTO DI QUESTA DIFESA LO PAGANO PER PRIMI I LAVORATORI DIPENDENTI)
Articolo di Stefano Lepri su La Stampa del 25 marzo 2011
Forse alla fine per la Parmalat si farà un condominio italo-francese. Intanto però sarebbe meglio riflettere sulla tesi della «reciprocità», condivisa da tutte o quasi le nostre forze politiche. Ovvero, siamo proprio sicuri che se la Francia dichiara «strategica» la produzione dello yogurt, noi dobbiamo fare tutto il possibile per conservare una guida italiana alla lavorazione del latte?
Si può al contrario sostenere, con vecchie ragioni liberali, che gli investimenti esteri sono un bene soprattutto per chi li riceve; peggio per la Francia se li limita. In altre occasioni, lo diciamo tutti: quando ci deprimiamo di fronte ai dati che mostrano quanto sia modesto l’afflusso di investimenti diretti stranieri in Italia.
Era proprio francese l’economista liberista Frédéric Bastiat (una delle bestie nere di Karl Marx) che per primo ridicolizzò il protezionismo. Vi parrebbe sensato, domandò, riempire di macigni i nostri porti commerciali con la scusa che altri paesi hanno inaccessibili coste rocciose? Se un Paese si isola, fa solo il proprio male. Fu lui, del resto – sulla base dell’esperienza di deputato – a immaginare una fantastica petizione al Parlamento dei fabbricanti di candele, per chiedere protezione contro la sleale concorrenza della luce solare.
In concreto, ci interessa che i posti di lavoro, specie qualificati, restino in Italia. Ma occorre misurare in concreto i vantaggi e gli svantaggi, che non riguardano solo Parma e dintorni. Quale segnale si dà all’estero, se si fa muro contro le acquisizioni di ogni azienda dal nome noto? I successi del manager Enrico Bondi, che ha risollevato la Parmalat dalle rovine, forse saranno meglio garantiti se l’azienda confluisce in una importante multinazionale (apprezzata da noi con marchi che parecchi consumatori credono italiani, anzi lombardi: Galbani, Invernizzi, Cademartori).
Di recente, il vessillo dell’italianità è stato sventolato per coprire affari non limpidi, come quando l’allora governatore della Banca d’Italia Antonio Fazio fece di tutto – se ci siano reati lo sta valutando un tribunale – per assegnare l’Antonveneta alla Popolare di Lodi del suo amico Gianpiero Fiorani invece che agli olandesi della Ing. Ma già in quei mesi a Padova, sede dell’Antonveneta, molti ritenevano più rassicurante prendere ordini da Amsterdam piuttosto che da Lodi (e non c’era nulla di irreversibile, dato che ora l’Antonveneta è di nuovo italiana, controllata dal Monte dei Paschi).
La passione nazionale può ingannare. Nel settore dell’aerotrasporto, diversi esperti ritengono che se l’Alitalia fosse stata interamente ceduta nel 2008 ad Air France, e fosse stata integrata nel gruppo, oggi avrebbe più dipendenti e più fatturato di quanti ne ha; difficile esserne certi, ma il problema esiste. Con lo scopo di mantenere sotto controllo nazionale la Telecom Italia, governi di opposto colore hanno successivamente operato per assegnarla a capitalisti italiani con scarsi capitali, cosicché per lunghi anni l’azienda è stata frenata nel suo sviluppo dal pagamento dei debiti contratti per acquistarla. Entrambe le aziende 10-15 anni fa trattavano ancora quasi da pari con le loro consimili, Air France o Deutsche Telekom; restare solo italiane non ha giovato.
Nel mercato mondiale di oggi, la difesa di aziende che siano «campioni nazionali» è già miope per la più potente Francia, figuriamoci per noi. Per come vanno le cose del dopo-crisi, i prossimi acquirenti che batteranno alle nostre porte saranno assai più diversi da noi rispetto ai francesi: cinesi, indiani, o chissà che. Purtroppo, quasi ovunque in Europa i politici preferiscono aziende a controllo nazionale ritenendo di esercitare su di esse un maggior potere.