L’APERTURA AGLI INVESTIMENTI STRANIERI COSTITUISCE L’UNICA POSSIBILITA’ PER RILANCIARE LO SVILUPPO ECONOMICO DEL NOSTRO PAESE – PER QUESTO I SINDACATI DOVREBBERO ESSERE I PRIMI AD OCCUPARSI DEL RECUPERO DI QUESTO FLUSSO DI INVESTIMENTI, OPERANDO COME INTELLIGENZA COLLETTIVA DEI LAVORATORI NELLA VALUTAZIONE DEI NUOVI PIANI INDUSTRIALI
Editoriale pubblicato sulla rivista Atlantide, marzo 2011
Se fossimo un Paese normale, non ci sarebbe niente di drammatico nel fatto che in una grande fabbrica come la Fiat ci siano alcuni lavoratori che si pronunciano a favore del “no” al piano industriale dell’Amministratore delegato e altri che si pronunciano a favore del “sì”. Si tratta del “sì” e del “no” a un accordo sindacale; e in un Paese normale la politica si guarderebbe bene dal mettere il becco nelle scelte relative alla stipulazione di un contratto collettivo. In quel Paese normale ci sarebbe una parte dei lavoratori che, valutati i sacrifici richiesti dall’accordo inferiori al beneficio di quattro anni di lavoro assicurato con buone prospettive di sviluppo, e ritenendo che tutto sommato Sergio Marchionne fin qui abbia dato buona prova di sé come imprenditore, decide di votare “sì”; un’altra parte che invece decide di votare “no”, ritenendo che i sacrifici superino i benefici, oppure ritenendo inaffidabile un imprenditore che preannuncia “festeggiamenti a Detroit” in caso di bocciatura dell’accordo, oppure ancora ritenendo incompatibili con un’equa ripartizione dei frutti della scommessa comune la facoltà di recesso anche in corso d’opera e i compensi milionari che l’Amministratore delegato riserva personalmente a sé stesso indipendentemente dai risultati. Entrambe le scelte sono pienamente ragionevoli; e dovrebbe essere ovvio il pieno diritto di cittadinanza, in seno al movimento sindacale, per i sostenitori dell’una, come dell’altra.
Il fatto che, invece, il “sì” e il “no” di Mirafiori assumano una valenza politica tale da monopolizzare il dibattito sui media per diverse settimane e suscitare tensioni fortissime negli stabilimenti interessati è l’effetto di una circostanza assai infelice che caratterizza oggi il nostro Paese: la sua drammatica chiusura agli investimenti stranieri. Il problema è questo: da quindici anni, nonostante il nostro ingresso nel sistema dell’euro, nessuna altra grande multinazionale è venuta a investire in casa nostra. Con la conseguenza che oggi, di fronte all’aut aut dell’Amministratore delegato della Fiat, i lavoratori sono totalmente privi di alternative. Questo essendo il problema, ciò su cui la politica nazionale dovrebbe pronunciarsi in modo chiaro e netto non è tanto il “sì” o il “no” al piano industriale di Marchionne, quanto la diagnosi circa questa malattia mortale del Paese e la terapia necessaria per guarirla.
Insomma, al centro del dibattito nazionale non dovrebbe esserci Marchionne e il suo piano per la Fiat, ma gli altri 29 Marchionne di cui nessuno parla (poi vediamo perché proprio 29): tutte le grandi multinazionali che potrebbero investire nel nostro Paese e non lo fanno. Le questioni sollevate dalla vicenda Fiat andrebbero discusse come se la vicenda Fiat fosse già risolta, in un senso o nell’altro, o non si fosse mai posta; dovremmo discuterne pensando a tutto il resto del Paese… etsi Marchionne non daretur.
La questione è di vitale importanza, perché, per un verso, l’Italia nei prossimi cinque anni deve trovare almeno 40 miliardi ogni anno per adempiere l’obbligo comunitario di ridurre drasticamente il proprio debito pubblico e liberarsi della zavorra pesantissima che da un quarto di secolo ormai frena il suo sviluppo. Sarà un miracolo riuscire a trovarli, attingendo in modo equilibrato a riduzioni di spesa, dismissioni di patrimonio pubblico e – forse – anche un’imposta patrimoniale straordinaria; ma il rischio gravissimo sarà di strangolare, con questa manovra, la nostra economia. Per altro verso, l’unica fonte di risorse per rilanciare lo sviluppo economico del Paese può essere costituita dall’apertura agli investimenti stranieri. Su questo terreno i dati disponibili ci mostrano l’Italia penultima della classe in Europa, per capacità di intercettare gli investimenti nel mercato globale dei capitali (dietro di noi c’è solo la Grecia); e gli stessi dati ci dicono che, se in quella graduatoria l’Italia riuscisse a recuperare il distacco che la separa da un Paese europeo mediano, come l’Olanda, questo le consentirebbe di avere ogni anno un maggior flusso di investimenti stranieri pari al 3,6 per cento del suo Pil: cioè pari a quasi 60 miliardi all’anno (ecco perché parlo degli altri 29 Marchionne: se lui ci propone, per i prossimi dieci anni, 2 miliardi di investimento ogni anno, dobbiamo porci il problema degli altri 29 investimenti analoghi a questo che restano ogni anno fuori dal nostro Paese e che dovremmo invece essere capaci di tirare in casa nostra).
Fino a un anno fa, a chi avvertiva che un contributo determinante alla chiusura dell’Italia è dato dal nostro sistema vischioso e inconcludente delle relazioni industriali, l’obiezione usuale era quella “benaltrista”: le “vere cause” della chiusura sono i difetti di funzionamento delle amministrazioni pubbliche e delle infrastrutture, i servizi alle imprese troppo cari per mancanza di concorrenza nei rispettivi mercati, la criminalità organizzata. In questa obiezione c’era e c’è sicuramente molto di vero. Ora, però, la vicenda Fiat ci dice una cosa diversa: Marchionne non indica come questione cruciale da risolvere per dar corso al suo piano industriale né la nostra burocrazia pubblica, né le nostre infrastrutture difettose, né la criminalità diffusa, bensì la questione dell’effettività ed efficacia del contratto aziendale nei confronti di tutti i lavoratori interessati, in un ordinamento come il nostro che questa effettività ed efficacia oggi non è in grado di assicurare. Non è in grado di assicurarle per due gravi lacune delle regole: in materia di rapporti tra contratti collettivi nazionali e aziendali – la questione dei requisiti e dei limiti per la derogabilità del contratto collettivo nazionale e in materia di efficacia della clausola di tregua, cioè dell’impegno a non scioperare contro il contratto.
Ancora oggi sono in molti ad affannarsi a dire che i veri ostacoli agli investimenti stranieri sono tutt’altri. Ci saranno certamente anche gli altri, ma nel caso Fiat la questione critica è questa: un sistema delle relazioni industriali vischioso e inconcludente, nel quale è difficile negoziare un piano industriale che si discosti dal modello-standard delineato (magari quarant’anni fa) dal contratto collettivo nazionale di settore; e anche quando si è riusciti a negoziarlo non si è affatto sicuri che esso possa davvero funzionare. È molto ragionevole ritenere che questi stessi ostacoli, magari in modo meno evidente di quanto si osserva nel caso Fiat, svolgano un ruolo importante anche nel chiudere l’Italia ai piani industriali di altre grandi multinazionali che potrebbero altrimenti essere interessate a investire da noi.
È dunque di vitale importanza che affrontiamo questa questione, non tanto per i due miliardi di investimenti all’anno per 10 anni che ci propone Marchionne, ma per recuperare alla crescita del Paese quei 60 miliardi di investimenti che ogni anno mancano all’appello e che invece potremmo tirare in casa nostra se il nostro Paese funzionasse come l’Olanda. Investimenti che ci porterebbero non soltanto domanda di lavoro aggiuntiva, con il conseguente aumento delle retribuzioni, ma anche innovazione tecnologica e organizzativa, che significa aumento di produttività, la quale è a sua volta la condizione essenziale per un ulteriore miglioramento delle condizioni di lavoro.
Dovrebbero essere per primi i sindacati a occuparsi del recupero di questo flusso di investimenti a cui noi oggi sistematicamente ci chiudiamo: perché per i lavoratori non c’è protezione più efficace – né di fonte legislativa, né di fonte collettiva – di quella che è offerta da un mercato del lavoro che offre a tutti un’ampia possibilità di scelta tra aziende diverse, quindi la possibilità di sbattere la porta in faccia al datore di lavoro che li tratta male, o meno bene di altri, avendo a disposizione molte alternative.
La vicenda Fiat è stata decisa dal referendum di Mirafiori; ma quest’altra questione trenta volte più importante resta apertissima. E su questo terreno – molto più che sul “sì” o sul “no” a Mirafiori – la politica nazionale e per primo il Governo non possono esimersi dal dire chiaro ciò che propongono. Fino a oggi il Governo non lo ha fatto con la chiarezza e la tempestività che sarebbero state necessarie.
Il Governo deve dire ciò che pensa, innanzitutto, circa il rapporto tra contratto nazionale e contratti aziendali nello stesso settore. Su questo tema difficile e delicato abbiamo assistito negli ultimi mesi a un vero e proprio fuoco di sbarramento da quella parte del movimento sindacale e della sinistra politica che vede nella regola della rigida inderogabilità del contratto collettivo nazionale una garanzia di protezione dei “diritti fondamentali” dei lavoratori. La difesa dei “diritti fondamentali” è stata invocata anche in riferimento specifico agli accordi di Pomigliano e di Mirafiori; ma, a ben vedere, il motivo vero dell’opposizione a quegli accordi non è costituito dal contenuto delle deroghe in essi contenute al contratto collettivo nazionale: ciò che preoccupa la sinistra sindacale e politica è che con l’ammettere la derogabilità del contratto nazionale ci si collochi su di un piano inclinato, dove “si sa dove si comincia ma non si sa dove si va a finire”. Noi, però, sappiamo benissimo dove l’Italia va a finire se resta ferma, se non ricomincia a crescere; sappiamo anche che per tornare a crescere occorre che il nostro Paese si apra all’innovazione nel processo produttivo; e che l’innovazione – direi quasi “per definizione” – non si presenta quasi mai come fenomeno che investe un intero settore produttivo, bensì come esperimento che interessa una singola azienda e solo in un secondo tempo si estende alle altre. Se dunque, in materia di organizzazione del lavoro, struttura delle retribuzioni, distribuzione degli orari, inquadramento professionale, conserviamo la vecchia regola di rigida inderogabilità del contratto collettivo nazionale di settore, il risultato è una chiusura del sistema all’innovazione in tutti questi campi. Certo, non c’è soltanto l’innovazione buona: c’è anche quella cattiva; ma non possiamo, per paura dell’innovazione cattiva chiuderci anche a quella buona. E per aprirci all’innovazione buona abbiamo bisogno di un sindacato che sappia operare come intelligenza collettiva dei lavoratori nella valutazione dei piani industriali e, se la valutazione è positiva, sappia guidare i lavoratori nella scommessa comune con gli imprenditori su quei piani. A questa idea di sindacato si ispira la riforma del diritto sindacale proposta nel disegno di legge n. 1872 presentato da 55 senatori democratici nel 2009 – ben prima che si aprisse la vertenza Fiat – e a cui si ispira una bozza di “avviso comune” al Governo, ora all’esame delle parti sociali come base per la soluzione legislativa del problema.
Il Governo deve dire chiaramente ciò che pensa, poi, sulla questione che viene comunemente indicata con l’espressione un po’ sindacalese “esigibilità del contratto”, ma che è più chiaro indicare con l’espressione “validità ed efficacia della clausola di tregua”, cioè dell’impegno contenuto nell’accordo sindacale a non scioperare contro l’accordo stesso finché esso è in vigore. Oggi in quasi tutti i Paesi dell’occidente industrializzato è pacifico che la clausola di tregua contenuta in un contratto collettivo vincoli tutti i lavoratori cui il contratto stesso si applica. Da noi questa regola è stata introdotta, vent’anni fa, soltanto in riferimento ai servizi pubblici essenziali, mentre per tutti gli altri settori su questa materia è rimasta una lacuna legislativa; ora la vicenda Fiat mostra come sia necessario che questa lacuna venga colmata, perché sia garantita l’effettività dei contratti collettivi. Non soltanto nell’interesse dell’impresa, ma anche nell’interesse dello stesso sindacato e dei lavoratori che esso rappresenta: perché un sindacato che al tavolo delle trattative non può spendere la moneta di scambio di un impegno credibile di tregua è un sindacato privo di potere contrattuale.
L’iniziativa per un sistema delle relazioni industriali più aperto ed efficiente deve dunque avere tra i suoi punti fondamentali la riforma non solo delle regole in materia di rappresentanza nei luoghi di lavoro, ma anche delle regole sulla contrattazione collettiva, ivi compresa la materia della clausola di tregua, perché ne risultino definiti in modo chiaro sia il diritto della coalizione sindacale maggioritaria a negoziare contratti con efficacia vincolante nei confronti di tutti i lavoratori interessati, sia il diritto del sindacato minoritario alla rappresentanza riconosciuta in azienda, anche quando esso ritenga di non dover sottoscrivere il contratto.
Occorre, infine, operare con decisione per l’ampliamento degli spazi di partecipazione dei lavoratori nell’impresa. Va ribadito in proposito che la sede ideale per la partecipazione dei lavoratori alle scelte strategiche è l’accordo aziendale sul piano industriale; ma questo non toglie che sia necessario un intervento legislativo per consentire e potenziare tutte le altre possibili forme di trasparenza della gestione, di informazione e controllo sull’andamento della scommessa comune tra lavoratori e imprenditore. A questo tende il testo unificato dei disegni di legge sulla “partecipazione” che giace ormai da quasi due anni alla Commissione Lavoro del Senato, nonostante che sia stato raggiunto in proposito un accordo informale tra maggioranza e opposizione.
Su questi temi mi sembra che l’elaborazione e il dibattito di questi ultimi due anni abbiano creato le condizioni perché si compia un rilevante passo avanti: è ora che tutto questo si traduca in una svolta nel sistema italiano delle relazioni industriali. Se, per ragioni contingenti, l’accordo interconfederale non arriva, è indispensabile un intervento legislativo che, in via sussidiaria e provvisoria, detti le regole di cui il sistema ha vitale necessità.