UNA MAGGIORANZA INEDITA – SENZA LA LEGA E L’IDV – HA DECISO LA PARTECIPAZIONE DELL’ITALIA ALL’INTERVENTO IN LIBIA DELIBERATO DALL’ONU: UNA NUOVA PROVA PER IL MULTILATERALISMO, CHE CONSENTE ALL’ITALIA DI CHIUDERE UNA BRUTTA PAGINA DELLA SUA POLITICA ESTERA
Articolo di Giorgio Tonini pubblicato su l’Ago e il filo, marzo 2011
Il governo italiano è stato l’ultimo a rompere con Gheddafi. E’ arrivato al limite dell’isolamento, in Europa e nel mondo, pur di difendere un assetto che ai suoi occhi pareva l’unico compatibile con l’interesse nazionale italiano. I gravi rischi esplosi su tre fronti assolutamente strategici per il paese, come gli approvvigionamenti energetici, gli investimenti italiani in Libia (e viceversa) e la gestione dei flussi migratori, hanno fatto sì che per una prima fase sia stata la paura a dettare la linea al governo. Per questo, dall’opposizione, lo abbiamo aspramente criticato e lo abbiamo spinto a collocare l’Italia su una linea più coraggiosa, che scommettesse su una nuova centralità del Mediterraneo, attraverso una nuova stabilità, affidata non più a regimi autocratici, ma a risposte affidabili alla domanda di libertà e di democrazia dei popoli arabo-islamici.
Ora il governo sembra aver capito che ciò di cui più deve aver paura è la paura stessa: che finirebbe per incatenare l’Italia ad un vecchio equilibrio che sta inesorabilmente affondando. L’atteggiamento tutt’altro che anti-italiano degli insorti del Consiglio nazionale transitorio di Bengasi ha aiutato il governo a ritrovare coraggio. E a capire che l’unico modo per difendere e promuovere l’interesse nazionale è quello di ancorarlo ad una visione lungimirante di politica estera, che investa sulle energie di cambiamento, anziché sulla conservazione di un ormai indifendibile status quo.
Quello in atto nel mondo arabo-islamico è in effetti un cambiamento vero e profondo, il nocciolo del quale potrebbe essere individuato in una radicale revisione di giudizio (e dunque di atteggiamento), nei riguardi della globalizzazione. Dieci anni fa, lo spaventoso attentato dell’11 settembre era stato il tragico, estremo frutto di un’opposizione frustrata e rancorosa del mondo arabo-islamico ad una globalizzazione vista allora come sinonimo di americanizzazione e occidentalizzazione forzata del mondo. Ma le cose sono andate in modo assai diverso: la globalizzazione si è rivelata, per dirla con Fareed Zakaria, come “the rise of the rest“, l’ascesa degli altri, dei non occidentali, a cominciare da Cina, India, Brasile, e il ridimensionamento, almeno relativo, dell’Occidente atlantico. In un mondo divenuto multipolare, i moti popolari di questo inaspettato “Risorgimento arabo”, come lo ha definito il presidente Napolitano, esprimono ora la volontà, la decisione del mondo arabo-islamico, di uscire dall’auto-isolamento, di rientrare in gioco, di trovare il suo posto nella e non più contro la globalizzazione. Ma, per l’appunto, il suo posto, conquistato, guadagnato in proprio, non concesso o regalato da altri.
Chi ha compreso meglio e per primo cosa si poteva muovere nel mondo arabo-islamico è stato il presidente degli Stati Uniti, Barack Hussein Obama. Con il famoso discorso all’Università del Cairo del 4 giugno 2009, il presidente nero dal nome arabo, immagine vivente di una globalizzazione inclusiva e plurale, affermava la compatibilità tra islam e democrazia, si schierava dalla parte dei popoli che si battono per il valore universale della libertà e dei diritti umani e al tempo stesso ripristinava il rispetto della sovranità altrui e l’opzione preferenziale per il multilateralismo: entrambi violati da Bush con l’intervento in Iraq. La “dottrina” del Cairo, tipicamente obamiana perché al tempo stesso idealista e pragmatica, non ha evitato alla Casa Bianca esitazioni e incertezze, dinanzi ad un precipitare degli eventi imprevedibile per tutti, almeno nei modi e nei tempi. E tuttavia le ha consentito, a differenza degli europei, noi italiani compresi, di disporre di uno schema di analisi e di azione: schierarsi con nettezza dalla parte dei popoli, senza troncare il rapporto con l’establishment, innanzi tutto militare, essenziale per un governo equilibrato della transizione; e, senza escludere l’uso della forza come extrema ratio, riaffermare il primato del diritto e della legalità internazionale e privilegiare il soft-power nel promuovere e accompagnare un difficile e rischioso cambiamento.
La guerra civile libica e l’arroccamento di Gheddafi hanno malamente complicato la situazione, proponendo il drammatico dilemma tra una solidarietà con i combattenti per la libertà, che può esporre ai rischi militari e soprattutto politici di una nuova ingerenza, regalando ai dittatori e agli islamisti formidabili armi di propaganda, e il rigoroso rispetto della legalità internazionale, che può costare l’alto prezzo morale e politico di un abbandono del popolo libico nelle mani del tiranno di Tripoli. Comprensibilmente gli Stati Uniti, la Nato e con loro l’Europa e l’Italia hanno sperato e lavorato per la quadratura del cerchio, che poteva realizzarsi solo al Consiglio di sicurezza dell’Onu, in chiara e forte intesa con la Lega Araba e l’Unione africana.
A quanto pare, i fatti hanno nuovamente dato ragione a Obama: scriviamo questo pezzo poche ore dopo l’approvazione, da parte del Consiglio di sicurezza, della risoluzione 1973, con la quale le Nazioni Unite autorizzano l’uso della forza per fermare Gheddafi, ovvero “tutte le misure necessarie a proteggere i civili e le aree popolate dalla minaccia di attacco nella Jamahiriya araba libica, Benghasi inclusa, esclusa invece una forza di occupazione”. La risoluzione è stata approvata con dieci voti favorevoli: i tre “permanenti” occidentali (Usa, Regno Unito, Francia), due europei (Portogallo e Bosnia-Erzegovina), l’unico aderente alla Lega araba (il Libano), i tre paesi dell’Unione africana (Sudafrica, Nigeria e Gabon) e la Colombia. Cinque paesi si sono astenuti: Russia e Cina (che hanno quindi rinunciato ad usare il diritto di veto), India, Brasile, ma anche Germania, che ha così rotto, in modo clamorosamente grave, la solidarietà europea, ha mandato in frantumi il ventilato (e temuto) direttorio a tre sulla politica estera e di difesa tra Londra, Parigi e Berlino e ha incrinato perfino l’asse franco-tedesco.
L’Europa conferma quindi la sua cronica incapacità di parlare al mondo con una voce sola. Mentre Obama riesce a dimostrare che il multilateralismo efficace è possibile, che è l’unica via per un rilancio della leadership morale e per questo anche politica, degli Stati Uniti e che non è vero che l’unico possibile ricorso alla forza è quello che connette in modo diretto etica e forza, saltando la mediazione del diritto e della politica. Del resto, la “dottrina Obama”, sbeffeggiata dai neo-con del Wall Street Journal, nostalgici dell’unilateralismo e delle guerre preventive di George W. Bush, si è affermata proprio sul fallimento dell’interventismo bushiano, uno dei più clamorosi casi di eterogenesi dei fini che la storia contemporanea ricordi: nato con l’obiettivo di imporre la supremazia benefica dell’America nel mondo, ha finito per indebolirla come mai era stata, sia sul piano economico, che su quello geopolitico, per non parlare della vera e propria dissoluzione del soft-power.
Ora il multilateralismo deve dimostrarsi efficace anche sul difficile e insidioso terreno libico: costringendo Gheddafi a mollare la presa e consentendo al popolo libico di trovare la sua via verso la libertà. Il Parlamento, con una risoluzione bipartisan (ma senza la Lega e Di Pietro), ha schierato l’Italia al fianco della comunità internazionale. Che la vittoria – la vittoria dei diritti umani e della democrazia, nel quadro della legalità internazionale – le porga la chioma.