IL CONVEGNO DI LUCCA SI PROPONE AMBIZIOSAMENTE DI INAUGURARE UNA NUOVA BRANCA DI STUDI GIUSLAVORISTICI: IL DIRITTO SPERIMENTALE – SE IN CAMPO MEDICO SI CONSIDERA OVVIO CHE NON SI DISTRIBUISCA UN FARMACO PRIMA CHE NE SIANO STATI TESTATI GLI EFFETTI, PERCHE’ NON LO SI DOVREBBE CONSIDERARE OVVIO ANCHE NEL CAMPO DELLE POLITICHE DEL LAVORO?
Traduzione in italiano dell’introduzione al convegno convegno di Lucca (25 e 26 marzo 2011) su Il ruolo del metodo sperimentale per il progresso e l’effettività della legislazione del lavoro – V. anche le slides della presentazione, in formato pdf
1. – Promuovere questo incontro, come prima iniziativa pubblica della Fondazione Giuseppe Pera, è stato un atto di coraggio non da poco, da parte degli organi della Fondazione e di questi sponsor: per la novità del tema, innanzitutto; ma anche per la difficoltà di mettere in comunicazione su di esso economisti e giuristi, con i rispettivi linguaggi tecnici diversissimi.
Novità del tema, perché qui non discuteremo genericamente di analisi economica del diritto, bensì di una cosa molto più specifica: la sperimentazione empirica degli effetti delle norme che regolano i rapporti di lavoro. A quanto ci risulta, questo tema, che è stato oggetto tre anni fa di un convegno internazionale in riferimento alla normativa in materia di istruzione, non è mai stato invece oggetto di un convegno di studio internazionale in riferimento al diritto e alle politiche del lavoro. Sul versante giuridico, ci proponiamo di gettare le basi di una branca di studi, che potremmo indicare con il termine “diritto sperimentale”, nella quale il giurista ha tipicamente bisogno della cooperazione con l’economista e il sociologo. Oggetto di questo comparto di studi giuridici è la norma caratterizzata da una funzione diversa da quella che tradizionalmente attribuiamo alla norma legislativa: non la sua classica funzione di dettare una disciplina destinata a un’applicazione generale e tendenzialmente stabile, ma la funzione di anticipare una possibile riforma futura applicandone gli effetti in un novero ridotto di casi, al fine di renderne osservabili e possibilmente anche misurabili gli effetti.
Poi, difficoltà di un dialogo e di una cooperazione, in questo campo specifico, tra economisti e giuristi. Per le ragioni che verranno discusse da Antoine Lyon-Caen e da TatianaSachs, ciò che è ortodosso per gli uni è eretico per gli altri. E viceversa. La necessità di questo dialogo e cooperazione non è affatto scontata e non è comunemente percepita, né su di un versante, né sull’altro. Invece dialogo e cooperazione tra le due comunità scientifiche sono davvero indispensabili se vogliamo, attraverso la sperimentazione, ridurre il tasso di ideologia e aumentare il tasso di pragmatismo in tanti dibattiti di politica del lavoro.
2. – In via di prima approssimazione possiamo individuare quattro tipi di esperimento rilevanti per la nostra discussione:
A) l’“esperimento naturale” o “istituzionale”, cioè quello che viene attivato da una iniziativa legislativa o amministrativa non animata da intendimenti di ricerca scientifica ma che nondimeno si presta a una misurazione rigorosa degli effetti della misura adottata;
B) l’ “esperimento volontario”, nel quale i soggetti interessati possono scegliere concordemente di applicare una determinata disciplina sottraendosi in tal modo alla disciplina generale, e così rendendo in qualche misura osservabili gli effetti della disciplina sperimentata;
C) l’esperimento scientifico “sul campo”, cioè quello che viene attivato essenzialmente e prioritariamente con intendimenti di ricerca scientificamente rigorosa, con individuazione corretta del “gruppo trattato” e del “gruppo di controllo non trattato”;
D) l’“esperimento di laboratorio”, cioè quello che si basa su di una simulazione della realtà realizzata mediante l’interazione tra un gruppo di attori cui si propone di partecipare a un “gioco” governato secondo determinate regole e sotto la stimolazione di determinati incentivi.
Ciascuno di questi tipi di esperimento pone problemi, sia sul versante giuridico sia su quello economico, che giuristi ed economisti possono risolvere più facilmente cooperando tra loro. Ma questa cooperazione interessa particolarmente ai giuristi, i quali sempre più frequentemente si trovano a dover fare i conti con la il problema della misurazione degli effetti delle norme.
3. – Un primo caso in cui la misurazione degli effetti della norma è necessaria non soltanto sul piano economico, ma anche su quello giuridico, è quello della norma di rango inferiore che deve soddisfare i requisiti posti da una norma di rango superiore (per es.: una legge ordinaria rispetto a una norma costituzionale o europea).
Un caso giudiziario molto noto, nel quale è emersa la rilevanza degli effetti della norma legislativa ordinaria, ai fini del giudizio di legittimità o no nell’ordinamento europeo, è quello deciso con la sentenza Job Centre II della Corte di Giustizia, dell’11 dicembre 1997, che fa dipendere la legittimità del monopolio statale dei servizi di collocamento dall’efficienza effettiva della gestione di tali servizi da parte delle agenzie pubbliche. Ma la stessa rilevanza, sul piano dell’ordinamento europeo, degli effetti pratici di una norma legislativa nazionale ordinaria è venuta in evidenza in altri casi, in materia di lavoro, che saranno oggetto della comunicazione di Massimo Pallini.
Nello stesso ordine di idee, la misurazione degli effetti di una norma di legge ordinaria può essere indispensabile anche per la sua qualificazione in termini di discriminazione (vietata dalla Costituzione e dall’ordinamento europeo), oppure di azione positiva, favorita dalle norme di rango superiore. Questo è il caso, per esempio, di due disegni di legge che sono stati presentati recentemente dal Parlamento italiano (Germontani et al., 2010; Morando et al., 2010), entrambi mirati a differenziare il prelievo fiscale per aumentare il tasso di occupazione femminile. Il divieto comunitario e costituzionale di discriminazioni di genere parrebbe vietare al legislatore di differenziare le aliquote dell’imposta sui redditi di lavoro delle donne rispetto ai redditi di lavoro degli uomini. Tuttavia è ragionevole ipotizzare che una riduzione del prelievo fiscale a carico delle lavoratrici possa far aumentare il tasso di occupazione femminile, oggi in Italia patologicamente basso, assumendo così la connotazione di una azione positiva. Ma “ragionevole ipotesi” non significa certezza; e si possono altrettanto ragionevolmente ipotizzare diverse possibili cause di inefficacia della detassazione selettiva per la promozione del lavoro femminile. È allora evidente l’importanza decisiva che, in un giudizio costituzionale o comunitario sulla legittimità della detassazione selettiva, può assumere la sperimentazione rigorosa di questa misura fiscale mediante il confronto tra il comportamento di un gruppo adeguatamente selezionato e quello di un gruppo di controllo “non trattato” (questo esperimento non è stato ancora effettuato; ma è espressamente previsto nel disegno di legge Morando e altri n. 2102/2010, art. 4) (1).
4. – La relazione di Josh Angrist, prendendo spunto da alcuni esempi di esperimenti nel campo dell’istruzione, mostrerà sotto quali condizioni un esperimento controllato o un esperimento naturale possono consentire di individuare il rapporto causale tra misure adottate ed effetti socio-economici: ciò che è indispensabile per verificare l’effettività della disposizione contenuta nella legge. Ma quello che è ancora più interessante osservare è che qui non è in gioco soltanto la questione se applicare o no una determinata misura, bensì anche quello del dosaggio della misura stessa. Nel caso della differenziazione del prelievo fiscale sui redditi di lavoro femminili e maschili, per esempio, si pone anche la questione relativa all’ammontare della differenziazione, necessario per ottenere un determinato aumento del tasso di occupazione femminile.
Se consideriamo questo metodo necessario in campo medico, perché non considerarlo tale anche nella materia delle politiche sociali e del lavoro? Il disegno di legge sopra citato n. 2102/2010 è il primo, in Italia, a quanto mi risulta, nel quale si manifesti esplicitamente la consapevolezza della possibilità di utilizzare anche sul piano delle politiche sociali e del lavoro lo stesso metodo sperimentale che, nel settore farmacologico, è ormai da molti decenni pacificamente acquisito nella cultura medica. In nessun Paese civile, oggi, si consente che venga commercializzato un farmaco, se prima non se ne sono sperimentati rigorosamente gli effetti. Là dove la stessa sperimentazione è possibile anche in materia di politiche sociali e del lavoro, perché mai non si dovrebbe considerarla necessaria – o comunque molto opportuna – prima del varo di una riforma o dell’adozione generalizzata di una determinata misura volta a migliorare il funzionamento del mercato del lavoro?
5. – Un problema più europeo che americano è quello della legittimità di esperimenti territorialmente limitati. Negli U.S.A. un nuovo orientamento giurisprudenziale o l’introduzione di una nuova norma nell’ordinamento di uno o più dei 50 Stati dell’Unione consente una misura rigorosa degli effetti del “trattamento” attraverso il confronto con quanto accade negli altri Stati, i quali vengono utilizzati come gruppi di controllo “non trattati” (di questa opportunità insita nella struttura federale dell’ordinamento statuale ci parlerà oggi Matt Finkin). In ciascuna delle nazioni europee maggiori la stessa cosa potrebbe avvenire attraverso il confronto tra province o regioni; ma qui, se l’oggetto della sperimentazione è costituito da una nuova norma, si pone il problema della legittimità costituzionale di una differenziazione territoriale della disciplina applicabile, finalizzata alla verifica sperimentale degli effetti. È lecito, ed entro quali limiti, che una nuova disciplina (per esempio, in materia di limiti alla facoltà di licenziamento dei lavoratori, oppure in materia di sostegno del reddito ai lavoratori disoccupati) venga introdotta in una sola provincia o regione al fine di verificarne gli effetti attraverso il confronto con un’altra provincia o regione avente caratteristiche socio-economiche simili ma “non trattata”? In quale misura una differenziazione territoriale della norma applicabile può – per esigenze di sperimentazione – anticipare una riforma?
In Italia il ministero dell’Istruzione ha recentemente varato un duplice esperimento destinato a durare tre anni, per individuare e misurare gli effetti di un sistema di valutazione e incentivazione: A) della performance di ciascun istituto scolastico nel suo complesso e B) della performance di ciascun insegnante. Una obiezione giuridica è stata subito sollevata da un sindacato (la Cgil) in riferimento all’esperimento B): si contesta la legittimità dell’erogazione del premio ad alcuni insegnanti e in alcune città soltanto, oltretutto in presenza di una disposizione del contratto collettivo nazionale che vieta l’erogazione di premi non previsti nel contratto stesso. Ma la questione giuridica più generale che si pone a questo proposito è se la ratio sperimentale possa o no, ed entro quali limiti, giustificare uno scostamento rispetto allo standard fissato da una norma generale inderogabile posta da legge o contratto collettivo nazionale: uguaglianza vs. sperimentazione.
Una soluzione di questo problema può forse essere fondata sulla nozione di efficienza paretiana, riferita alla misura che si intende sperimentare. Se è ragionevole prevedere che da quella misura qualcuno trarrà vantaggio ma nessuno subirà conseguenze negative, perché l’esperimento – ritenuto utile in funzione di una riforma futura – dovrebbe essere vietato, solo in considerazione della temporanea disuguaglianza che esso genera fra il campione trattato e il campione non trattato?
Ma resta comunque aperta la questione se sia accettabile la sperimentazione sulla sola base della ragionevole previsione dell’efficienza paretiana della misura sperimentata, cioè della prospettiva che nessuno subirà conseguenze negative, in una situazione in cui sia impossibile eliminare l’eventualità che qualcuno di fatto abbia a perderci. In altri termini: può la legittimità dell’esperimento essere accertata sulla sola base della valutazione ex ante delle chances che esso offre a ciascuno dei soggetti coinvolti? (sarà questo uno dei temi che saranno affrontati domani nella relazione di Francesco Clementi).
Se la risposta a queste domande è positiva, possiamo considerare la sperimentazione come un’esigenza meritevole di tutela nell’ordinamento, con la quale il principio di uguaglianza deve essere contemperato.
6. – Un disegno di legge (n. 1481, presentato al Senato italiano il 25 marzo 2009) di cui porto, come primo firmatario, la maggiore responsabilità prevede che accordi collettivi aziendali possano in via sperimentale sostituire la disciplina oggi vigente in Italia in materia di licenziamento (art. 18 dello Statuto dei lavoratori del 1970) con un regime ispirato ai modelli di flexsecurity nord-europei: si tratta in sostanza della sostituzione del controllo giudiziale del giustificato motivo oggettivo di licenziamento con un dispositivo di assistenza integrale al lavoratore (trattamento complementare di disoccupazione, servizi di assistenza intensiva per la ricerca della nuova occupazione e di riqualificazione professionale mirata), interamente a carico dell’impresa che licenzia. Sul piano giuridico qui si pone dunque lo stesso problema di legittimità costituzionale già menzionato: in quale misura è legittimo consentire alle parti di un sistema di relazioni industriali di sottrarsi mediante un accordo tra di loro all’applicazione futura di una norma inderogabile dell’ordinamento statale. La questione giuridica può sintetizzarsi nei termini del conflitto tra i due principi: “uguaglianza vs. sperimentazione”; dove il primo ha già un fondamento costituzionale ben preciso, mentre il secondo è ancora in attesa di essere definito dai giuristi; e può prospettarsi la necessità di una sua successiva definizione anche sul piano legislativo.
Sull’altro versante, si pone, a questo proposito un interrogativo cui devono rispondere gli economisti: quello della valutazione dei risultati di un esperimento volontario. In riferimento a un esperimento nel quale la scelta se adottare una nuova disciplina del rapporto di lavoro è lasciata ai soggetti interessati, si pone il problema se e in quale misura l’autoselezione dei soggetti stessi sia compatibile con una qualche significatività sul piano scientifico dei risultati dell’esperimento. Quali conclusioni possono esserne correttamente tratte?
7. – Tutt’altra cosa, rispetto agli esempi qui proposti, è l’abuso terminologico che si manifesta in numerosi provvedimenti legislativi, dove una disposizione viene qualificata come “sperimentale” soltanto per attutire il dissenso espresso in proposito dagli oppositori, oppure per giustificare la sua applicazione territorialmente limitata (qui “sperimentale” significa soltanto che non ci sono soldi per tutti), ma senza alcuna previsione di una rilevazione corretta dei dati. La nascita del “diritto sperimentale” deve portare con sé anche l’affermarsi di un rigore terminologico, che non consenta più di spacciare per sperimentazione ciò che col metodo sperimentale non ha nulla a che vedere.
Nel lasciare la parola ai relatori, formulo l’augurio che questo atto di coraggio, con cui la Fondazione Giuseppe Pera ha scelto di dare il proprio primo contributo alle scienze del lavoro, non si riveli alla prova dei fatti un azzardo temerario. E che esso possa davvero contribuire allo sviluppo di una cultura giuslavoristica che assuma come suoi pilastri fondamentali la sperimentazione e la comparazione.
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(1) Riporto il testo dell’articolo 4 del disegno di legge Morando n. 2102/2010.
Art. 4 ( Sperimentazione di sgravi fiscali selettivi sui livelli occupazionali femminili)
1. In via sperimentale, a decorrere dal 1° gennaio 2011 e fino al 31 dicembre 2016, la Banca d’Italia cura una ricerca empirica volta a determinare gli effetti di sgravi fiscali selettivi sui livelli occupazionali femminili, in relazione alle condizioni del mercato del lavoro regionale e alle altre circostanze soggettive e oggettive suscettibili di assumere rilievo in proposito.
2. Ai fini di cui al comma 1, sono stanziati 5 milioni di euro per ciascuno degli anni dal 2011 al 2016, destinati alla simulazione sperimentale di uno sgravio fiscale di entità non superiore alla metà dell’imposta gravante su ciascuna persona, su un campione di 5.000 donne, rappresentativo della popolazione.
3. Entro il 28 febbraio 2017, la Banca d’Italia comunica al Ministro dell’economia e delle finanze e del lavoro e delle politiche sociali i dati relativi alla sperimentazione di cui al comma 1. Il medesimo Ministro procede, d’intesa con Ministri dello sviluppo economico, dell’economia e delle finanze, le regioni e le province autonome di Trento e Bolzano, nonché le associazioni dei datori di lavoro e le organizzazioni sindacali dei lavoratori comparativamente più rappresentative sul piano nazionale, ad una verifica degli effetti e dell’efficacia della sperimentazione. Gli esiti della verifica sono trasmessi al Parlamento, al fine di valutare l’eventuale prosecuzione della sperimentazione o l’adozione di disposizioni finalizzate all’attuazione e all’estensione degli sgravi fiscali oggetto della sperimentazione.