GIUSTIZIA: RIFORMA NON FA RIMA CON EFFICIENZA

LA GIUSTIZIA E’ LA PIU’ GRAVE EMERGENZA DI QUESTO PAESE, MA NON SARA’ LA RIFORMA COSTITUZIONALE PROPOSTA DAL GOVERNO BERLUSCONI A RISOLVERLA

Articolo di Roberto Perotti pubblicato sul Sole 24 Ore il 12 marzo 2011


La giustizia è la più grande emergenza di questo paese. Nove anni per una sentenza di primo grado di fallimento sono ovviamente una zavorra per l’economia. Ma gli effetti più devastanti sono forse quelli meno discussi e meno quantificabili: la disaffezione nei confronti dello Stato, il senso di impunità che pervade i rapporti sociali, e il cinismo istillato nei giovani.
Qualsiasi riforma seria deve proporsi concretamente di dimezzare l’enorme arretrato, in dieci anni, e deve essere valutata in base ai suoi effetti sui tempi. Purtroppo, ci sono tre ottime ragioni per essere pessimisti.
Il dibattito sarà sempre, inevitabilmente, politicizzato; ma con questo governo esso è anche personalizzato, il che è anomalo e ha impedito una discussione informata dei possibili effetti della riforma Alfano sui tempi della giustizia. Ridurre l’appellabilità delle sentenze di assoluzione di primo grado, una misura della riforma non certo ignota negli ordinamenti esteri, potrebbe tagliare in modo rilevante i tempi per una sentenza definitiva; ma da noi è inevitabile che venga vista prima e soprattutto per i suoi riflessi sulla posizione personale del premier e di alcuni suoi amici e alleati. E, francamente, è difficile biasimare chi non riesce a prescindere da questi sospetti. Anche un altro pilastro della riforma Alfano, la responsabilità dei magistrati, potrebbe avere effetti rilevanti sui tempi della giustizia; ma ancora una volta la storia del premier ha deviato il dibattito verso altri aspetti.
Il secondo motivo di pessimismo è una visione astratta della giustizia che prevale tra tanti avvocati e magistrati, per cui qualsiasi proposta concreta che contribuisca ad aumentarne l’efficienza viene invariabilmente bollata come una deviazione dai principi giuridici dello stato di diritto, una negazione strisciante delle garanzie costituzionali, o un cedimento a una visione barbara prevalente in altri ordinamenti. La reazione pavloviana di molti addetti ai lavori è «queste cose si fanno in America, non nella patria del diritto» (un americano risponderebbe che ritardare la giustizia significa impedirla).
A questi addetti ai lavori vorrei porre due domande. È plausibile che tutti i paesi sviluppati eccetto l’ Italia siano preda di una civiltà giuridica barbara? E c’è qualcuno che ha il coraggio di esporsi e proporre un pacchetto di misure organiche, concrete e credibili, con una proiezione ragionata dei loro effetti sui tempi della giustizia, invece di elencare i mali della giustizia a ogni inaugurazione di anno giudiziario senza mai indicare rimedi che non siano marginali, di dire sempre no a tutto in nome dei principi, o di disquisire senza fine su ogni virgola della Costituzione?
E qui veniamo al terzo motivo di pessimismo. Credo di conoscere la risposta più gettonata a entrambe le domande: gli altri paesi hanno maggiori risorse a disposizione; il modo più efficace per tagliare i tempi della giustizia è aumentare le risorse. Senonché i confronti internazionali non sostengono questa posizione: non spendiamo meno, ma spendiamo una percentuale maggiore di altri paesi in stipendi ai magistrati, soprattutto perché la progressione per anzianità è da noi molto più accentuata.
Sono consapevole che l’espressione non piacerà ai puristi del diritto, ma il fatto è che il problema della giustizia in Italia è anche un problema di produttività: una brutta parola che, nel caso specifico dice per esempio quante sentenze vengono emesse in media ogni anno da un magistrato. Le librerie sono piene di memorie di magistrati che raccontano esperienze ai limiti dell’incredibile sulla disorganizzazione e, spesso, il lassismo di tante procure e tribunali, e, di converso, sui risultati straordinari ottenuti con delle semplici misure di razionalizzazione e di disciplina del lavoro.
Così come in tanti altre parti del settore pubblico (scuola, università, sanità, ferrovie) ogni proposta per meglio organizzare il lavoro e ridurre i fenomeni, diciamo così, di scarso impegno, viene variamente bollata come un attentato all’indipendenza dei lavoratori, una misura punitiva del settore pubblico motivata da astio ideologico, oppure un diversivo per distogliere dal vero problema, la mancanza di risorse.
In privato, però, avvocati e magistrati sono perfettamente consapevoli delle enormi inefficienze della giustizia italiana; ma ancora una volta pochi hanno il coraggio ammetterle in pubblico senza distinguo, e di farsi avanti con le proposte che una situazione di emergenza come quella attuale richiede.
roberto.perotti@unibocconi.it

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