PRIMA E’ VENUTA LA LINGUA: NON C’ERA L’ITALIA, MA DA SECOLI ESISTEVA L’ITALIANO

ALL’UNITÀ D’ITALIA ERA ANALFABETA L’80% CIRCA DEGLI ADULTI – È UN IMPORTANTISSIMO TRAGUARDO CHE QUASI TUTTI NEL NOSTRO PAESE ORA PARLINO ITALIANO – PER SECOLI ESSO  E’ STATO LINGUA SOPRATTUTTO SCRITTA E NON PARLATA: MA L’UNITA’ LINGUISTICO-LETTERARIA HA DATO GRANDE IMPULSO ALL’EFFETTIVA UNIFICAZIONE NAZIONALE

Articolo di Gian Luigi Beccaria su La Stampa del 13 marzo 2011

   Sullo scoglio di Quarto il più folto gruppo dei Mille parlava bergamasco. «Si odono tutti i dialetti dell’alta Italia, però i Genovesi e i Lombardi devono essere i più» è la prima impressione di Giuseppe Cesare Abba appena a bordo del «Lombardo»; e annoterà in seguito che i carabinieri genovesi a Calatafimi, marciando per la valle, «parlavano il loro dialetto che a momenti scatta di collera, ed era così caro e parlato così volentieri da Garibaldi, che l’addolciva, mentre sulle labbra di Nino Bixio guizzava come la saetta». Consueto era per loro il materno dialetto, non l’italiano. Poi s’è fatta l’Italia, c’erano ancora da fare gli italiani, e soprattutto la lingua unitaria, che da non molto è diventata la lingua di tutti, questo bene comune usato nel parlato e nello scritto da una nazione intera.
   «Ogni volta che riesco a comporre una frase ben concepita, ben calibrata e precisa in ogni sua parte, una frase salda e tranquilla nella bella lingua che abito, e che è la mia patria, mi sembra di rifare l’Unità d’Italia» ha scritto Raffaele La Capria. Perché una lingua non è grammatica soltanto, ma è riconoscimento, aria di famiglia, tradizione, una confortante sensazione di unità, senso di contatto con qualcosa che ci appartiene, che ci ha formato negli anni di scuola o di letture. Tant’è che chi ha la mia età si irrita se sente un’annunciatrice dire in tv che «i cipressi di Bolghéri si sono ammalati». Sembra di aver mandato in soffitta il nostro Carducci, che un tempo a scuola mandavamo a memoria. Così come ci se sente offesi quando, dopo gli enormi e faticosi passi compiuti per trovare un’unità di lingua, vediamo fioccare cumuli di provocazioni: dialetti che sentendosi poco valorizzati chiedono di diventare «lingua», richieste di insegnare i dialetti a scuola, una seduta del Parlamento Europeo in cui si fanno dichiarazioni di voto in dialetto napoletano, disegni di legge per la celebrazione dei matrimoni in lingua locale, richieste di celebrare la messa in dialetto, tg trasmessi in lombardo o in veneto, ipotizzata preferenza per il docente che parla il dialetto della regione in cui insegna… Abbiamo realizzato il sogno di Dante, di Foscolo, di Manzoni, e ora vorremmo tornare alle «piccole patrie», tornare indietro di secoli.
   Dimentichiamo che al momento dell’Unità non sapeva né leggere né scrivere il 75-80% della popolazione adulta, la percentuale più alta d’Europa dopo quella della Russia. È un importantissimo punto di arrivo che la quasi totalità degli italiani ora parli italiano, dopo secoli che questa nostra lingua è stata soprattutto scritta e non parlata, lingua di cultura e non di natura. Nel 1951, poco prima che la televisione diventasse una delle scuole serali d’italiano,ben il 65% usava ancora il dialetto in ogni circostanza. E 150 anni fa soltanto un 2,5% o forse, secondo le stime più ottimistiche, un 10% sapeva parlare italiano. Ora finalmente possiamo dire che una lingua prevalentemente scritta per secoli, e posseduta dalle classi colte soltanto, è diventata una lingua parlata in tutta la penisola, capace di superare i particolarismi e formare un codice di abitudini e di regole condivise: una «lingua media» che ai tempi dell’Unità ancora non c’era, e alla cui formazione hanno contribuito tutte le regioni d’Italia.
   L’Unità non ha cancellato la molteplicità linguistica, l’ha anzi rinsaldata in un vivido mosaico. Siamo diventati italiani senza rinnegare il passato, le tradizioni, le diversità. Decisivi, come si sa, gli apporti dei non toscani, dei «periferici» nei quali la padronanza dell’italiano non fu mai, in passato, del tutto disinvolta: anche tra coloro che nell’800 contribuirono a fare l’Italia. Cavour, eletto nelle elezioni suppletive del 26 giugno 1848 alla Camera, si scusò di dover parlare in italiano, dal momento che la lingua ufficiale dei parlamentari era il francese, e in seguito continuò a mostrare qualche impaccio, come se traducesse da un’altra lingua. Agli stessi scrittori non toscani l’italiano appariva talvolta quasi «straniero», da impararsi sui libri: come al piemontese Alfieri, che s’era fabbricato un vocabolarietto tascabile, un quadernetto di Appunti dove su tre colonne appuntava nella prima il noto, la voce francese, nella seconda colonna l’altrettanto nota corrispondenza piemontese, nella terza l’ignoto, la voce italiana, che non sapeva e che voleva ricordare. Sui libri aveva dovuto approfondire la competenza, a suo dire lacunosa, dell’italiano lo stesso Manzoni, che alla ricerca della lingua aveva per studio sconciato un suo esemplare del Vocabolario della Crusca al punto «da non lasciarlo vedere», diceva, tant’era crivellato di postille, aggiunte, sottolineature e appunti presi per impossessarsi dei vocaboli e delle locuzioni ignote. Sapeva di avere a che fare con una lingua della letteratura troppo elitaria, codice poco naturale e non «vivo e vero», adatto per scrivere il primo romanzo nazionale.
   Ma era la lingua della conversazione che mancava. Manzoni lamentava l’uso dell’italiano approssimato che si parlava ai tempi suoi, privo del lessico più comune riferito alle occorrenze quotidiane e mescolato di inconsci dialettismi. Quando due italiani di diversa regione si incontravano, per conversare mancava loro la nomenclatura concreta.
   Comunque sia andata, noi ci riconosciamo però, da secoli, in questa grande ricca duttile nostra lingua italiana, il cui effetto aggregante ha contribuito, più di altri fattori, al riconoscimento di un’unità nazionale. Da noi per prima è venuta la lingua. Non c’era ancora la nazione, ma da secoli esisteva un’unità linguistico-letteraria nazionale. La coscienza e la volontà di un’unione si è basata soprattutto su un valore culturale (la lingua della letteratura, la sua validità e la sua tenuta) che ha prefigurato sin dalle Origini un’unità immaginata e inseguita come un desiderio. La data d’inizio di quest’unità ideale è segnata da Dante quando nel De vulgari eloquentia prefigura un’Italia quasi compiuta come spazio geografico su cui la lingua del sì si sarebbe diffusa, una lingua letteraria fondata su un gruppo non solo di toscani,ma con alla base anche il gruppo meridionale dei siciliani già fioriti al tempo di Federico II, e un bolognese, Guinizelli. La parola letteraria già si distendeva su un’unità geografica e culturale prima che essa esistesse realmente. Soltanto dopo molti secoli si realizzerà compiutamente l’antico sogno di un Paese da costruire, inventato dalla genialità dei poeti e dei pensatori.

Stampa questa pagina Stampa questa pagina

 

 
 
 
 

WP Theme restyle by Id-Lab
/* */