COME AUMENTARE IL TASSO DI OCCUPAZIONE FEMMINILE, SUPERARE L’APARTHEID FRA PROTETTI E NON PROTETTI NEL MERCATO DEL LAVORO E ADEGUARE IL NOSTRO SISTEMA DELLE RELAZIONI INDUSTRIALI ALLE SFIDE DELL’ERA DELLA GLOBALIZZAZIONE
Intervista a cura di Patrizia Ginepri, pubblicata sulla Gazzetta di Parma l’11 marzo 2011, in occasione di un incontro pubblico nel quale i temi qui discussi sono stati al centro del dibattito
Scarica l’intervista in formato pdf
Cosa pensa dell’accordo sottoscritto dalle parti sociali che apre a forme di flessibilità per favorire la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro?
Certo, male non fa. Ma, se devo essere del tutto sincero, non mi sembra che contenga novità molto significative, né che sia destinato a produrre effetti molto incisivi rispetto alla situazione attuale.
Se vogliamo portare il nostro tasso di occupazione femminile al livello indicatoci come obiettivo dall’Unione Europea, cioè al 60% delle donne in età attiva, occorrono due cose un po’ diverse da quelle di cui si parla in questo accordo.
Quali?
Occorre innanzitutto attivare una rete di servizi alla famiglia del tipo di quella che funziona nei Paesi nord-europei: servizi per l’infanzia e per l’assistenza alle persone non autosufficienti. Inoltre occorre attivare gli incentivi giusti per aumentare l’offerta e la domanda di lavoro femminile: la differenziazione dell’imposta sul reddito di lavoro femminile rispetto a quello maschile può costituire una “azione positiva” efficacissima su questo terreno, perché l’elasticità della domanda e dell’offerta di lavoro femminile è molto più elastica rispetto al lavoro maschile.
Parlando di lavoro, è inevitabile pensare al precariato e alle giovani generazioni. Ci sono spiragli?
L’attuale regime di apartheid tra protetti e non protetti, che caratterizza il nostro mercato del lavoro, è la conseguenza diretta di un ordinamento del lavoro capace di applicarsi soltanto a metà della nostra forza-lavoro. Per superare questo dualismo occorre riscrivere un diritto del lavoro che sia realmente suscettibile di applicarsi a tutti. Si può pensare di lasciare la vecchia disciplina per tutti i contratti di lavoro stipulati prima d’ora; ma da qui in avanti, a tutti i nuovi rapporti si applica la nuova disciplina.
Lei, nella sua veste di senatore ha sostenuto un disegno di legge su questo fronte, ci vuole sintetizzare i contenuti e gli obiettivi di questo progetto?
E’ un progetto molto ambizioso, contenuto nei disegni di legge n. 1872 e 1873, dell’11 novembre 2009, firmato con me da altri 54 senatori. Mira a sostituire tutta la legislazione sui rapporti individuali e collettivi di lavoro oggi vigente con un nuovo Codice del lavoro semplificato, composto di soli 70 articoli, tutti scritti in modo estremamente semplice e facilmente traducibili in inglese. L’idea di fondo è che, se si escludono i casi classici di contratto a termine, tutti i nuovi rapporti di lavoro siano a tempo indeterminato; ma nessuno dei nuovi assunti sarà inamovibile: la protezione forte, di tipo tradizionale, sarà soltanto quella antidiscriminatoria. In cambio della libertà di licenziamento per motivi economici od organizzativi, l’impresa dovrà garantire ai lavoratori licenziati, con più di due anni di anzianità di servizio, un trattamento complementare di disoccupazione e un servizio di assistenza intensiva per la ricerca della nuova occupazione.
In molti si chiedono come potrà reggere il sistema pensionistico, visti i cambiamenti radicali del mondo produttivo e della società? Lei ha una ricetta?
I giovani di oggi rischiano di non accumulare l’accantonamento necessario per una pensione decente a causa dei rapporti di lavoro a bassa contribuzione che vengono riservati loro e, ancor più, a causa della scopertura contributiva che si determina per loro nel frequente passaggio da uno di questi rapporti di serie B o C all’altro. Se invece – come prevede il mio progetto – tutti d’ora in poi vengono assunti con il rapporto di lavoro di serie A, pur senza l’inamovibilità che oggi lo caratterizza, questo garantisce la necessaria copertura contributiva per gli intervalli tra un rapporto di lavoro e l’altro.
Dopo lo strappo della Fiat il tema delle relazioni industriali è al centro del dibattito. Quali sono le prospettive?
La vicenda Fiat segna una svolta molto importante nell’evoluzione del nostro sistema di relazioni industriali. E’ agevole prevedere che d’ora in poi si verifichi un netto spostamento del baricentro della contrattazione collettiva verso la periferia. Però il nostro diritto sindacale non è attrezzato per questo spostamento: occorrono regole chiare, che evitino che il contrasto insanabile tra i sindacati maggiori generi paralisi del sistema, come accade oggi.
A proposito di rappresentanza, lei che sindacato proporrebbe oggi?
Il disegno di legge n. 1872, cui ho accennato prima, prevede un meccanismo molto semplice di verifica della rappresentatività, distribuendo i rappresentanti in azienda in proporzione ai consensi raccolti da ciascun sindacato. Inoltre attribuisce alla coalizione maggioritaria il potere di stipulare contratti collettivi, anche al livello aziendale, e anche in deroga rispetto al contratto nazionale, con effetti vincolanti per tutti i lavoratori interessati; al sindacato minoritario, non più il potere di veto di cui oggi di fatto dispone, ma il diritto alla “voce” in azienda, cioè alla rappresentanza riconosciuta, in proporzione alla sua base di consenso.
La Marcegaglia sostiere che dovremmo prendere esempio dai tedeschi: più produttività per aumentare i salari. E’ d’accordo?
Del modello tedesco possiamo sicuramente prendere la struttura della contrattazione collettiva: in Germania il contratto collettivo nazionale funziona come disciplina di default, cioè si applica soltanto se non c’è un contratto collettivo stipulato da chi ne ha il potere a un livello più vicino al luogo di lavoro. Dovremmo anche imparare dai tedeschi il rigore nel distinguere tra integrazione salariale per i lavoratori sospesi, con prospettive ragionevoli di ripresa del lavoro, e disoccupazione. Da noi questa distinzione è molto labile: la Cassa integrazione viene largamente quanto impropriamente utilizzata per ritardare l’attivazione del trattamento di disoccupazione. Ma quello che dovremmo imparare dai tedeschi, più che ogni altra cosa, è il pragmatismo nell’affrontare i problemi del mercato del lavoro.