FINE VITA E DINTORNI: PERCHE’ CONCORDIAMO COL MAGISTERO CATTOLICO, MA NON CON LA CEI

MENTRE IL DISEGNO DI LEGGE SUL TESTAMENTO BIOLOGICO TORNA ALL’ORDINE DEL GIORNO DELLA CAMERA (DDL CALABRÒ), UN GRUPPO DI “CRISTIANI ADULTI” PROPONE UNA RIFLESSIONE CRITICA SUGLI  ORIENTAMENTI ESPRESSI IN PROPOSITO DALLA GERARCHIA CATTOLICA ITALIANA

Il testo che segue riproduce, con qualche taglio per motivi di spazio, un documento del movimento ecclesiale Noi siamo Chiesa, diffuso a Roma il 1° marzo 2011

   E’ in discussione alla Camera dei Deputati il c.d. testamento biologico (o disposizioni anticipate di trattamento, DAT, espressione usata da chi non vuole attribuire alla volontà dichiarata per il proprio fine vita un carattere vincolante). Essa tocca le cosiddette “questioni al limite” che sono state riproposte negli ultimi anni dai progressi della scienza medica. Nel nostro Paese, tale dibattito si è svolto sulla base di ideologismi e contrasti in gran parte nati da altre vicende. Si è così creata una contrapposizione, che sembra insanabile, tra l’etica della sacralità della vita biologica e l’etica della qualità della vita. Sono, al contrario, questioni cariche di risonanze su come vorremmo orientare la nostra società e la nostra vita, che andrebbero perciò affrontate con prudenza. A partire dalla nostra attiva presenza nella Chiesa cattolica, ci permettiamo qui di esprimere alcune riflessioni critiche sulle argomentazioni recentemente sostenute dalla Conferenza Episcopale Italiana, convinti che la mancanza di ascolto, all’interno e all’esterno della Chiesa, abbia dato luogo a prese di posizione non abbastanza meditate.  

   L’abbandono della linea del magistero: la “svolta” della CEI con i casi Welby ed Englaro
   Per confutare la confusione concettuale e terminologica diffusasi in questi mesi nelle campagne mediatiche, la cosa più efficace, oltre che la più “ortodossa”, ci sembra il rifarsi al paragrafo Eutanasia del Catechismo della Chiesa cattolica del 1992. Il par. 2276 di tale Catechismo scrive del rispetto particolare dovuto alle persone in condizione di minorità; il par. 2277 condanna esplicitamente l’eutanasia diretta che consiste nel mettere fine alla vita di persone handicappate, ammalate e prossime alla morte; il par. 2278 dovrebbe, da sé solo, inquadrare bene il problema. Ci pare efficace la definizione che vi si dà di accanimento terapeutico: esso esiste qualora comporti procedure mediche onerose, pericolose, straordinarie o sproporzionate rispetto ai risultati attesi. E così prosegue: l’interruzione di tali procedure può essere legittima. Non si vuole così procurare la morte: si accetta di non poterla impedire. Le decisioni devono essere prese dal paziente, se ne ha la competenza e la capacità, o, altrimenti, da coloro che ne hanno legalmente il diritto, rispettando sempre la ragionevole volontà e gli intereressi legittimi del paziente.�
   Il gesuita p. Mario Beltrami ha fatto una disamina rigorosa di questo paragrafo (“Il diritto di morire: un documento disatteso”, in Dolentium Hominum, n. 68/2008, Rivista del Pontificio Consiglio degli Operatori Sanitari per la Pastorale della Salute), sostenendo in particolare che esso trova il “suo fondamento non in motivazioni di fede religiosa, qualunque essa sia, ma in argomenti puramente razionali”. Nell’esame della sproporzione tra le procedure mediche e i risultati attesi, indicata dal paragrafo citato, il Beltrami implicitamente risolve il caso Englaro in modo opposto alla posizione ufficiale della Conferenza Episcopale Italiana. Egli scrive anche che “se si è chiamati a vivere con dignità, si deve anche poter morire con dignità” e afferma con forza a chi spetta decidere: il par. 2278 e l’approfondita analisi che ne fa il Beltrami ci sembrano la base per fondare una normativa sul testamento biologico largamente condivisibile da diversi orientamenti culturali ed etici.
   Il magistero successivo al Catechismo conferma una linea che, con scarsa avvedutezza, è stata poi  abbandonata a partire dalle note vicende relative ai casi Welby ed Englaro. Infatti l’autorevole Carta degli Operatori Sanitari del 1995, emessa dal competente Pontificio Consiglio per gli Operatori Sanitari, nei suoi paragrafi 119-121 riprende i contenuti del Catechismo. In particolare, idratazione e alimentazione, artificialmente amministrate vengono considerate “cure” che si possono sospendere quando risultino “gravose” per l’ammalato (par. 120, terzo comma). Ad esse bisognerebbe aggiungere la ventilazione forzata.
   Come reazione pacata alla campagna dei vertici della CEI è utile ricordare il documento dei professori Stefano Semplici, Carmelo Vigna e Gianpaolo Azzoni del Centro di Etica Generale e Applicata (CEGA). Essi mettono in guardia dalla “forzata e rischiosa trasposizione del bipolarismo del sistema politico in corrispondente bipolarismo bioetico, a sua volta interpretato nei termini della logora contrapposizione tra laici e cattolici”. “Non esiste il problema del fine vita, ma un fascio di questioni diversificate e complesse; bisogna ricercare “l’equilibrio tra due principi irrinunciabili dal punto di vista costituzionale: la tutela della vita come interesse della collettività … e la libertà con la quale ogni individuo decide il senso, l’orientamento della sua esistenza”. Il documento conclude che “occorre evitare che una sovraesposizione di casi-limite e questioni di forte impatto ‘simbolico’ funzionino da strategia elusiva delle responsabilità e delle urgenze più pressanti in tema di difesa della vita.”
   Nei confronti della “svolta” operata dai vertici, non sono mancate inoltre parole chiare e forti provenienti dalla base “cattolica”, anche se esse sono poco conosciute. 

   E’ necessaria una riflessione serena sulla  fine della vita
   Risulta poco comprensibile, negli interventi di parte ecclesiastica e nel ddl votato dal Senato nel marzo 2009 , l’accanita volontà di intervenire sulla  fine della vita da una parte con tecnologie sempre più sofisticate e invasive, dall’altra con interventi autoritari di tipo legislativo. Questi interventi puntano a impedire, in casi estremi, la dignità del morire, e soprattutto una vera libertà dell’ammalato nel poter veramente disporre di sé stesso, in particolare nel caso di perdita della conoscenza, attribuendo al personale medico un potere di decisione eccessivo (e non gradito).     Ciò ci sembra tanto più inaccettabile quando questa difesa della sopravvivenza ad ogni costo e con ogni mezzo viene da chi dovrebbe concepire la fine della vita come passaggio ad una condizione migliore.  A volte, nelle posizioni prolife ad ogni costo sembra quasi di trovarsi di fronte a una cultura materialista, ostile al compimento del cammino della creatura umana, attaccata alla prosecuzione a tutti i costi della vita terrena come se, oltre, non ci fosse nulla; mentre “il problema di fondo sta, in definitiva, nell’educazione sia della classe sanitaria sia dei singoli individui ad accogliere la morte come parte integrante della vita” (p. M. Beltrami).
   Le autorità ecclesiastiche, in Italia oggi, sembrano lontane da una riflessione religiosamente ispirata, ossessionate dalle cosiddette “derive di tipo eutanasico”; esse sarebbero la conseguenza dell’orientamento ormai prevalente nelle sentenze della magistratura, e dell’eventuale approvazione di una legge del tipo di quella proposta dal sen. Ignazio Marino, che noi troviamo invece equilibrata e completa. Il ddl Marino (firmato da altri 99 senatori), presentato al Senato il 29 aprile 2008, prevede una distribuzione delle competenze sul fine vita tra il testamento biologico del malato (che ha l’assoluta prevalenza), il fiduciario da esso nominato, i famigliari e il medico curante, fino al Comitato etico della struttura sanitaria e, in caso di dissenso non componibile, all’autorità giudiziaria. La proposta prevede quanto manca nel ddl Calabrò: interventi per organizzare una rete nazionale di strutture per cure palliative (hospices), modalità di prescrizione dei farmaci, norme sui LEA (livelli essenziali di assistenza) e sulla formazione del personale.

   Per un diverso rapporto con la cultura laica�
   Una questione di lunga data che poniamo alla nostra Chiesa, e che ha riflessi importanti nel rapporto con la società “laica”, è quella del rapporto tra norma etica e legge. Essa si ripropone continuamente per l’incapacità di ascoltare veramente le riflessioni che in merito hanno percorso tutta la storia dei cattolici democratici. La differenza tra peccato e reato, la legge come strumento per affrontare situazioni e conflitti e non per vincere battaglie ideali o ideologiche, la necessità della mediazione, una volta definito il quadro generale dei principi e dei valori (Costituzione), sono le costanti consolidate di una posizione culturale e ideale che meriterebbe finalmente di essere fatta propria da tutto il cattolicesimo italiano.
   Siamo convinti che la campagna avviata sul caso Englaro e ora in corso sulla legge in discussione alla Camera, e le demonizzazioni conseguenti, non servano alla società italiana e alla vera missione della nostra Chiesa. 

  I medici e il buon senso sono contro il disegno di legge Calabrò 
 
Non comprendiamo come si possa sostenere che l’idratazione e alimentazione di pazienti in stato vegetativo permanente non debbano essere considerate trattamento sanitario e debbano quindi sottrarsi alle indicazioni contenute nella DAT. Non si dovrebbe nemmeno ricorrere alle posizioni ufficiali delle società scientifiche, della Federazione Nazionale dell’Ordine dei Medici; dovrebbe essere sufficiente il semplice buonsenso dell’uomo della strada, debitamente informato.
   Ci chiediamo il perché dell’ossessionante insistenza dei vescovi e delle associazioni da essi promosse sul fatto che idratazione e alimentazione di persona in stato vegetativo permanente e definitivo sarebbero “sostegno vitale”, che non si devono sospendere e che sono tali quindi da non ricadere nella chiara nozione di accanimento terapeutico. Infatti, una terminologia che solitamente viene utilizzata nei documenti del magistero è quella di “morte naturale”: si dice sempre che la vita umana deve essere tutelata “dal concepimento alla morte naturale”. Ora è possibile ancora utilizzare il termine “morte naturale” a fronte di sistematici e diuturni interventi artificiali, non solo attraverso l’idratazione e  l’alimentazione forzate (enterale o parenterale), ma anche attraverso consistenti dosaggi di farmaci, altrettanto necessari, che vengono somministrati per le medesime vie? In termini cristiani, è pensabile che sia volontà del Signore, padrone della vita come usa dire, sostenere in maniera indefinita, artificialmente, una sopravvivenza solo di tipo biologico, che rimane, senza alternative, inchiodata alla prossimità dell’exitus

   Una legge sul fine vita è necessaria
   Per anni la linea dei vescovi è stata quella di ritenere inutile una legge sul fine vita, preferendo una situazione indeterminata in cui non ci fossero diritti e doveri ben definiti e senza procedure certe a cui fossero tenuti i soggetti coinvolti (personale sanitario, famigliari e pazienti). La svolta si è avuta nel luglio del 2008 in conseguenza della sentenza della Cassazione, dopo un interminabile iter giudiziario, sul caso Englaro. Il timore che il problema fosse risolto per via giurisprudenziale e in senso contrario alla posizione dei vescovi è ciò che ha portato al nuovo orientamento, che è stato deciso nel Consiglio Episcopale Permanente della CEI nel successivo settembre. Da allora questa posizione è diventata la linea della maggioranza di governo ed è stata conosciuta, da una larga parte dell’opinione pubblica, in relazione al caso Englaro. I contenuti del ddl Calabrò infatti sono del tutto omogenei alle sollecitazioni della CEI.
   Che una legge fosse necessaria da troppo tempo lo si diceva. Al di fuori delle ideologie, con le nuove possibilità terapeutiche in materia di respirazione, idratazione e alimentazione artificiali si è enormemente estesa l’area di discrezionalità (e di responsabilità non gradita), attribuita nei fatti, soprattutto nei reparti di rianimazione, al personale sanitario, spesso in condizione di solitudine. Si è così creata una “zona grigia” nel fine vita, in cui decisioni fondamentali di vita e di morte non si capisce perché debbano essere affidate, soprattutto in caso di incidenti, a medici e/o a famigliari, in modo quasi sempre improvvisato e casuale e con prassi del tutto diverse da presidio a presidio sanitario. 

   I testamenti biologici “autorganizzati”
   Nell’attuale vuoto legislativo (che in Europa esiste solo nel nostro paese) e come reazione alla possibile approvazione definitiva del ddl Calabrò, da quasi due anni molti si sono posti il problema di certificare la propria volontà a futura memoria nel caso di malattia che li privasse in modo permanente della coscienza. La raccolta autorganizzata di testamenti biologici è diventata operativa  per iniziativa di molte amministrazioni comunali e della stessa Chiesa valdese. Tre ministri (dell’Interno, della Salute e del Lavoro) hanno cercato di bloccare i Comuni con un’apposita circolare (del 19 novembre 2010), che risulta ridicola se si pensa che sono in gioco valori costituzionalmente garantiti. Anche nei confronti di queste iniziative spontanee si è attivata, con la consueta asprezza di toni, la campagna dei vertici ecclesiastici e dell’Avvenire

   La volontà del paziente
   Oltre a quella di ritenere “sostegno vitale” l’idratazione e l’alimentazione di un paziente in coma vegetativo permanente, l’altra conditio sine qua non per accettare una legge sul fine vita riguarda, per il Consiglio Episcopale della CEI, la volontà del paziente. Essa dovrebbe essere in qualche modo “controllata” o “condizionata” per evitare che si possa andare nella direzione della cosidetta “deriva eutanasica” (si veda l’art. 7 del ddl Calabrò, che consente al medico di disattendere le indicazioni contenute nella DAT). Ci sembra, invece, che bisognerebbe affrontare il problema in modo rovesciato, riflettendo sul ruolo della coscienza del soggetto interessato, che fonda il suo diritto all’autodeterminazione. E’ necessario ricordare quanto il primato della coscienza sia valore cristiano (Gaudium et Spes, Dignitatis Humanae)? Esso deve essere uno dei pilastri del nuovo modo di vivere il Vangelo dopo la riforma conciliare.
   Si ricorda, a questo proposito, la rilevante posizione assunta dalla Chiesa cattolica tedesca insieme con la Federazione delle Chiese evangeliche: nel 1999 (con alcune correzioni nel 2003), esse proposero congiuntamente a tutti i loro fedeli il Christliche Patientenverfugung (il cui testo può essere letto su www.ekd.de/patientenverfuegung/cpv_1). Questo testamento biologico “cristiano” è già stato sottoscritto, a quanto si sa, da quasi tre milioni di cittadini tedeschi, e le sue principali disposizioni sono quasi opposte a quelle sostenute dai nostri vescovi (e dal ddl Calabrò).
   Come è possibile allora che la Chiesa cattolica italiana si “appelli a Cesare” perché renda necessario erga omnes ciò che è ancora avvolto nel dubbio, anche al proprio interno? Come è possibile chiedere che venga dichiarato non vincolante “il consenso informato”, ormai da tempo, anche per il magistero tradizionale della Chiesa, oltre che per la deontologia medica, assunto indiscutibile? E come è possibile attribuire allo Stato un tale potere di interferenza nella vita, nella sofferenza e nel fine vita di tutti i cittadini, prescindendo dal loro consenso? 

   Fine vita e Costituzione
E’ stato molte volte detto che il ddl Calabrò contraddice articoli ben definiti della nostra Costituzione, tanto da fare ritenere probabile una futura censura della Consulta se non verrà modificato. Si tratta degli stessi articoli (2, 13 e 22) cui si è appellata la sentenza della Cassazione sul caso Englaro. Oltre all’art. 2 sui diritti inviolabili dell’uomo e all’art. 13 sulla proibizione di ogni violenza a persone sottoposte a restrizione di libertà, come sono quelle in stato vegetativo, il testo più esplicito è quello dell’art. 32, che vieta ogni trattamento sanitario obbligatorio, “se non per disposizioni di legge”, e comunque senza “in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana”.
 Sono esplicite in materia anche le convenzioni internazionali: la Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea (art. 3), la Convenzione sui diritti umani e la biomedicina promossa dal Consiglio d’Europa (sottoscritta a Oviedo nel 1997 e ratificata dall’Italia con la legge n. 145/2001) e la Dichiarazione universale sulla bioetica e i diritti umani del 2005 promossa dall’Unesco, che conferma il diritto all’autodeterminazione del malato e la protezione di quello incapace (artt. 5,6,7).
   In definitiva ci chiediamo perché i vescovi non sappiano accettare, con serenità, valutandone i contenuti umanistici (e quindi anche cristiani), questi articoli della nostra Costituzione, distorcendone il significato, avendo paura – si direbbe – della libertà e della dignità che essi attribuiscono alla persona, ipotizzando, nel caso in cui venga approvata una legge diversa da quella da loro auspicata, scenari di decadimento del senso della vita nella nostra società. 

   Conclusioni  
   Molte altre questioni riguardano il testamento biologico, come quelle relative alle modalità di manifestazione della volontà, al ruolo del fiduciario, dei medici coinvolti, dei famigliari, dei Comitati etici previsti presso le strutture sanitarie. Ci siamo concentrati sui due punti sui quali lo scontro si è sviluppato finora in Parlamento ed è pesante l’intervento dei vertici della CEI: la natura di alimentazione e idratazione forzate e l’efficacia delle DAT. Abbiamo cercato di motivare perché una riflessione, all’interno della nostra Chiesa e da cristiani “adulti”, seguendo la linea del magistero nei suoi documenti ufficiali, giunga a conclusioni ben diverse da quelle proposte dalla gerarchia ecclesiastica italiana.
   Vogliamo chiedere ai nostri Pastori un ripensamento su tutta la questione; vorremmo che essi facessero un passo indietro e che assumessero la linea del dialogo con la cultura “laica” e della ricerca di un terreno comune di fronte all’incalzare delle questioni poste dal progresso tecnico-scientifico, per arrivare infine a una legge di largo consenso.
   Siamo convinti che sarebbero ascoltati e che le loro preoccupazioni diventerebbero parte di un sentire comune, pur nel permanere di opinioni ancora diverse. Siamo convinti che, su una questione di così grande importanza, non ci debba essere il sospetto che l’obiettivo di ottenere questa legge sia perseguito mediante compiacenze o silenzi nei confronti di politiche odiose sotto altri profili (legge sulla sicurezza, silenzio sulla moralità pubblica, rottura delle regole della vita democratica, eccessiva remissività nei confronti di recenti gravi scandali, ecc.). E siamo convinti che nel mondo cattolico italiano vi sia una sproporzione tra l’accanito impegno in difesa della vita biologica e quello, inferiore, per i tanti in condizioni di grave sofferenza personale e sociale.
   Chiediamo che su tali questioni si apra nella nostra Chiesa una discussione a tutto campo, senza che nessuno sia etichettato a priori come ortodosso o come dissidente. Non esiste infatti un pensiero unico. L’assenza di dibattito e una linea autoritariamente decisa potranno forse, nel breve periodo, soddisfare bisogni di identità, o fragili convinzioni di principio, o, forse, ottenere una legge gradita. Ma siamo convinti che nel lungo periodo questa scelta sia perdente, sia dal punto di vista dell’annuncio dell’Evangelo sia dal punto di vista pastorale, e che lo scisma interno, già esistente nella nostra Chiesa, possa estendersi.

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