IL LIBRO DI ANTONIO PENNACCHI RIPORTA ALLA LUCE LE RADICI DI UN MODO VECCHIO DI INTENDERE E PRATICARE IL SINDACALISMO, CHE HA AVUTO I SUOI GIORNI DI GLORIA MA OGGI HA PERSO IL CONTATTO CON I SEGNI DEI TEMPI – NEL SUO LINGUAGGIO POETICO E VISIONARIO IL PROTAGONISTA AVVERTE GLI “AMICI E COMPAGNI”: E’ STATO BELLO, MA ORA E’ CAMBIATO TUTTO
Articolo pubblicato nella rubrica “Lettera sul lavoro” del Corriere della Sera, 5 marzo 2011
Caro Direttore, quel Benassa, il capo-operaio della Supercavi protagonista del Mammut di Antonio Pennacchi, mi sembra di conoscerlo da sempre. Anzi, ne ho conosciuti più d’uno. Negli anni ’70 – quando lavoravo al sindacato – ce n’era uno in ciascuna delle fabbriche grandi e medie del centro-nord. Era, come Benassa, quello che in fabbrica contava più del direttore del personale e anche più del sindacato. Era quello a cui il direttore con deferenza chiedeva consiglio sulle questioni più delicate e le cui proposte erano approvate sempre dall’assemblea. Era quello che alla trattativa sapeva tirare la corda fino al punto giusto, avendo le idee chiare su quale fosse il punto giusto e sapendo bene che alla fine a un accordo occorreva sempre arrivare. Era, in definitiva, quello che amava la sua fabbrica più di chiunque altro, compreso il padrone. Ma anche quello che con un cenno faceva fermare come d’incanto tutti i reparti. Perché all’epoca la forza formidabile del collettivo operaio si esprimeva nella capacità di bloccare istantaneamente la fabbrica in qualsiasi momento riprendendo il lavoro altrettanto istantaneamente mezz’ora dopo; e la mezz’ora di sciopero fatto in quel modo pesava al tavolo delle trattative incomparabilmente di più dello sciopero che oggi necessita, per avere qualche speranza di riuscita, di essere collocato al venerdì o al lunedì e di essere propiziato dal picchetto sulla porta, perché una volta entrati i lavoratori non li riprendi più.
Mammut è una celebrazione appassionata e autentica di quella stagione: dell’epopea della “conflittualità permanente” degli anni ’70. Ma al tempo stesso ne è una impietosa dissacrazione. Pennacchi, che quell’epopea l’ha vissuta in prima persona, non si limita a descriverla con profonda autoironia: ne mostra anche una crepa profonda che la percorre tutta, da cima a fondo.
E la sua crudeltà di scrittore arriva al punto di far passare la crepa dentro l’anima stessa del protagonista: fin dal prologo del romanzo compare una possibile grave ombra sull’onorabilità operaia di Benassa, il sospetto di quello che potrebbe essere il suo tradimento finale. A ben vedere, però, quello che può sembrare un tradimento del capo-operaio non è tale. Non è per bassezza morale che Benassa accetta di ritirarsi in cambio del denaro del padrone, ma perché – è lui stesso a dirlo ai “compagni e amici” nell’assemblea dell’addio, con un discorso appassionatamente distruttivo – non è più il tempo dello sciopero e dei blocchi stradali: per farsi sentire, i mezzi ora sono altri (“se non andiamo in televisione, qua non concludiamo un tubo”); e forse – alla fine del racconto siamo ormai negli anni ’90 – non è più neanche il tempo della centralità del collettivo operaio (“l’egemonia operaia? Ma per piacere… Siamo una classe estinta… Come il bisonte d’Europa. Come i mammut”). Insomma, Benassa non crede più nell’idea classista che ha mosso la parte maggiore del movimento sindacale nei vent’anni precedenti. È in grado di scorgere una nuova classe emergente, ma in modo talmente indistinto che nel suo discorso finale la equipara quasi a un popolo di extraterrestri, di lunari.
Nel romanzo di Pennacchi il vecchio sindacato non muore solo simbolicamente, con il suicidio di Cesare, il compagno di mille battaglie di Benassa: è proprio un’intera pagina di storia del movimento operaio che si chiude. E nel libro non se ne vede aprire una nuova. Perché Mammut è la storia di Benassa; e con il sindacalismo del terzo millennio Benassa non ha nulla a che fare.
Nell’era della globalizzazione, all’imprenditore che può andare a cercarsi la manodopera di livello medio-basso nei Paesi emergenti non ha più alcun senso rispondere con lo sciopero. La risposta sta nella capacità di attirare in casa propria il meglio dell’imprenditoria mondiale per produzioni di livello medio-alto; e per questo occorre un sindacato “intelligenza collettiva” dei lavoratori, capace di valutare i piani industriali più innovativi e – se la valutazione è positiva – di negoziare a 360 gradi e in inglese la scommessa comune con l’imprenditore che viene da lontano.
Mammut riporta alla luce le radici storiche di un modo vecchio di intendere e praticare il sindacalismo che sopravvive ancora in molte fabbriche e in molti servizi pubblici, ma che ha perso il contatto con i segni dei tempi. Nel suo linguaggio poetico e visionario Benassa avverte gli “amici e compagni”: è stato bello, ma ora è cambiato tutto. Riproporre oggi quell’epopea sarebbe pura follia.