LE RICERCHE DISPONIBILI DIMOSTRANO CHE LE RESTRIZIONI IN INGRESSO AUMENTANO GLI INGRESSI CLANDESTINI O COMUNQUE IRREGOLARI E CHE INVECE LA POLITICA PIU’ REDDITIZIA CONSISTE IN UN GOVERNO SELETTIVO DEI FLUSSI, CHE DEVE ESSERE CONDIVISO DA TUTTI I PAESI DELL’UE – L’ITALIA POTREBBE SVOLGERE UN RUOLO IMPORTANTE NEL DELINEARE E ATTIVARE QUESTO IMPEGNO COMUNE
Articolo di Boeri Tito, pubblicato su la Repubblica il 17 febbraio 2011
Da tre giorni non ci sono più sbarchi di disperati sull’isola di Lampedusa. Ma secondo il ministro Maroni il flusso è comunque in aumento ed è destinato a portare in poco tempo sulle nostre coste 80.000 persone in cerca di asilo.
Sono persone provenienti dai paesi del Nord Africa in rivolta contro i regimi totalitari. Non è dato sapere come il Ministro sia arrivato a questa stima. È tuttavia significativo che si tratti più o meno dello stesso numero di rifugiati evacuati dalla Macedonia e trasportati in Germania, Norvegia e Turchia dopo la guerra in Kosovo in quella che è stata sin qui la più grande operazione di “burden sharing“, condivisione dell’onere umanitario fra paesi, di fronte ad un’emergenza umanitaria. Oggi il governo italiano, proprio in nome del burden sharing, chiede all’Europa di farsi carico del problema degli sbarchi a Lampedusa, non solo contribuendo ai costi del pattugliamento delle nostre frontiere, come sta già facendo con Frontex, ma anche offrendo ospitalità almeno a una parte dei rifugiati arrivati sulle nostre coste. Abbiamo chiesto all’Ungheria, presidente di turno dell’Unione, di convocare un vertice straordinario per stabilire i termini e le modalità di questa ripartizione degli oneri legati all’accoglienza dei rifugiati e all’accettazione delle domande di asilo. Si noti che molti rifugiati sembrano comunque intenzionati a lasciare il nostro paese. Lo si evince dalle dichiarazioni raccolte sul campo dagli inviati dei giornali e soprattutto dal fatto che normalmente i rifugiati politici, come gli altri immigrati, tendono a concentrarsi nelle aree in cui risiedono già molte persone che parlano la stessa lingua e che hanno la stessa nazionalità. Oggi le più forti concentrazioni di tunisini e cittadini del Nord Africa si trovano altrove, principalmente in Francia e Spagna.
È giusto chiedere l’intervento dell’Europa, ma bisogna farlo in modo coerente e guardando al di là dell’emergenza. La richiesta italiana difficilmente troverà ascolto nell’opinione pubblica di grandi paesi, come la Germania, abituati ad accogliere più di 10 volte i rifugiati politici che sono oggi da noi. Lo troverà ancor di meno in piccoli paesi, come la Norvegia, l’Olanda e la Svezia che hanno ricevuto negli ultimi vent’anni flussi di persone in cerca d’asilo fino a 15 volte superiori ai nostri, in rapporto alla popolazione residente. Bisogna soprattutto sapere cosa chiedere all’Europa. Oggi non c’è traccia di questa consapevolezza nelle prese di posizione del nostro esecutivo: c’è solo una generica ed estemporanea richiesta di aiuto. Anche nell’ipotesi in cui venisse raccolta, servirà a poco. L’Europa può infatti fronteggiare in modo efficace crisi di questo tipo solo se si da per tempo strumenti adeguati per gestire le politiche di asilo, integrandole più strettamente con le politiche di immigrazione.
Cosa chiedere dunque all’Europa? Innanzitutto una serie riforme delle politiche d’asilo. Non si può più gestire il problema dei rifugiati politici come se fosse un problema a se stante, di natura diplomatica, nettamente separato dall’immigrazione di chi cerca un lavoro. I confini fra i due tipi di flussi sono spesso molto labili e l’andamento delle domande di asilo sembra rispondere di più a fattori di natura economica (come la disoccupazione o il reddito pro-capite nel paese di destinazione), che alla presenza di guerre o regimi dittatoriali nel paese d’origine. Inoltre un errore molto grave delle politiche d’asilo seguite sin qui in Europa è stato quello di impedire ai rifugiati politici di lavorare e di scegliere dove risiedere all’interno di un paese. La ratio di queste misure è che si vuole scoraggiare un eccessivo numero di domande d’asilo. Ma i risultati sono del tutto controproducenti. Diverse ricerche documentano come restrizioni di questo tipo non contribuiscano affatto a scoraggiare gli abusi. Al contrario, impedendo di lavorare a chi si è visto accettata la domanda d’asilo si ritarda l’integrazione economica degli immigrati, aumentando al contempo il peso fiscale dell’immigrazione sulla popolazione autoctona. Studi recenti condotti da Francesco Fasani e da alcuni economisti inglesi mostrano come i rifugiati politici, costretti a vivere di modesti trasferimenti statali, impossibilitati a lavorare e obbligati a risiedere in aree prestabilite, non scelte da loro, tendano a essere più facilmente coinvolti nella micro-criminalità degli altri cittadini, inclusi gli immigrati che non hanno statuto di rifugiato. È una lezione importante di cui dovremo comunque tenere conto. Volenti o nolenti, ci troveremo nei prossimi anni a gestire una popolazione di rifugiati politici superiore alle 55.000 persone che si sono viste sin qui riconoscere l’asilo in Italia. È una lezione importante anche per le nostre politiche di immigrazione più in generale. Se “lasciati liberi di lavorare”, gli immigrati sono una grande risorsa, quando invece si vuole rendere la loro vita insensatamente difficile (con restrizioni all’ingresso, alla durata della loro permanenza, al rinnovo dei permessi di soggiorno, al cambiamento di lavoro, etc.) si corre il rischio di convincere almeno parte di loro, che la microcriminalità può essere più allettante di un inserimento lavorativo regolare reso troppo complicato dalla legislazione vigente. Il coordinamento delle politiche di asilo e di quelle migratorie dovrebbe, inoltre, basarsi su criteri trasparenti e condivisi. Oggi diversi paesi europei si avviano ad introdurre sistemi a punti in grado di stabilire priorità ben definite nel concedere permessi di soggiorno e di lavoro. Questi sistemi vengono spesso utilizzati per favorire l’immigrazione qualificata, di persone maggiormente istruite e in grado di integrarsi più facilmente nel paese che li accoglie. Nulla vieta di introdurre in questo ambito anche considerazioni di natura umanitaria garantendo accesso prioritario a cittadini di paesi coinvolti in guerre civili o comunque provenienti da paesi in cui la popolazione civile è stata vittima di ripetuti episodi di brutalità, tortura e incarcerazione arbitraria. Controllo comune delle frontiere, politiche di asilo integrate con quelle dell’immigrazione economica e basate su principi trasparenti, come nei sistemi a punti, possono diventare i cardini di una politica europea dell’immigrazione. Il nostro governo dovrebbe attivamente contribuire a questo processo di riforma e, allo stesso tempo, di coordinamento tra paesi perché, essendo paese di frontiera, ne possiamo beneficiare più degli altri. Se lo facesse allontanerebbe anche il sospetto che stia agitando lo spettro degli sbarchi in massa a Lampedusa per raccogliere consensi in vista delle prossime elezioni.