LA LAICITÀ COME METODO

IL METODO NECESSARIO PER LA COOPERAZIONE TRA PERSONE DI BUONA VOLONTA’ NELLA COSTRUZIONE DEL BENE COMUNE CONSISTE NEL RICONOSCIMENTO DELL’AUTONOMIA PROPRIA DELLA SFERA POLITICA E DI QUELLA TECNICO-SCIENTIFICA, DUNQUE NELLA RINUNCIA DA PARTE DI TUTTI, CREDENTI E NON CREDENTI, A FAR VALERE PROPRIE VERITA’ RIVELATE SUL TERRENO DELLE SOLUZIONI PRATICHE AI PROBLEMI DELLA CITTA’ DELL’UOMO

 Passi tratti dalla relazione di Augusto Barbera, tenuta all’Università di Bologna nell’ambito del Cortile dei gentili – Spazio di dialogo fra credenti e non credenti, promosso dal Pontificium Consilium de cultura, il 12 febbraio 2011 – testo provvisorio

1. L’incontro tra movimento liberale e pensiero cristiano
   Tra la fine dell’Ottocento e i primi decenni del secolo scorso, i movimenti antitemporalisti e i movimenti politici cristiano-sociali, cresciuti in varie parti dell’Europa continentale, avrebbero facilitato, dopo i drammatici scontri del passato, un incontro fra il pensiero liberale e quello cristiano. Il primo sempre meno su posizioni pregiudizialmente ostili alle fedi religiose. Il secondo progressivamente arricchito in senso liberale prima dalle allocuzioni papali degli anni trenta, poi, in modo definitivo, dal Concilio ecumenico Vaticano II, partendo dal concetto di libertà religiosa ed estendendosi a tutto il sistema delle libertà civili e politiche.  �
   Negli anni trenta decisivo sarebbe stato, per il superamento del conflitto, il contributo dei movimenti personalisti, soprattutto in quella Francia repubblicana che più di tutte aveva vissuto, dopo la Rivoluzione, la scissione fra libero pensiero e cattolicesimo. Grazie in particolare ad Emmanuel Mounier e alla rivista Esprit da lui fondata agli inizi degli anni trenta, e a Jacques Maritain – come anche in Germania grazie a Paul Ludwig Landsberg (martire in un campo di sterminio nazista ) e allo stesso Max Scheler – il richiamo alla “persona” si sarebbe affermato come visione realistica dell’uomo in contrasto e in alternativa sia all’ individualismo liberale sia ai totalitarismi nazionalisti e collettivisti, che proprio in quegli anni sembravano trionfanti. Si ponevano così le basi per superare la scissione fra la persona concreta e l’idea della stessa, recuperando l’unità che era stata bandita dalle filosofie razionaliste.

   2. I diritti della “persona” nelle Costituzioni del secondo dopoguerra e nelle Dichiarazioni internazionali
   Attorno ai valori della persona si sono costruite le Costituzioni di questo secondo dopoguerra, prime fra tutte la Costituzione italiana del 1948 e quella tedesca del 1949; se nelle Costituzioni liberali il fondamento era da rinvenirsi nel binomio proprietà-libertà, nello “stato costituzionale” del secondo dopoguerra (dopo la parentesi di Weimar) esso viene sempre più rinvenuto nella dignità e nella libertà della “persona”, nella concretezza della stessa rispetto all’individuo astratto e isolato, nella tutela dei diritti sociali accanto ai diritti politici e civili.  �
   La Repubblica italiana fin dall’art. 1 della Costituzione è fondata sul lavoro perché è il lavoro che assicura la piena dignità alla persona, chiamata a proseguire la creazione del mondo e non a soffrire una maledizione biblica. Essa, inoltre, riconosce nell’art. 2 i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità (vedendo in queste ultime tuttavia non solo il mezzo attraverso cui la persona acquista una dimensione responsabile, ma nello stesso tempo un possibile mezzo di oppressione della persona stessa di fronte a cui predisporre le necessarie tutele). Per rendere effettivi tali diritti la Repubblica è altresì impegnata a garantire la pari dignità sociale e a rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che impediscono il pieno sviluppo della persona umana, in particolare attraverso il riconoscimento di quei diritti sociali che rappresentano una nuova frontiera del costituzionalismo del Novecento (da ultimo, con riferimento espresso a quest’ultimo obbiettivo, la sentenza n. 80 del 2010 della Corte costituzionale, a proposito del diritto all’istruzione dei disabili).  �
   Non è privo di significato che a questa architettura abbiano contribuito, nella stessa scrittura delle norme, personalità così diverse, cattolici come Giorgio La Pira e Giuseppe Dossetti e marxisti come Lelio Basso, con il contributo di Aldo Moro e Palmiro Togliatti, uniti nella formulazione delle disposizioni normative, anche se distinti – come tenevano a sottolineare – per le retrostanti “motivazioni spirituali”. E’ anche significativo che i cattolici impegnati nella Costituente siano riusciti a sottrarsi alle pressioni di taluni ambienti vaticani che premevano per un testo costituzionale meno liberale, quale sarebbe risultato da un progetto preparato dai gesuiti di “Civiltà cattolica”.
   Accenti ancora più marcati nella Costituzione tedesca, nella quale dichiarato è l’intento di prendere le distanze dal formalismo positivista. Costruita da una Assemblea (come recita il Preambolo), “consapevole della propria responsabilità davanti a Dio e agli uomini”, ruota attorno alla Menschenwürde, alla dignità della persona e alla frei Entfaltung der Persönlichkeit, allo sviluppo della persona stessa riconosciuta come cardine dell’ordinamento giuridico, sottolineando così il ripudio delle teorie che avevano distinto i Menschen dagli Untermenschen.
   I diritti fondamentali si fondano sulla dignità umana e non è sufficiente per la Costituzione tedesca l’inverso: far discendere la dignità umana dal riconoscimento di diritti inviolabili.
   Le costituzioni italiana e tedesca hanno poi rappresentato, come è noto, un modello per le principali costituzioni del secondo dopoguerra: negli anni ottanta, dopo la caduta dei regimi fascisti (Spagna, Portogallo) e, negli anni novanta, dopo il crollo di quei regimi comunisti che avevano preteso di annullare i diritti della persona di fronte allo Stato e al Partito unico.�
   Nella stessa direzione si sono mosse le sempre più numerose dichiarazioni universali dei diritti dell’uomo, fin dalla Dichiarazione dei diritti del 1948 e dai due successivi Patti sui diritti civili e sociali del 1966, che del costituzionalismo liberaldemocratico rappresentano la proiezione esterna.

   3. I “nuovi diritti”: il pericolo di un nuovo scontro
   Alla fine degli anni ottanta, nel giro di pochi decenni, divengono sempre più numerose, e spesso clamorose, le novità nell’applicazione delle conoscenze scientifiche, soprattutto nella genetica e nelle biotecnologie, fino a creare in laboratorio le condizioni della vita o fino a spostare le stesse frontiere fra la vita e la morte. A queste si aggiungono i fenomeni di globalizzazione e i processi di multi-culturalizzazione. Fenomeni tutti, in breve, che hanno più volte messo in gravi difficoltà gli schemi costruiti dal costituzionalismo liberaldemocratico, già sollecitati dalla crescita di soggettività femminile e giovanile della fine degli anni sessanta. Da qui i ripetuti tentativi di individuare diritti non espressamente sanciti nelle costituzioni, spesso costruiti sulla base di forzati rimandi multilivello a Carte europee e internazionali.�
   Nel tentativo di rispondere alle spesso drammatiche domande che tali innovazioni sollevano, rischia di spezzarsi quella convergenza fra il costituzionalismo liberale e il pensiero cattolico che ho prima sottolineato; quella sintesi che ha costituito la parte più viva del costituzionalismo liberaldemocratico del secondo dopoguerra.
   Le risposte a tali innovazioni non sono facili ma sono in grado di innescare conflitti anche aspri, come ci ricordano le non lontane vicende del referendum sulla fecondazione assistita o le tensioni innescate dalla proposta di riconoscimento delle unioni omosessuali o, da ultimo, le angoscianti vicende legate ai casi di Piergiorgio Welby o di Eluana Englaro (casi, peraltro, assai diversi fra loro ma appiattiti nella polemica politica e mediatica: perché il primo era in grado di esprimere una volontà, per la seconda invece si è dovuta ricostruire una volontà).�
   Sono questioni, peraltro, che pongono problemi spesso inediti per la scienza giuridica. Le Corti costituzionali, con una tecnica importata dalla Corte Suprema degli USA, fanno ricorso al bilanciamento fra diritti. Significativa sotto questo profilo la sentenza (n. 27 del 1975) con cui la Corte costituzionale italiana richiese il bilanciamento fra il diritto alla vita del nascituro e il diritto alla salute della madre (ma così anche la storica sentenza della Corte Suprema Roe vs. Wade del 1973). E in alcuni casi il bilanciamento non sarebbe difficile realizzarlo: ad esempio fra il diritto al matrimonio di coppie omosessuali e la tutela dell’istituto familiare si è tentata la strada (finora però senza successo in Italia) del riconoscimento delle così dette unioni civili (in questo senso sembra del resto spingere una recente sentenza della Corte costituzionale, la n. 138 del 2010).
   In altri casi le operazioni di balancing si complicano perché richiedono una risposta a domande complesse, che più volte ci siamo posti in questi anni. Alcune riguardano l’inizio della vita: fino a che punto può spingersi la libertà della ricerca scientifica e dove interviene il limite della dignità dell’embrione (“essere umano” ma non “persona” per la Corte di Strasburgo: caso Vo vs.  France del luglio 2004)? come bilanciare il diritto alla procreazione per via eterologa con il diritto dei figli alla identità biologica e ad un equilibrato sviluppo psichico? come bilanciare il diritto a procreare e la lesione della dignità di quelle donne il cui utero è preso in affitto? può essere limitato il diritto all’obiezione di coscienza dei medici allorché in determinate strutture sanitarie sia necessario garantire l’accesso alle pratiche di interruzione della maternità?
   Altre riguardano il limite estremo della vita: esiste il diritto disporre della propria vita e quindi a porre fine alla propria vita? fino a che punto può spingersi l’accanimento terapeutico? entro che limiti ammettere il testamento biologico? rappresentano forme di accanimento terapeutico l’alimentazione e l’idratazione forzate?
   Ed ancora: si può intervenire con tecniche invasive nei confronti di chi pratica uno sciopero della fame e della sete (viene alla memoria il caso di Bobby Sands, che nel maggio 1981 si lasciò morire per la causa irlandese)? come bilanciare la scelta religiosa del Testimone di Geova e il diritto alla salute del minore cui deve essere praticata una emotrasfusione (o dello stesso Testimone che sia in stato di incoscienza)?
   In questioni così eticamente sensibili è assai arduo rinvenire una visione comune a tutte le componenti della società (tanto che la Corte di Strasburgo, pur così attiva in altri ambiti, si è fin qui tenuta lontana dalle questioni che attengono all’inizio e al fine vita, ricorrendo al “margine di apprezzamento nazionale”). Salvaguardare il pluralismo nella sfera pubblica, cercando di salvaguardare insieme le posizioni di credenti e non credenti, è compito alto di una politica che voglia definirsi laica. 

   4. Un metodo laico
   Ma che significa laicità? Diversi i volti della laicità. In un mio saggio ( 2008) ho messo in rilievo diversi volti della stessa:
1) innanzitutto essa è autonomia del diritto dai precetti religiosi, in antitesi alle “Religioni del libro” (islamica ed ebraico-ortodossa) che fanno derivare puntuali regole giuridiche dal Corano o dal Pentateuco;
2) può, inoltre, essere vista come autonomia del potere politico dalle ingerenze ecclesiastiche, in antitesi a concezioni teocratiche o confessionali;
3) può viceversa essere vista come libertà delle Chiese dall’ingerenza temporale attraverso le varie espressioni storiche del “giurisdizionalismo”, dal “regalismo” al “gallicanesimo” al “giuseppinismo” alle più recenti “chiese patriottiche”;
4) può, ancora, intendersi come affermazione del pluralismo religioso di contro a confessioni di stato, come aspetto di un più ampio pluralismo dei valori;
5) può intendersi come esclusione della religione dalla sfera pubblica, relegata nel privato (è la laïcité de combat, secondo una tradizione, sia pure in via di lento superamento, del solo costituzionalismo francese; concezione che talvolta affiora nella giurisprudenza della Corte europea dei diritti a proposito della presenza di simboli religiosi nelle scuole o allorché ha giustificato forme di divieto, in taluni paesi, del velo islamico);
6) può essere vista, infine, a prescindere dal riferimento immediato alla dimensione religiosa, come rifiuto dello Stato etico, che tende a subordinare la libertà dell’individuo a verità e ideologie di stato.�
   Ai predetti significati della laicità si può aggiungere un altro significato che possiamo così definire: laicità come metodo, un metodo in grado di accomunare non credenti e credenti e di realizzare le condizioni per la coesistenza fra valori e progetti di vita contrastanti; in primo luogo il rifiuto di fondamentalismi e di chiusure dogmatiche contrapposte. Il metodo laico – a differenza delle sopracitate definizioni della laicità – non è una categoria giuridica, ma è regola per fare coesistere e dialogare fra loro tutte le fedi e tutte le dottrine, è un processo che di per sé, anche a prescindere dai risultati conseguiti, assicura il loro mutuo rispetto e la loro reciproca comprensione.�
   Come sottolinea Jürgen Habermas, in queste materie non devono scontrarsi ragioni assolute ma vanno operati, da parte di credenti e non credenti, in forma “discorsiva”, bilanciamenti ispirati a criteri di “accettabilità razionale”, vale a dire di “ragionevolezza”e di “proporzionalità”. Nei suoi scritti Habermas va al di là della “clausola condizionale” (“Proviso”) che Rawls aveva posto per un dialogo fra credenti e non credenti, cioè che essi trovassero in comune il linguaggio della politica. Per Habermas i laici devono produrre lo sforzo di tenere conto del linguaggio e dei valori delle fedi religiose, in quanto integrabili nei valori della comunità o in quanto non nettamente contrastanti con essa (non quindi l’indissolubilità del matrimonio – traduco io – ma il rispetto dei simboli religiosi, compreso il crocefisso, o le festività).
   Vi può essere – è un punto che intendo qui sottolineare – un metodo e un atteggiamento laico in chi è credente e vi può essere, viceversa, un atteggiamento non laico da parte chi, pur professandosi laico, pretende di imporre come assolute pretese verità. Seguire un “metodo laico” significa mantenere il pungolo del dubbio e non adagiarsi sulle chiusure dogmatiche che sono proprie non solo delle religioni vissute acriticamente ma anche di talune ideologie giuridiche individualiste. Il metodo laico richiede, in breve, il senso del limite, spirito critico (e autocritico) e misura nel giudicare.  �
   Chi è laico – se è un intellettuale, e non un “ideologo” – anche se ha la fortuna di possedere certezze interiori, deve essere aperto alle ragioni degli altri, sapendo che l’accesso alla verità è per definizione sempre imperfetto e che nessuno deve pretendere di possedere, nella sfera pubblica, le chiavi per una verità certa e condivisa. E’ un atteggiamento che si impone ancor più di fronte al mistero della vita, laddove la scienza non è in grado di dare tutte le risposte necessarie. Tutto ciò non implica necessariamente relativismo, eclettismo, indifferentismo, ma è il presupposto per un dialogo fra posizioni etiche diverse.

   5. Il principio di maggioranza (e i suoi limiti)
   I valori della laicità sono strettamente legati con i principi del costituzionalismo liberaldemocratico per il quale la principale tecnica di adozione delle decisioni politiche è il principio di maggioranza. Esso affida le decisioni politiche alla maior pars, lasciando ai margini altre tecniche, sia il principio di unanimità sia, soprattutto, il criterio della sanior pars. In base a questo ultimo criterio la decisione è lasciata alle persone investite di una autorità derivante o da una autorità scientifica o da un carisma o da una condizione sacerdotale. E’ quest’ultima, infatti, la tecnica di decisione prevista all’interno della Chiesa cattolica o in talune nazioni islamiche o nei collegi che svolgono attività di ricerca scientifica.�
   Il principio di maggioranza è invece la conseguenza sia del riconoscimento della eguaglianza dei cittadini sia di un fondamentale principio liberaldemocratico, in base al quale nessuno, nella sfera pubblica, può considerarsi portatore di verità assolute, ma solo di visioni parziali della verità. Chi è portatore di verità assolute, e quindi non negoziabili, difficilmente accetterà di restare in minoranza sulla base della conta dei voti e della prevalenza della maior pars.�
   Il ricorso al principio di maggioranza è dunque l’unica risorsa possibile per la convivenza all’interno di una comunità politica. Vi è tuttavia un limite da tenere presente. La delicatezza della materia trattata, relativa a valori essenziali per la comunità, richiede che le varie maggioranze, anche laddove le norme costituzionali dovessero consentirlo, non possono annullare completamente le ragioni delle minoranze; devono appunto adottare un “metodo laico”. Vi è, infatti, una condizione epistemologica da soddisfare, insita nel principio stesso di maggioranza. Essa è soddisfatta solo quando la decisione adottata a maggioranza conclude un procedimento che ha preliminarmente sottoposto a vaglio critico gli elementi che concorrono alla decisione stessa, al fine di testarne la validità e di consentire un confronto fra le varie opinioni. E’ l’etica della “discussione ” cui prima mi riferivo. Mi rendo conto che essa è un’etica che può restare a un livello “formale”, ma è l’unico strumento che ci è dato per raggiungere nella sfera pubblica una comprensione dialogica delle rispettive convinzioni morali.�
   Ho parlato di principio di maggioranza: nulla a che vedere con i principi delle democrazie “maggioritarie” contrapposte a quelle “consensuali” o proporzionalistiche (precisazione ovvia ma non così scontata in alcuni recenti scritti!).�
   Dicevo prima che si rischia di spezzare il felice incontro fra il costituzionalismo liberale e il personalismo cristiano. Non aiutano ad evitare un simile risultato sia talune posizioni così dette laiche sia talune posizioni di credenti. Le prime, quelle laiche, allorché individuano diritti di libertà in ogni bisogno o in ogni aspirazione soggettiva; allorché, in breve, ritengono frutto di “proibizionismo” qualunque tentativo di imporre limiti e regole alla libertà di autodeterminazione, considerata come un assioma indiscutibile. Le seconde, quelle dei credenti, allorché pretendono di imporre, attraverso le norme giuridiche, anche a chi credente non è, i propri convincimenti e i propri comportamenti etici.�
   Mi limito a due esempi, che a me paiono “casi limite”.  �
   Primo esempio. Da parte laica non vedo argomenti a favore della fecondazione eterologa che non si risolvano nella difesa della libertà di procreazione in quanto tale, escludendo il bilanciamento con altri valori. Lascia assai perplessi non solo il non tenere conto del diritto alla identità biologica del nascituro; non solo l’ipocrisia del concetto di “donatore” che spesso nasconde forme di mercificazione, talvolta anche in chiave eugenetica, ma persino il sacrificio di terzi coinvolti, sia esso un donatore di seme o una donatrice di ovociti.
   Penso per esempio alla recente notizia di un noto cantante inglese (Elton John) e di un suo compagno, che per soddisfare il loro bisogno di genitorialità hanno fatto ricorso all’affitto dell’utero di una ragazza. Alcuni commentatori non hanno mancato di sottolineare questa nuova frontiera per le coppie omosessuali – “nascere per contratto” (Shalev) – ma non sembrano sfiorati dal dubbio per la grave offesa inferta alla dignità di madre di quella ragazza, il cui grembo è stato preso in affitto (pratica sempre più frequente sfruttando la situazione di bisogno di ragazze dei paesi poveri, dell’India in particolare, ove sono fiorenti alcune cliniche specializzate). Il silenzio dei movimenti femministi sul tema è assordante (per quanto almeno a mia conoscenza).�
   Secondo esempio. Da parte cattolica non vedo sforzi significativi per sottoporre a vaglio critico la perdurante avversione verso le campagne a favore dell’uso dei profilattici nei paesi del terzo mondo, essenziali per contenere la diffusione dell’Aids, mentre vedo chiuso lo spiraglio che sembrava aperto in una recente intervista del Pontefice (Luce del mondo).�
   Nel primo esempio la libera determinazione della coppia è assunta come un indiscutibile valore assoluto, nell’altro esempio il richiamo non meno dogmatico a una dottrina – enunciata da Paolo VI nel n. 14 dell’enciclica Humanae Vitae – che non riesce a spiegare razionalmente perché l’uso di detto contraccettivo sarebbe moralmente inaccettabile, e quindi vietato, mentre sarebbe consentito il complesso calcolo dei giorni infecondi. Il richiamo alla necessità che l’amore coniugale”rimanga sempre aperto alla vita” (Istruzione Dignitas personae, punto 6) sembra in contraddizione con il principio di responsabilità delle persone e più legato a un astratto ordine naturale, alla “fisicità ” del dato biologico, e rischia di porsi in contraddizione con il concetto stesso di “persona” e quindi con le condizioni concrete della singola coppia.  �
   Ogni divieto – è un punto fondamentale di ogni sistema etico – si giustifica sulla necessità di tutelare un “bene morale”; bene che qui non riesco a intravvedere, mentre anzi rischia di essere messa gravemente in pericolo la salute delle persone (che non può non costituire un “bene” da tutelare).�
   Anche le vicende che hanno accompagnato l’approvazione della legge sulla fecondazione assistita possono essere eloquenti per quanto riguarda il rispetto del principio di maggioranza, sia da parte di laici sia da parte di credenti. Tale principio non è stato rispettato da parte di coloro che – per esempio alcuni autorevoli ginecologi o taluni movimenti femministi – non volevano alcuna legge, preferendo la libertà assoluta e contestando la legittimazione del Parlamento a decidere, ritenendo così (a torto o a ragione) che si ponessero vincoli sia alla ricerca scientifica sia alla libertà femminile. E non è stato rispettato da parte di chi – fra questi la stessa Conferenza episcopale italiana – pur avendo responsabilmente accettato, all’atto della discussione e approvazione della legge, la regolamentazione di pratiche di fecondazione assistita (in linea di principio esclusa dalla dottrina cattolica), ha puntato, con il metodo ostruzionistico (con metodo da tempo praticato anche da partiti politici), al non raggiungimento del quorum, per evitare che gli elettori, in una libera consultazione referendaria, potessero andare al di là del compromesso parlamentare. Ben diversa era stata negli anni settanta la posizione cattolica a proposito delle consultazioni referendarie su divorzio e interruzione della gravidanza, peraltro promossi da organizzazioni cattoliche.�
   Capisco, anche se non condivido, la contrarietà alla crioconservazione degli embrioni, che, pur se non “persone”, hanno la “dignità di persona”, ma non comprendo – lo dico in modo sommesso non avendo la necessaria competenza scientifica – perché la predetta Istruzione si pronunci anche contro la crioconservazione degli ovociti.   

   6. Un “moderno habeas corpus“?
   A mettere in discussione il principio di maggioranza e ad alimentare forme di fondamentalismo laico concorre un’impostazione teorica, con effetti di tipo “libertario”, volta a individuare nel nostro sistema costituzionale un generale e indistinto diritto di libera auto-determinazione dell’individuo – un generale diritto all’auto-determinazione, definito “libertà morale”, espressione di una “sovrantà su di sé”, progressivamente declinato in varie direzioni, dalla più innocente “auto-determinazione informativa”, alla più impegnativa “auto-determinazione biologica”, dalla più pacifica “auto-determinazione terapeutica” fino al “diritto a togliersi la vita”. Un “diritto alla libera disposizione del proprio corpo” che si traduce in  un “moderno habeas corpus“.

   Evidenti ne sono le ripercussioni sulla possibilità della legge – espressione, pur sempre, della maggioranza parlamentare democraticamente eletta – di incidere sull’autonoma e libera determinazione dell’individuo. Se le (innumerevoli) facoltà che discenderebbero da tale diritto hanno un fondamento costituzionale, non sarebbe possibile che la legge ordinaria incida su quel diritto generale di libertà. Nella costruzione di un sistema giuridico è indispensabile la coerenza delle varie parti dello stesso. E coerenza vuole che tale diritto ricomprenda non solo il diritto a darsi la morte, ma anche a mutilarsi, a drogarsi, a disporre in vario modo del proprio corpo. E infatti una delle poche costituzioni che tutela un diritto generale di azione – la Costituzione tedesca con la frei Entfaltung seiner Personenlickeit – lo circonda di intensi limiti, ivi compresa la Sittengesetz, la “legge morale”.�
   Quella del “diritto all’auto-determinazione” è una posizione coerentemente presente in taluni movimenti femministi che, ad esempio, tendono a leggere la soluzione trovata nella legge 194 come il riconoscimento di un “nuovo diritto “, un diritto di libertà – della madre – di disporre di ciò che è ancora parte del proprio corpo – e non – come nella sentenza della Corte e nell’intenzione del legislatore – un agere licere, frutto di un bilanciamento fra il diritto alla salute della stessa e il diritto alla vita del nascituro.
   Dall’antico e assoluto dominium rei a un più moderno dominium sui. E poiché – sempre sulla base di questa impostazione – deve essere riconosciuto un diritto a liberamente disporre del proprio corpo ne deriva, per esempio, che l’assunzione di sostanze stupefacenti rientra nella libera determinazione individuale. Dopo il referendum dell’aprile 1993 sulla legge Iervolino-Vassalli, drogarsi non è più un reato. Per alcuni tale svolta antiproibizionista è stata la ricerca di un modo migliore di combattere la diffusione delle droghe, per altri è invece il riconoscimento di un diritto di libertà (a right to do wrong, in altri Paesi.

   La differenza fra le due posizioni, emersa anche nel dibattito che accompagnò la consultazione referendaria, non è da poco. Se si trattasse di diritti di libertà, non solo questi comportamenti non potrebbero essere puniti (e può esserlo saggio non farlo), ma soprattutto non si potrebbero porre limiti a chi agevola l’esercizio degli stessi (a tanto, però, nessuno è giunto). Si possono avere le opinioni più diverse sulle sanzioni amministrative nei confronti di chi assume sostanze stupefacenti, per esempio quelle previste dal nuovo art. 75 del d.p.r. 309/390 introdotto con la legge 49/2006 (la c.d. legge Fini-Giovanardi), ma non si può convenire con chi ritiene che le sanzioni amministrative ivi previste siano incostituzionali perché incidono su diritti di libertà dei cittadini. Drogarsi – non sarebbe necessario dirlo – non significa esercitare una libertà; significa privarsi di una libertà e anzi offendere la propria dignità.�
   Capisco il timore di derive “proibizioniste”, ma se, come ho cercato di sottolineare, la Costituzione italiana, come altre costituzioni del secondo dopoguerra, pone alla base dei diritti la tutela dei valori della persona, la sua dignità, il suo sviluppo e la sua responsabilità, le istituzioni repubblicane – lo ribadisco – non possono essere per definizione neutrali e indifferenti.�
   Considerazioni analoghe potrebbero essere svolte per la prostituzione.
   I movimenti liberali dell’Occidente sono all’avanguardia nel combattere il fenomeno tribale delle mutilazioni genitali femminili. Ma – mi chiedo – se si parte da una concezione che fonda le libertà sulla libera disponibilità del proprio corpo e se si parte dalla considerazione che non vengono toccate libertà altrui, non sarebbe possibile negare a donne adulte (diverso per le minorenni) il diritto a ricorrere alla pratica della mutilazione genitale. A questo si riferiscono taluni critici della legge n. 7 del 2006, che prevede le stesse come reato, mai accettata comunque da chi ritiene che il diritto penale deve rispettare le specificità etniche.�
   Ma si potrebbero citare altre situazioni. Esiste un diritto a sterilizzarsi? La legge 194/78 ha portato ad una abolitio criminis, ad una abrogazione del reato previsto dall’art. 52 di sterilizzazione volontaria. ma siamo di fronte a una scelta discrezionale del legislatore o al riconoscimento di dell’esercizio di un diritto costituzionale ?
   E ancora. In base alla legge 164/182 è riconosciuto un diritto a mutare i caratteri del proprio sesso, ma sulla base di una autorizzazione del giudice; fino a che punto – bisogna chiedersi – tale intervento autorizzatorio è riconosciuto compatibile con il riconoscimento di un diritto costituzionale?
   Siamo di fronte a impostazioni che potevano considerarsi coerenti con i principi delle costituzioni liberali che esaurivano la loro funzione nel porre limiti al potere pubblico. Ma nel momento in cui le costituzioni ambiscono a costituire anche una tavola di valori che informa l’intero ordinamento, è ancora possibile alle stesse restare neutrali o agnostiche rispetto alle varie concezioni del bene presenti nella società?

   E’ una domanda che ci colloca ai confini dello “stato etico”? Mi limito a riprendere una domanda di Dworkin, che pure è uno dei padri del neo-costituzionalismo: quanti, in nome dell’autonomia individuale, sono pronti a sostenere che è proprio di uno Stato etico imporre l’uso del casco o della cintura di sicurezza? L’esempio per Dworkin era formulato per assurdo, ma di queste limitazioni si è dovuta occupare la Corte costituzionale italiana in due occasioni. Più di recente (ord. 49/2009), è stato ritenuto da un giudice che l’obbligo delle cinture di sicurezza previsto dal Codice della strada contrasterebbe, oltre che con alcuni immancabili articoli della Convenzione europea per i diritti dell’uomo e della Dichiarazione Universale, anche “con l’art. 13 Cost., non costituendo misura di prevenzione atta a evitare danni a terzi, ma paternalistica previsione dell’ordinamento nei confronti del singolo, considerato in posizione di inferiorità etica e psicologica, retaggio di ordinamenti assolutistici e illiberali, in stridente contrasto con i principi dello Stato democratico” e quindi con l’art. 2 Cost., “giacché i diritti inviolabili dell’uomo e lo sviluppo della sua personalità risultano gravemente compressi” (sic!).

   Non a caso Dworkin è ironico con quei costituzionalisti o filosofi del diritto che mettono sullo stesso piano, con sussiego accademico, la libertà di opinione e la libertà di compiere un gesto insignificante, vale a dire i diritti umani per i quali generazioni intere hanno combattuto e i variopinti frammenti di pretesi diritti dell’individuo. 

 

   7. Il “diritto a morire” come espressione del diritto sul proprio corpo?

   Premesse siffatte – basate sulla piena sovranità sul proprio corpo – sono presenti in quanti ritengono inopportuni interventi del Parlamento volti a elaborare una legislazione sul fine vita, salvo che essi non si limitino a riconoscere che la materia sarebbe già coperta da un diritto costituzionale, il diritto a morire, limitando quindi la funzione della legge (ritenuta opportuna ma non necessaria) alla sola regolamentazione di dettaglio. Un agghiacciante diritto a morire, che anzi renderebbe incostituzionale, e quindi sindacabile dalla Corte costituzionale, l’art. 580 del codice penale, laddove prevede come reato l’“aiuto al suicidio”, mentre viene ovviamente salvato il più grave reato di “istigazione al suicidio” previsto dal medesimo codice.

   Si tratta di posizioni riprese di recente, ma che in realtà rispecchiano antiche posizioni individualiste. Nessun dubbio sul fatto che in assenza di una legge debba prevalere un diritto generale di libertà che consenta al cittadino di fare ciò che la legge non vieti espressamente. E’ un aspetto del più generale “principio di legalità”, ma da ciò non è possibile trarre il riconoscimento costituzionale di un principio generale di autodeterminazione.

   Proprio allo scopo di meglio garantire il sistema delle libertà con puntuali garanzie istituzionali, le costituzioni contemporanee, e fra queste quella italiana, fanno riferimento a specifiche fattispecie di libertà, non assumendo a livello costituzionale tutti i possibili diritti dell’individuo o, meno ancora, generici interessi dei cittadini. E’ ben vero che l’art. 2 della Costituzione racchiude una “fattispecie aperta”, ma è anche vero che esso collega i diritti inviolabili ai valori della persona; un riferimento, certo, elastico ma in grado – tornerò sul punto – di evitare un ancor più generico riferimento a qualsivoglia libera determinazione dell’individuo. 

   Non par dubbio che tale norma vieti forme di eutanasia attiva (“eugenetica”, “economica”, “pietosa”), atteso che il valore della persona non può essere misurato sulla base dell’efficienza fisica della stessa; può invece rimanere il dubbio per le forme di eutanasia passiva, da ricondurre alla volontà stessa del soggetto (e diverse dal lasciarsi morire richiedendo un intervento attivo di altri soggetti). I dubbi possono essere più o meno fondati, ma è anche da considerare che la funzione di apertura ad altri diritti svolta dall’art. 2 è da legare strettamente agli orientamenti prevalenti nella comunità (alla costituzione “materiale” secondo la terminologia mortatiana).   

   Di quei diritti non vi è traccia nella Costituzione repubblicana. E proprio per ciò sarebbe oggi una forzatura fare dire a detta norma più di quanto il legislatore è oggi in grado di dire, ribaltando addirittura le norme del codice penale e riconoscendo legittime forme di “suicidio assistito”. In tal senso, peraltro, si è pronunciata la Corte di Strasburgo nel caso Pretty v. Regno Unito dell’aprile 2002, negando che esista il right to die invocato nel ricorso della signora sulla base dell’art. 2 della Convenzione europea dei diritti (che prevede il diritto alla vita, ma non nel suo versante negativo del diritto a togliersi la vita). 

   Nell’ordinamento costituzionale italiano l’unico punto di riferimento è invece rappresentato dall’art. 32 della Costituzione che, richiedendo il consenso della persona per le terapie, e quindi riconoscendo il diritto a rifiutare le cure (ivi comprese, a me pare, l’alimentazione e l’idratazione forzate), implicitamente riconosce un diritto del paziente a che la malattia faccia il suo corso, anche scontando un esito letale della stessa (un diritto a “rifiutare le cure “, non un “diritto a morire”). Un “lasciarsi morire e un lasciare morire” non significa un “fare morire”.

   So bene tuttavia che tale distinzione si basa su una differenza tra “omissione” (rifiuto delle cure) e “comportamento attivo” (attività volta all’eutanasia) che non sempre è facile delineare nel caso concreto (da ultimo un caso sottoposto ai giudici tedeschi: Bundesgerichtshof, 25 giugno 2010), ma ciò non può escludere che vada posta la questione di principio, almeno per quanti cooperano attivamente a favorire il togliersi la vita. Se vi è il diritto a ottenere un aiuto per morire – in caso di inabilità, ad esempio, come nel citato caso della signora Pretty – vi dovrebbe essere un corrispondente (ma inammissibile) dovere di dare la morte.

   Fatto salvo che il diritto alla vita – diritto assoluto, non negoziabile e non rinunciabile – è il valore prioritario dell’ordinamento, il diritto riconosciuto dall’art. 32 di rifiuto delle cure può invece comportare – io credo – due conseguenze :

•          la possibilità di esprimere una chiara, inequivocabile ed espressa dichiarazione anticipata di volontà attraverso il c.d. testamento biologico, nelle forme e nei modi che spetta al legislatore stabilire, da utilizzare nel caso in cui il paziente non sia più in grado di esprimere una volontà (ma con una formulazione meno maldestra del testo in discussione alla Camera dei deputati, che sembra ricomprendere i pazienti affetti da Alzheimer);

•          la possibilità per pazienti capaci di intendere e di volere, e che si trovano tuttavia in condizioni di totale dipendenza fisica, di potere rinunciare alle cure, anche quando questa rinuncia richieda un comportamento “attivo” da parte di un medico (fermo il riconoscimento di una possibile obiezione di coscienza); intervento volto non direttamente a provocare la morte, ma a rimuovere il mezzo tecnologico che tiene inchiodati in vita (per esempio staccare una macchina).   

   Non voglio riaprire dolorosissimi casi che hanno commosso tanti di noi, ma non possono essere posti sullo stesso piano il caso Welby e i casi sempre più frequenti, non solo in Italia, in cui si cerca di ricostruire una volontà di un paziente, non in grado di esprimersi per uno stato vegetativo permanente, sulla base del suo “stile di vita” e delle sue “convinzioni etiche”. 

 

   8. Una concezione delle libertà non coerente con i valori costituzionali

   Alla base delle posizioni radicali fin qui evidenziate sta la concezione teorica delle libertà cui prima mi riferivo, vale a dire la piena legittimità di tutti quei comportamenti che non toccano direttamente la “libertà del vicino”. In tal caso la politica e il diritto dovrebbero arretrare rispetto alla sovranità e all’autonomia dell’individuo, cui spetta ogni valutazione sul contenuto etico della propria azione. Nelle posizioni classiche del liberalismo individualista le libertà sono viste essenzialmente come “non intromissione” della legge nell’autonomia individuale.

   Ma vi è anche chi, nell’ambito del medesimo pensiero liberale, ritiene che compito dello Stato non è solo quello di assicurare il libero dispiegarsi delle inclinazioni individuali, ma soprattutto quello di assicurare – mi riferisco a Rawls – che siano garantite pari opportunità secondo principi di giustizia.   

   Del tutto opposte le posizioni communitarians che, esaltando il ruolo delle comunità di appartenenza, finiscono per svalutare l’autonomia e la responsabilità individuali. 

   L’esperienza delle costituzioni del secondo dopoguerra cui prima mi riferivo e lo sviluppo conseguente della teoria costituzionale non consentono, a mio avviso, di accettare impostazioni così radicali delle libertà. In primo luogo perché il concetto di libertà non può essere costruito solo sulla base di modelli giuridici auto-referenti. Non può né tradursi nella tautologica “libertà di volere liberamente”, né essere circoscritto alla mera dimensione procedurale (previsione di riserve di legge o fissazione di garanzie giurisdizionali), prescindendo dai contenuti. 

   La persona non è il frutto di una sommatoria di diritti ma, capovolgendo il punto di vista, è una entità irriducibile cui vanno riconosciuti diritti fondamentali. Stretto è quindi il collegamento fra “dignità della persona” e “libertà” della stessa; collegamento che si spinge fino al punto di delimitare i confini di una libertà sulla base del rispetto o meno della dignità personale. La dignità della persona è insieme – è stato detto in modo incisivo – “fondamento “ e “limite” delle libertà costituzionali.

   Come sottintende la nostra Costituzione (citavo prima l’art. 2), e come espressamente affermato in altri testi costituzionali (e in molte dichiarazioni internazionali), i diritti di libertà sono riconosciuti in funzione della tutela e dello sviluppo dei valori della persona, in primo luogo della “dignità della persona”. E i valori della persona fanno riferimento non all’individuo isolato, “chiuso nella volubilità delle sensazioni…. senza passato e avvenire, senza legami”, ma a una “persona”, titolare di diritti e di doveri e inserita in relazioni sociali, e perciò responsabile. “La persona si oppone all’individuo in quanto essa è dominio, scelta, formazione, conquista di sé” (Mounier, 1955).   

   La persona ha il diritto di scegliere non ciò che più le aggrada, ma ciò che ritiene più giusto per sé e per gli altri: così sottolineava Immanuel Kant per il quale l’essenza della “libertà consiste nel fare ciò che le regole rispondenti a ragione ti impongono di fare” (e a Kant si deve la costruzione della “persona” come categoria non solo etica ma giuridica). Non si può confondere “la libertà con il tornaconto egoistico…di chi considera libertà qualunque facoltà appaia a taluno conveniente” (Amato). L’ordinamento, anche laddove riconosce ampi margini di autonomia all’individuo, deve alimentare modalità di esercizio della stessa che favoriscano la necessaria ponderazione nelle scelte da compiere (come previsto, ad esempio, dalla legge 194 per la decisione della donna di interrompere la gravidanza).   

   In questa prospettiva, libertà non è solo “liberazione” da impedimenti – un liberarsi dal potere o dagli altri – ma libera “comunicazione” di sé. La rimozione degli impedimenti è in questa prospettiva un mezzo, non un fine. Non è “la libera volontà”di un individuo ripiegato su se stesso ma una disciplina interiore che conduce al dominio di sé; non è diritto “di ciascuno per sé” quanto, piuttosto, energia che si espande, “fiamma che accende altre fiamme” “relazione con l’altro”.   

   Sotto il profilo della scienza giuridica, va osservato che non aiutano le antiche categorie, costruite solo sulla “libertà da” (le libertà dallo Stato, o dal potere, o comunque da costrizioni esterne), mentre appare più in linea con le moderne tendenze costituzionali una concezione dell’individuo come persona cui spetta una “libertà per” (right to, per Lon Fuller).   

   Una concezione della libera autodeterminazione che non conosce altre ragioni al di fuori di se stessa esaspera la dimensione soggettivistica e giunge, persino, come abbiamo visto, a giustificare la libertà di drogarsi o il diritto di disporre del proprio corpo o di mutilarsi.   

   Nel costituzionalismo di questo secondo dopoguerra (che si tende a definire “neocostituzionalismo”) sono presenti inevitabili punti di debolezza e di forza nello stesso tempo, così riassumibili:

a) mentre i classici diritti di libertà si basano su puntuali fattispecie analitiche (manifestare un pensiero, riunirsi, associarsi ecc.), i nuovi diritti della persona privilegiano la tecnica dei “principi” rispetto a quella delle “regole analitiche”;

b) i valori della persona sono assunti secondo uno “schema aperto”. Come ebbe infatti a sottolineare lo stesso Mounier, il personalismo non può mai essere un sistema compiuto, in quanto la persona, che ne rappresenta l’oggetto principale, va sempre oltre ogni possibile sistemazione definitiva. 

c) l’interpretazione delle norme che abbiano come punto di riferimento i valori della persona deve necessariamente rispondere alle esigenze del “caso” sottoposto a giudizio, e a principi di “ragionevolezza” e “proporzionalità”, con un movimento che parta dal caso stesso al diritto e non, come di solito, in modo deduttivo, dal diritto al caso da decidere. 

   Mettendo in relazione stretta libertà e dignità della persona, si giustifica – come prima dicevo – il riconoscimento di un diritto a lasciarsi morire rifiutando determinati trattamenti sanitari – ivi comprese, io credo, la tanta discussa alimentazione e idratazione forzate -, ma è assai problematico giustificare il ricorso a forme di “eutanasia attiva”. 

   Così pure, sempre mettendo in relazione libertà e dignità della persona, si possono giustificare, alla luce dei principi costituzionali, le manipolazioni geniche “germinali” effettuate a scopi terapeutici, per eliminare la trasmissione di difetti genetici, mentre sarebbero – io credo – in contrasto con i principi di libertà e di dignità della persona le manipolazioni effettuate a fini “eugenetici”, alla ricerca di “qualità superiori” della propria discendenza. Così come – è appena il caso di dirlo – contrasterebbero con i citati principi costituzionali – e non sarebbero tutelate dalla libertà della ricerca scientifica – le forme di “clonazione ibrida” (meno dubbi potrebbe forse sollevare, invece, il “trasferimento di nucleo” da una cellula umana a un ovocita).

   Vi è poi un secondo motivo che rende assai deboli le tesi sopra indicate. Un altro punto di forza del costituzionalismo del Novecento è imperniato sull’idea che l’ordinamento non deve limitarsi a garantire i diritti costituzionali, ma deve adoperarsi per il loro sviluppo. Potrebbe essere così anche per questo tipo di pretesi diritti? La Repubblica dovrebbe non solo non interferire ma addirittura avrebbe il compito – ne accennavo prima – di aiutare l’esercizio di tali libertà, ivi compresi, appunto, o togliersi la vita, o drogarsi o prostituirsi, o sterilizzarsi, o mutilarsi?

   E’ quanto, ad esempio, stanno tentando alcuni Comuni per favorire il diritto, previsto dall’art. 32 della Costituzione, di rifiutare forme di accanimento terapeutico attraverso la possibile registrazione presso appositi uffici comunali dei “testamenti biologici”, pur in assenza di una normativa nazionale. Si può segnalare al riguardo la nota Anci del 23 novembre 2010 sui registri comunali per il testamento biologico, per la quale “si può fondare la legittimità dell’azione comunale in una generica e generale competenza innominata a far fronte comunque alle esigenze delle proprie comunità, allorché questo avvenga senza violazione di leggi, secondo il principio in base al quale ciò che non è vietato è permesso, fermo restando il rispetto di situazioni giuridiche altrui”.

 

   9. Una concezione della Costituzione “non totalizzante”

   Vengo a una conclusione che richiederebbe – ne sono cosciente – più ampio svolgimento. Sia nelle posizioni di chi cerca spazi nella Costituzione per il riconoscimento di sempre più insaziabili diritti individuali, sia in chi cerca nella Costituzione il divieto di cittadinanza degli stessi, prevale una concezione “totalizzante “ del documento costituzionale. Quella concezione totalizzante delle costituzioni che non sempre è in linea con i principi di una “democrazia aperta” e che, alla fine, finisce per dare spazio a minoranze tecnocratiche (i giudici delle Corti, italiane o europee) rispetto alla maggioranze democratiche. 

   Siamo in campi in cui il legislatore, sulla base appunto del principio di maggioranza, potrà riconoscere o meno la liceità di determinati comportamenti. Spetterà ad esso, sulla base di valutazioni politiche e/o etiche (e rispettando “proporzionalità” e “ragionevolezza”), punire o meno l’aiuto al suicidio, reprimere o meno atti di disposizione del proprio corpo, consentire o meno la sterilizzazione, porre limiti o meno alla procreazione eterologa, reprimere o meno l’uso di stupefacenti, prevedere o meno la obbligatorietà di taluni trattamenti immunitari, consentire alle ordinanze dei sindaci di ostacolare, o meno, la prostituzione nelle strade. E spetterà al legislatore prevedere, con maggiore o minore ampiezza, le forme di espressione del rifiuto delle cure, anche mediante dichiarazione anticipata di volontà.   

   Sotto questo ultimo profilo è possibile giungere alla conclusione, lo dico in breve, che la Costituzione non prevede né un “diritto a morire” né, viceversa, un “dovere di vivere”. Il già citato riferimento ai “diritti inviolabili” dell’art. 2 della Costituzione consente di veicolare nell’ordinamento costituzionale diritti non espressamente previsti nel testo costituzionale dagli articoli 13 e seguenti, sia trasmettendo diritti previsti da dichiarazioni internazionali, sia arricchendo i valori costituzionali che possono consentire il bilanciamento con altri diritti costituzionali, ma non esclude (anzi esige) un’opera di “conformazione legislativa” in sede parlamentare (così è stato, per esempio, per il diritto alla privacy).  Sarebbe una forzatura ritenere che tali comportamenti debbano essere necessariamente vietati, ma è una forzatura maggiore ritenere che essi siano espressione di diritti di libertà costituzionalmente tutelati, tali addirittura da determinare la illegittimità costituzionale di leggi contrastanti. 

   Ma come deve comportarsi il legislatore? Ho già detto che il principio di maggioranza legittima l’intervento dello stesso, ma che è parimenti necessario che esso tenga conto delle ragioni delle minoranze, siano esse formate da credenti o non credenti. Vale anche per il legislatore – aggiungo – la distinzione weberiana fra etica dei “principi” ed etica della “responsabilità”. Richiamandosi a quest’ultima, bisogna che credenti e non credenti mantengano la capacità di distinguere tra i singoli valori che possono essere, secondo i rispettivi punti di vista, non negoziabili – e in questo consiste il rifiuto del relativismo etico – e le concrete scelte da operare nella sfera pubblica, dove sono in gioco valori di cui sono portatori gruppi ed etiche diverse. E in questo consiste il rispetto del pluralismo in una società multi-etnica.

   Nell’epoca del “disincanto”, proprio delle società postmoderne, si tende a contrapporre alla sacralità della vita (sanctity of life) il concetto ritenuto più laico di qualità della vita (quality of life). Il riferimento al “sacro” può richiamare un ancoraggio alla trascendenza, non da tutti accettato. D’altro canto il concetto di “qualità della vita” viene sempre più utilizzato non solo come “auto-rappresentazione” da parte del soggetto stesso, ma anche in chiave economica e statistica, come calcolo di costi e benefici che l’intera comunità è chiamata a sostenere sia nell’accogliere che nel sostenere.

   E’ necessario – io credo – sfuggire a questo falso dilemma. Il “sacro” può non essere necessariamente legato alla trascendenza ed essere più laicamente considerato. Nelle rivoluzioni dell’Occidente, che hanno dato la spinta al costituzionalismo liberaldemocratico, i diritti dell’uomo venivano definiti “sacri e inviolabili”. Il “sacro”, come fondamento di legittimità, di ordine e di senso comunitario, non discendeva più dall’alto attraverso la persona del sovrano, secondo la nota formula paolina (omnis potestas a Deo), ma si trasfondeva direttamente nei diritti dell’uomo e del cittadino definiti, nelle prime Carte rivoluzionarie, sacri e inviolabili. I diritti della persona, per i credenti, vanno difesi in quanto essa è costruita a “immagine e somiglianza di Dio”, per i non credenti in quanto la persona “ha valore in sé e per sé”, come “bene comune”, e non solo per la sua utilità. Sotto questo profilo ha ragione Ronald Dworkin nel sottolineare che la sacralità della vita può rappresentare un terreno comune di dialogo per credenti e non credenti? Io ritengo di sì, con riferimento all’arricchimento comune che la storia è riuscita a sviluppare. Le due culture dialogando hanno avuto ed hanno la possibilità di arricchirsi vicendevolmente, attraversandosi (secondo l’etimo dia-logos).

   Ho prima citato la convergenza di cattolici e laici sul terreno del costituzionalismo liberaldemocratico, ma posso ricordare, sui temi della “vita”, i sempre più incisivi movimenti per l’abolizione delle pene capitali. Nati in ambito laico, hanno fatto sì che la Chiesa cattolica abbandonasse progressivamente la propria posizione giustificazionista (anche se continua nei documenti ufficiali ad usare l’ambigua espressione “vita innocente”). Su quali fondamenta intendiamo appoggiare il richiamo a tali valori, se a un “Dio personale” o a un “Dio ignoto”, è problema di grande rilievo ma, tutto sommato, di minore importanza rispetto al modo come credenti e non credenti possono riuscire a dialogare sui temi che coinvolgono la vita delle persone.

Riferimenti bibliografici

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