LA RIVOLUZIONE DEL SENSO CIVICO

COMPITO PRINCIPALE DELLA BUONA POLITICA E’ IL RILANCIO DELLA COSCIENZA DEL BENE COMUNE E DELLA CULTURA DELLE REGOLE: QUESTO COSTITUISCE UNA ENORME RISORSA CUI PUO’ ATTINGERE UN PAESE COME IL NOSTRO, DOVE LE CIVIC ATTITUDES SONO, PER TRADIZIONE SECOLARE, POCO ESERCITATE 

Articolo pubblicato sul Corriere della Sera il 13 febbraio 2006, a commento del programma elettorale pubblicato pochi giorni prima dalla coalizione di centro-sinistra.

            C’è una materia, nel programma dell’Unione, che avrebbe meritato un primo capitolo a sé stante e un’indicazione più esplicita di priorità: potremmo chiamarla “promozione del senso civico”, o “cultura delle regole”. È una materia sulla quale l’Italia presenta un deficit grave rispetto ai Paesi dell’Europa centro-settentrionale, misurato con precisione da diversi studi economici e sociologici che mettono a confronto le civic attitudes delle nazioni. Quel deficit si manifesta sostanzialmente in un tasso troppo elevato di disapplicazione delle nostre leggi, di tolleranza e persino talora simpatia per chi le trasgredisce, di evasione fiscale, di corruzione, di lavoro irregolare nelle forme più svariate.

L’importanza del senso civico diffuso per l’efficienza di una nazione costituisce argomento centrale di un saggio di Yann Algan e Pierre Cahuc pubblicato pochi giorni or sono su Internet: Civic Attitudes and the Design of Labor Market Institutions. I due economisti pongono in evidenza i vantaggi del cosiddetto “modello danese” di organizzazione del mercato del lavoro, ma osservano che possono permettersi quel modello soltanto i Paesi – come quelli scandinavi – nei quali è alto il tasso di senso civico, la public spiritedness: quel modello rischia invece di produrre costi insostenibili là dove, come in Italia, l’attaccamento al bene pubblico è basso, la legge è applicata poco e l’abuso è diffuso. Altri studi, da tempo, avevano mostrato come il difetto delle nostre civic attitudes costituisca una causa rilevante (insieme ad altre, ovviamente) dell’incapacità grave dell’Italia di intercettare gli investimenti nel mercato globale dei capitali. Per questo motivo una grande operazione politica volta specificamente all’aumento del tasso di effettività delle leggi e alla promozione del senso civico si impone come primo punto di passaggio necessario per sottrarre il nostro Paese al declino.

Su questo terreno, nel corso della legislatura che si sta chiudendo [n.d.r. – il riferimento, qui, è alla XIII legislatura], il nostro Paese ha fatto dei passi indietro, aggravando la propria condizione di inferiorità nel panorama internazionale. Li ha fatti quando è stato ridotto il rigore della legislazione in materia di trasparenza dei bilanci societari, o sono stati lanciati segnali di “comprensione” agli evasori fiscali; quando sono state varate riforme della procedura penale ritagliate su misura per garantire l’impunità ad alcuni imputati eccellenti, pur al costo di garantirla anche a tanti altri; quando il governo ha scatenato campagne violente e indiscriminate contro l’intera magistratura.

L’Unione avrebbe dunque buon gioco se dedicasse al rilancio del senso civico e della cultura delle regole – che è cosa ben diversa dal giustizialismo ‑ un capitolo specifico del proprio programma, anzi il capitolo di apertura. Porre questo punto al primo posto non sarebbe eccessivo, poiché nessuna riforma può essere efficace se le leggi non sono applicate; e non c’è democrazia se il volere del popolo espresso dalle leggi resta per gran parte lettera morta nella Gazzetta Ufficiale.

Certo, porre davvero questo punto al primo posto del programma implica alcune scelte difficili e per nulla scontate: implica, per esempio, “tolleranza zero” nei confronti delle infinite violazioni della legge poste in essere dalla pubblica amministrazione ai danni dei cittadini per inefficienza e lassismo organizzativo (proprio l’inefficienza costituisce il principale terreno di cultura della corruzione). Poi, implica una grande campagna contro l’economia irregolare; e questa comporta a sua volta la modulazione degli standard di trattamento del lavoro per renderne davvero esigibile il rispetto: una ricetta, questa, cui l’ala sinistra dell’Unione è tendenzialmente contraria.

Impegnarsi a promuovere questa vera e propria rivoluzione culturale è dunque una scelta difficile; ma questa idea-forza, se proposta con decisione da un governo credibile, potrebbe mettere in moto energie straordinarie, capaci di cambiare faccia al Paese. Per poter tornare a scommettere insieme sul proprio futuro, gli italiani devono prima di tutto convincersi che il rispetto delle regole e l’attaccamento al bene comune costituisce un grande “gioco a somma positiva”, in cui tutti hanno da guadagnare; poi devono convincersi che è un gioco possibile anche in Italia. Attivarlo non è una riforma “di sinistra” né “di destra”; ma proprio per questo dovrebbe e potrebbe essere, più e prima di qualsiasi altra riforma, l’oggetto del “contratto con gli italiani” del nuovo Governo.

 

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