IN UNA SOCIETA’ APERTA ALL’ECONOMIA GLOBALIZZATA CIASCUN PAESE DEVE GUADAGNARSI GLI INSEDIAMENTI PRODUTTIVI GIORNO PER GIORNO GARANTENDO UN CONTESTO MATERIALE, CULTURALE E NORMATIVO FAVOREVOLE – QUESTO E’ IL MODO MIGLIORE PER RAFFORZARE LA POSIZIONE DEI LAVORATORI NEL MERCATO DEL LAVORO
Articolo pubblicato sul Corriere della Sera nella rubrica “Lettera sul lavoro” il19 febbraio 2011 – I dati circa la capacità di attrarre investimenti stranieri dei principali Paesi europei sono riportati nella tabella annessa all’Editoriale per la Newsletter n. 139
Caro Direttore, l’accenno di Sergio Marchionne alla possibiltà che prima o poi la Fiat sposti il suo quartier generale da Torino a Detroit ha rinfocolato la polemica: “Avete visto? – dicono i sostenitori del ‘no’ a quelli del ‘sì’ – Avete firmato tutti quei sacrifici per poi rischiare di rimanere, tutt’al più, con un grande reparto staccato di assemblaggio di un’impresa che ha la testa in America”.
Certo, se a Pomigliano e a Mirafiori avesse vinto il ‘no’ non avremmo avuto il rischio di perdere la testa della Fiat: avremmo avuto la certezza di perdere l’intera azienda. Chi ragiona come se la Fiat a Torino fosse un nostro diritto inalienabile mostra di non avere colto un aspetto essenziale della società aperta all’economia globale: né l’insediamento di uno stabilimento, né l’insediamento del centro direzionale di un’impresa multinazionale è mai un dato acquisito una volta per tutte, nè tantomeno può essere oggetto di un “diritto” di questo o quel Paese.
Ci si dimentica anche, però, un dato ulteriore che dovrebbe invece rallegrarci: non è neppure un diritto della Fiat quello di rimanere l’unico grande costruttore di automobili a sud delle Alpi, con tutto il potere contrattuale che ne consegue nei confronti dei lavoratori italiani.
Questi ultimi, con i loro sindacati e il loro Governo, se vogliono rafforzare la propria posizione al tavolo del negoziato con Marchionne, invece di vagheggiare norme capaci di vincolarlo a restare, farebbero bene ad aprire al più presto trattative con altri grandi costruttori, di auto o di altro, mettendoli in concorrenza con la Fiat e tra loro sul versante della domanda di lavoro nel nostro mercato. In Europa siamo i penultimi della fila per capacità di attirare investimenti stranieri. Se soltanto fossimo capaci di allinearci alla media europea, aumentando il nostro flusso annuo medio in entrata al 5 per cento del PIL, dall’1 per cento o poco più dell’ultimo decennio, questo ci porterebbe un flusso aggiuntivo dall’estero pari a poco meno di 60 miliardi di investimenti ogni anno: l’equivalente di 29 volte l’investimento promesso da Marchionne per il piano “Fabbrica Italia”. E questo varrebbe, per la libertà, la forza contrattuale, la sicurezza e le retribuzioni dei lavoratori, più di qualsiasi legge inderogabile o contratto collettivo.
Se vogliamo che non soltanto la Fiat resti in Italia, ma anche tante altre imprese (quegli altri 29 Marchionne che oggi se ne stanno alla larga) vengano a stabilirsi da noi, dobbiamo offrire loro un ambiente migliore: amministrazioni e infrastrutture più efficienti; civic attitudes e rispetto diffuso delle regole; una legislazione del lavoro semplice e traducibile in inglese; ma soprattutto un sistema di relazioni industriali che garantisca rapidità di negoziazione e certezza di applicazione dei contratti, pur in presenza di legittimi dissensi tra i sindacati.
Quest’ultimo è il punto che Presidente e AD Fiat hanno sottolineato con più forza nell’incontro con il Governo di sabato scorso, chiedendo una maggiore garanzia di effettività del contratto e di “governabilità” dell’azienda. Il ministro Sacconi ha assicurato che si darà da fare per questo, ma non ha detto come. Poiché fin qui ha seguito la linea di un rigoroso astensionismo, chiudendo a tutte le proposte avanzate dall’opposizione (sia in tema di codice del lavoro semplificato, sia in tema di riforma del diritto sindacale), siamo interessati a conoscere con maggiore precisione le novità che intende proporci.