LAVORARE MEGLIO, GUADAGNARE DI PIÙ

E’ GIUSTO PREOCCUPARSI DEL RISCHIO CHE LA GLOBALIZZAZIONE PORTI UN PEGGIORAMENTO DELLE CONDIZIONI DI LAVORO; MA NEL PANORAMA INTERNAZIONALE ABBIAMO MOLTI ESEMPI DI INVESTIMENTO INTELLIGENTE SUL CAPITALE UMANO, CHE HANNO CONSENTITO DI CONIUGARE LA MAGGIORE PRODUTTIVITA’ CON CONDIZIONI DI LAVORO MIGLIORI 

Articolo di Maurizio Ferrera pubblicato sul Corriere della Sera del 4 febbraio 2011

La vertenza Mirafiori ha sollevato comprensibili preoccupazioni sul rapporto fra competitività delle imprese e condizioni di lavoro. All’interno del mondo sindacale è stato evocato il rischio di una «americanizzazione» dei modelli contrattuali e produttivi del nostro Paese: stipendi milionari e benefits ai manager, bassi salari agli operai, regresso verso modalità di prestazione che si consideravano superate, ma che oggi vengono riproposte per «competere con la Cina». Le preoccupazioni non sono prive di fondamento. Come attestato da numerose inchieste, la globalizzazione ha realmente condotto negli Usa ad un peggioramento delle condizioni lavorative in alcuni settori e tipologie di imprese. L’esempio canonico è il colosso della distribuzione Walmart, che paga salari più bassi della soglia ufficiale di povertà senza peraltro offrire alcuna tutela sociale. Se nell’immaginario collettivo il punto di riferimento diventa Walmart, come possiamo stupirci se i1 contratto nazionale e i diritti acquisiti diventano una sorta di linea del Piave per molti lavoratori e le loro famiglie? La sfida è trovare altri punti di riferimento, esperienze concrete di conciliazione virtuosa fra le esigenze di competitività delle imprese e le aspirazioni economiche e sociali dei lavoratori. Una ricerca appena pubblicata negli Stati Uniti fornisce preziose indicazioni proprio in questa direzione (U. Heymann e M. Barbera, Profit at the bottom of the ladder, Harvard University Press, 2010). Frutto di sei anni di studio, il libro illustra una gran quantità di «buone pratiche», osservate in nove Paesi in diversi settori produttivi.
Qualche esempio, fra i tanti. Costco, diretto rivale di Walmart nella distribuzione all’ingrosso, ha introdotto qualche anno fa uno schema innovativo di formazione e carriera dei propri addetti. Vi è stato subito un salto di qualità nei servizi alla clientela. I dipendenti Costco guadagnano ora quasi il doppio di quelli di Walmart. American Apparel, grande impresa tessile, ha puntato su incentivi retributivi, ma anche sulla salute e prevenzione sanitaria di chi lavora ai telai (clinica di stabilimento, pause periodiche con esercizi di fisioterapia): l’approccio esplicitamente sweatshop free (privo di regole o pratiche «sfruttatrici») ha consentito a questa azienda di reggere senza problemi la concorrenza cinese. Anche alla Novo-Nordisk (farmaceutici) operano macchinari all’avanguardia sotto il profilo ergonomico. Uno schema di incentivi monetari incoraggia inoltre gli operai a dare suggerimenti su come migliorare il processo produttivo. L’azienda stima che lo schema abbia prodotto un incremento di efficienza pari al 50%. La canadese Great Little Box (imballaggi) ha sperimentato a sua volta un programma di «rilevazione delle buone idee» che può fruttare a un dipendente un bonus di 2.500 dollari per idea (grande successo, anche in termini di profitti).
 In linea con le attese della womenomics, molte aziende hanno puntato su pratiche e servizi di conciliazione per le dipendenti con figli. L’australiana Autoliv (componenti per auto) ha visto crollare i tassi di assenteismo a seguito di una nuova politica aziendale sui congedi e la flessibilità dei tempi di lavoro, con ricadute virtuose su motivazione e produttività. Molte aziende hanno poi introdotto efficaci sistemi di partecipazione ai profitti coinvolgendo i sindacati, quasi sempre con effetti economici molto positivi.
La ricerca di Heymann e Barbera insiste su una caratteristica comune di tutti i casi esaminati: le aziende non si sono limitate a incentivare manager e quadri intermedi. Hanno coinvolto la base larga dei propri dipendenti, a cominciare dagli addetti alle linee di montaggio. n quadro che emerge è interessante e rassicurante proprio perché combina competitività e inclusione: più profitti a partire dal fondo della scala, ma anche per tutti quanti si trovano in fondo (e hanno concrete opportunità di salita).
Esempi sparsi e disordinati, si dirà, incapaci di sostituirsi a Walmart nell’immaginario di lavoratori sempre più insicuri e di imprenditori sempre più oppressi dal peso dei costi. Come si può imboccare la strada della competitività inclusiva se i mercati finanziari e le borse non tengono in alcuna considerazione l’investimento in capitale umano e premiano solo i tagli e le ristrutturazioni? Le autrici della ricerca sono ben consapevoli di questi problemi e propongono alcune soluzioni. Il messaggio finale è però ottimista: esiste una strada sweatshop free per i sistemi produttivi dei Paesi sviluppati. Ma possiamo imboccarla solo se imprenditori e sindacati ci credono e ci provano seriamente: nel rispetto dei loro ruoli e del loro contrasto d’interessi, però collaborando su alcuni obiettivi strategici, con inventiva e pragmatismo.

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