CIPOLLETTA: SERVE ANCORA UN CONTRATTO NAZIONALE DI LAVORO?

C’È STATO IL TEMPO DELL’OMOGENEITÀ DEL COSTO DEL LAVORO PER CATEGORIA, UTILE PER LA CRESCITA INDUSTRIALE DEL PAESE IN UN SISTEMA ECONOMICO MONDIALE CHIUSO – LA GLOBALIZZAZIONE IMPONE ORA DI MISURARSI CON ALTRI PARAMETRI: LA DIMENSIONE D’IMPRESA È QUELLO GIUSTO, ANCHE PER LA CONTRATTAZIONE 

Articolo di Innocenzo Cipolletta, economista e Presidente di UBS Italia Sim, pubblicato il 1° febbraio 2011 sul n. 60 della Newsletter Associazione Nuovi Lavori, diretta da Raffaele Morese  

Il contratto di lavoro nazionale di categoria ha svolto nel nostro paese un ruolo molto importante dal dopoguerra agli anni ‘90. Ma oggi esso è sotto attacco da parte di molti fronti. La vicenda della FIAT, con la scelta di un contratto di lavoro aziendale in sostituzione di quello nazionale e con l’uscita dalla Confindustria per non sottostare all’accordo del 1993, è un segno del cambiamento dei tempi. Certo, nella scelta della FIAT e dei sindacati che hanno firmato l’accordo separato ha pesato anche la volontà di isolare la FIOM che aveva assunto posizioni radicali ed è probabile che l’esclusione della rappresentanza di questa sigla sia stato anche un obiettivo ricercato da parte dell’azienda. Ma sarebbe errato attribuire a questo evento la caratteristica della contingenza, quasi che fosse un episodio isolato e dettato dalle circostanze. E anche se ciò fosse, esso ha comunque aperto una strada che non potrà essere richiusa, perché dietro questa scelta ci sono motivazioni più di fondo. Conviene dunque ragionare su queste motivazioni e sui riflessi che una tale strada può avere per le relazioni industriali e più in generale per l’andamento della nostra economia e per la politica economica del paese.
Il contratto nazionale di categoria ha consentito alle nostre relazioni industriali di strutturarsi in modo moderno. Già negli anni del dopoguerra si discusse sull’opportunità o meno di ricorrere a contratti aziendali. Ma vinse a quell’epoca la necessità di unificare il paese e di costruire regole generali per tutti i lavoratori. Era un’epoca in cui la legislazione del lavoro era molto carente. Un’epoca dove l’offerta di lavoro non qualificato era molto elevata a causa della fuga dalle campagne, e il potere era decisamente nelle mani dei datori di lavoro. A loro volta le imprese diffidavano dei contratti aziendali che avrebbero potuto creare una concorrenza tra le imprese sul costo del loro lavoro.
La scelta del contratto di lavoro collettivo risultò utile per la coesione sociale, per costruire regole contrattuali comuni e per avviare le prime politiche dei redditi. In particolare negli anni ’70, dopo l’esplosione sociale, attraverso i contratti collettivi venne avviata una vera e propria politica economica concertata con le parti sociali, che comprendeva la politica dei redditi, quella del lavoro, quella delle tariffe, la politica fiscale, quella industriale e quella della crescita economica del paese. Il culmine di tale politica avvenne con gli accordi degli anni ’90 sulla scala mobile e sul modello contrattuale (accordo Amato del 1992 e accordo Ciampi del 1993) che fecero uscire l’Italia dalla spirale svalutazione-inflazione e consentì il nostro ingresso nell’euro.
Intanto, le condizioni di cornice andavano mutando. L’integrazione europea e l’adesione all’euro hanno ridotto il ruolo della politica economica nazionale nel controllo dell’inflazione, che di fatto è demandato alla politica monetaria della BCE. Questa devoluzione ha ridotto il ruolo di eventuali politiche dei redditi a base nazionale. Inoltre l’ondata di tecnologia unita all’apertura dei mercati internazionali ha scomposto i classici settori merceologici sulla base dei quali erano costruiti i contratti nazionali di settore. Ormai è difficile parlare di un andamento settoriale nazionale, mentre sempre più si parla di andamenti aziendali. La tecnologia ha spostato imprese da settore a settore. Un’industria meccanica che faceva macchinari per il calcolo (come l’IBM) è diventata un’industria di servizi (software e gestione di sistemi) oppure (come l’Olivetti) una azienda telefonica. Nel settore metalmeccanico le lavorazioni differiscono da azienda a azienda a seconda delle produzioni che vengono fatte. Cresce in tutte le imprese la componente dei servizi e le professionalità impiegate si articolano su nuove categorie di lavoratori. Classificare gli operai in modo eguale in tutte le aziende di uno stesso settore può non aver significato in molte aziende. La dinamica reddituale di un’azienda dipende sempre meno dalla dinamica del settore di riferimento e sempre più dalle scelte fatte dall’azienda stessa, al punto che nello stesso settore possono convivere imprese che vanno bene e imprese che vanno male: basta che abbiano sbocchi commerciali in paesi diversi che la loro crescita differisca notevolmente. A loro volta, le grandi imprese sono sempre meno interessate al mercato nazionale e guardano ai mercati internazionali. Tendono ad avere regole di gestione simili in tutti i paesi, più facili da spiegare a consigli di amministrazione internazionali.
Ma ciò che più interessa, a mio avviso, è che la logica settoriale con cui si costruiscono i contratti di lavoro stia tramontando. Le imprese sono interessate più ai mercati di sbocco che alle classificazioni settoriali di natura merceologica. Un’impresa che produce profumi è senza dubbio un’impresa chimica, ma il suo riferimento è ormai il mercato della moda più che l’industria chimica. L’auto è un bene di consumo legato al reddito spendibile delle famiglie, al tempo libero, alla casa, al lusso, alle disposizioni ambientali ecc., più che alla meccanica o alla mineralogia. Domani un produttore di auto potrà essere un semplice designer o un assemblatore che costruisce auto su misura a seconda della domanda di segmenti specifici del mercato, senza troppo essere interessato ai processi produttivi della meccanica. Lo stesso ragionamento vale a maggior ragione per altri settori, come il tessile o la chimica le cui imprese incidono su mercati ben diversi l’uno dall’altro. L’industria dei mobili ha sempre meno a che fare con la lavorazione del legno e sempre più con il mercato della casa e della moda. Infine, come detto, sempre più le imprese, anche dello stesso settore, hanno dinamiche molto diverse tra di loro, a seconda dell’andamento dei marchi e delle nicchie di mercato dove esse sono situate.
Tutti questi elementi giocano nel senso di dare al contratto aziendale un ruolo maggiore, grazie alla sua capacità di adattarsi alle condizioni specifiche. E poiché ormai esiste una corposa legislazione del lavoro che assicura a tutti i lavoratori condizioni di base eguali e coesione sociale, ecco che i contratti nazionali di settore hanno finito per perdere d’importanza. In un certo senso, sono vittima del loro stesso successo.
È così che la richiesta di un livello contrattuale aziendale è passata da essere una richiesta prettamente sindacale – tanto che nell’accordo del 1993 furono i sindacati dei lavoratori a chiedere uno spazio per i contratti aziendali – a essere anche una richiesta anche da parte delle imprese. Questo processo è avvenuto a partire dal 2000 e si è concretizzato in diversi accordi separati tra Confindustria, CISL e UIL (e altre sigle) con l’astensione della CGIL, fino all’accordo sulle nuove relazioni industriali del 2009.
Certo, nessuno di questi accordi ha seppellito il contratto nazionale di settore. Ma è ovvio che la creazione di uno spazio di contrattazione autonoma aziendale, nonché le possibilità di deroga al contratto nazionale sono tutti elementi che hanno eroso potere e ruolo al contratto nazionale. E infatti, come conseguenza di questi accordi si era pensato di accorpare i contratti nazionali per averne un numero minore, in modo da avere una contrattazione sui minimi contrattuali che interessasse un gran numero di aziende. A loro volta i contratti aziendali avrebbero dovuto riguardare materie di interesse specifico, diverse da quelle del contratto nazionale. Una tendenza che, sia detto per inciso, viene del tutto contraddetta dalla proposta di elaborare un contratto per il settore dell’auto. Ossia un contratto per un comparto all’interno del settore metalmeccanico, ciò che porterebbe all’esplosione dei contratti nazionali di settore, senza una vera logica tanto più che in Italia nel settore dell’auto c’é un’impresa dominante e poco più.
In realtà, se si vuole far convivere il contratto aziendale rinforzato con la contrattazione collettiva, quest’ultima dovrebbe, a mio avviso, coprire quanti più settori possibile. Si potrebbe immaginare anche un contratto per tutto il settore industriale con minimi contrattuali e norme di carattere generale che rappresentino la base per tutte le imprese. Una sorta di minimo salariale che altri paesi hanno sotto forma legislativa, ma che da noi potrebbe essere di natura contrattuale. Questo contratto potrebbe fare da riferimento per i contratti aziendali o contratti per specifici comparti, o anche per contratti territoriali, laddove se ne ravvisasse la necessità (penso alle costruzioni e/o al settore turistico).
Un contratto nazionale riferito a una grande categoria potrebbe essere una soluzione per conservare una coerenza alle relazioni industriali del paese e per mantenere una partecipazione delle parti sociali alla politica economica del paese attraverso un qualche contenuto di politica dei redditi, che potrebbe essere ancora utile in specifiche situazioni. Sarebbe un ruolo meno incisivo di quello del passato, ma le condizioni esterne sono ormai cambiate e nei maggiori paesi industriali non si ricorre più alla politica dei redditi, che difficilmente riesce a generare comportamenti uniformi per realtà complesse e molto diversificate come sono oggi le imprese. D’altra parte siamo nell’era della concorrenza e non sarebbe male che le aziende si facessero concorrenza anche sapendo meglio gestire le proprie risorse umane, che rappresentano la base per la competitività delle aziende stesse.
In definitiva il contratto collettivo di lavoro ha ancora un ruolo da ricoprire se saprà adattarsi alle nuove condizioni, rivestendo un ruolo di guida e di riferimento anche per la politica economica del paese. Sta alle parti sociali decidere si vogliono mantenere questo ruolo.

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