CIO DI CUI HA URGENTE BISOGNO LA NOSTRA AMMINISTRAZIONE GIUDIZIARIA SONO MECCANISMI DI AUTOGOVERNO CHE NE GARANTISCANO IN MODO PIU’ RIGOROSO L’EFFICIENZA, OGGI CLAMOROSAMENTE INSUFFICIENTE. LA RICETTA E’ IN GRAN PARTE LA STESSA CHE VALE PER LE ALTRE AMMINISTRAZIONI: RILEVAZIONE DEGLI INDICI DI PERFORMANCE DEGLI UFFICI E DEI SINGOLI MAGISTRATI, OBBLIGO EFFETTIVO PER I MENO VIRTUOSI DI ALLINEARSI ALLA MEDIA
Lettera pervenuta il 9 gennaio 2009. Segue la mia risposta.
Caro Senatore,
tra le cose che apprezzo del suo modo di fare politica c’è il suo parlare soltanto delle cose di cui è competente, cioè non fare il tuttologo. E’ questo che rende particolarmente interessante quanto Lei dice e scrive. Mi permetto, tuttavia, di proporle una piccola deroga a questa ottima regola, chiedendole di prendere posizione sulla questione della riforma della giustizia, sulla quale si agita oggi il mondo politico. Che poi non sarebbe una vera deroga, perché lei, essendo anche giurista e avvocato, conosce bene anche l’amministrazione giudiziaria e i suoi problemi. Mi interesserebbe anche conoscere, più in particolare, la sua opinione sulla questione delle intercettazioni telefoniche.
Se non vorrà rispondere a queste domande, non per questo verrà meno la stima e la gratitudine per tutto quanto fa per il nostro Paese: stima e gratitudine non solo mie, ma di tante altre persone che conosco qui a Livorno, dove vivo e lavoro.
P.A.
Sono convinto che il primo e più importante problema della giustizia, nel nostro Paese, sia costituito dal grave difetto di efficienza che complessivamente la caratterizza rispetto a tutti gli altri Paesi europei e che si esprime nel dato della durata media dei procedimenti. Se – anche soltanto dal punto di vista dei tempi di giudizio e della produttività – la nostra amministrazione giudiziaria fosse efficiente come quella britannica o quella olandese, per un verso la magistratura stessa ne trarrebbe prestigio e ne acquisterebbe forza e appoggio da parte della cittadinanza, contro qualsiasi tentativo di ridurne l’autonomia; per altro verso vi sarebbero minori spazi per arbitrii (e anche vere e proprie malversazioni) nell’esercizio dei poteri che alla magistratura sono dati. E’ infatti soprattutto nelle situazioni di inefficienza e di ritardo cronico che possono più facilmente innestarsi comportamenti scorretti, volti ad applicare criteri diversi a seconda dei soggetti coinvolti, o comunque a privilegiare o penalizzare una parte rispetto a un’altra (questo vale, del resto, per tutte le funzioni e i servizi pubblici). Per esempio: una Procura della Repubblica capace di trattare tempestivamente l’80 per cento delle notitiae criminis che le pervengono ha molto meno spazio di manovra, per selezionare i casi da trattare e quelli da ignorare, rispetto a una Procura capace di trattarne tempestivamente soltanto il 40 per cento.
Poi si potrà anche discutere dell’opportunità di accentuare o no la separazione (peraltro già esistente, anche se meno marcata che in altri Paesi) della funzione del Pubblico Ministero da quella del Giudice; o dell’opportunità di aumentare o no le garanzie offerte agli imputati dal nostro sistema (garanzie che, peraltro, a me sembrano già oggi, nel complesso, nettamente superiori rispetto a quelle offerte nella maggior parte degli altri Paesi maggiori coi quali dobbiamo confrontarci). Ma la vera riforma di cui la nostra giustizia ha urgente bisogno consiste nell’introduzione di meccanismi di autogoverno trasparente che ne garantiscano efficienza e produttività molto maggiori.
Che cosa si può fare, concretamente. Quando rileviamo che, in una certa sezione di Tribunale o di Corte d’Appello, il tempo medio di chiusura dei procedimenti è – per esempio – di 500 giorni, dietro questo dato si nasconde il dato individuale del magistrato migliore (300 giorni) e di quello peggiore (700 giotni); se quest’ultimo venisse costretto ad allinearsi alla media entro un anno, il tempo medio in quella sezione si ridurrebbe a 400 giorni; e nell’anno successivo si ridurrebbe a 350 giorni. Se poi applichiamo questo meccanismo di benchmarking anche alle performances dei diversi uffici, in una situazione nella quale il tempo medio di 500 giorni nasconde il dato relativo all’ufficio più efficiente (300) e quello dell’ufficio peggiore (700), possiamo ottenere l’allineamento progressivo di quest’ultimo a una media, la quale migliorerà a sua volta progressivamente per effetto di quel riallineamento delle performances peggiori.
Se, infine, tutti questi dati saranno accessibili in rete, in modo che il progressivo allineamento dei peggiori alla media sia controllabile dall’opinione pubblica, questo costituirà un potente incentivo all’esercizio corretto e incisivo dei poteri organizzativi e disciplinari da parte degli organi di autogoverno della magistratura. Si tratta dunque, in conclusione, di applicare anche all’amministrazione della giustizia quegli stessi principi di trasparenza, valutazione e benchmarking comparativo che, a mio modo di vedere, come i frequentatori di questo sito ben sanno, costituiscono gli elementi essenziali della terapia di cui necessitano tutte le nostre amministrazioni pubbliche (v. in proposito il Portale della trasparenza e della valutazione nelle amministrazioni pubbliche).
Entro la prossima primavera saranno disponibili i primi risultati di una ricerca sul campo svolta da una équipe diretta da mio fratello Andrea, in riferimento ai Tribunali di Milano e Torino, con alcune indicazioni operative molto concrete.
Quanto alla questione delle intercettazioni telefoniche, la nostra esperienza passata, remota e recente, e quelle dei Paesi più civili mi confermano nella convinzione che questo sia uno strumento indispensabile per le indagini, non solo nel campo della criminalità organizzata, ma anche in quello della corruzione e delle malversazioni nelle amministrazioni pubbliche. Ciò che non è accettabile non è che i pubblici ministeri dispongano di questo strumento, ma che le conversazioni intercettate possano essere pubblicate prima che si arrivi al rinvio a giudizio dell’imputato.
Tra le due soluzioni estreme – quella della massima protezione dell’interesse all’inaccessibilità delle comunicazioni private (divieto di intercettazione a fini giudiziari) e quella del massimo sacrificio di quell’interesse (legittimità dell’intercettazione a fini giudiziari e della pubblicazione da parte dei media che riescano a impossessarsi della relativa trascrizione), a me sembra che la soluzione più ragionevole stia nel mezzo: i magistrati utilizzino pure questo strumento di indagine, ma è fatto divieto a chiunque – ai giudici stessi, ai cancellieri, ai giornalisti che indebitamente ne vengano in possesso – di divulgare prematuramente il contenuto delle comunicazioni private. E’ la conclusione cui è giunto anche Gianfranco Fini il 10 gennaio scorso: non si tratterebbe di “mettere il bavaglio alla stampa”, come qualcuno ha sostenuto, ma di applicare, doverosamente, anche ai giornalisti e a chiunque altro venga lecitamente o illecitamente in possesso del testo protetto, lo stesso obbligo di segreto che vincola giudici, cancellieri e avvocati (il diritto alla riservatezza e il diritto al segreto hanno costituito il mio primo oggetto di studio approfondito, ormai trent’anni or sono: rinvio a un mio libro del 1979 e a un mio saggio del 1983). (p.i.)