VELTRONI: TUTTI DEVONO CAMBIARE QUALCOSA

IL FONDATORE DEL PD – OGGI LEADER DEL “MOVIMENTO DEMOCRATICO” – PRENDE POSIZIONE IN MODO MOLTO NETTO E PUNTUALE A SOSTEGNO DELLE MIE TESI E DEL PROGETTO DI RIFORMA DEL DIRITTO SINDACALE CONTENUTO NEL DDL N. 1872/2009

Lettera di Walter Veltroni al Direttore de la Stampa, pubblicata dal quotidiano torinese il 5 gennaio 2011

Caro direttore, i progressisti possono essere quelli che, per contrastare la cattiva innovazione, scelgono di opporsi a qualsiasi innovazione, chiudendosi a difesa dell’esistente. Così però rischiano di condannarsi al minoritarismo e di non essere in grado di tutelare le ragioni stesse della loro identità. Per questo, l’ho detto più volte e come me Sergio Chiamparino, la parola chiave del centrosinistra non può essere “difendere”, deve essere “cambiare”. Seguirono questa regola i riformisti della FIOM, guidati da un giovanissimo Bruno Buozzi, quando nel 1923 – di fronte alla prospettiva della grande trasformazione ford-tayloristica della fabbrica – firmarono con Giovanni Agnelli un accordo che concedeva al padrone maggiori spazi di iniziativa nella riorganizzazione del lavoro e delle sue condizioni, in cambio del riconoscimento al sindacato della piena capacità di rappresentanza dei lavoratori. Fu l’accordo che aprì la strada al contratto collettivo di lavoro: una rivoluzione nelle relazioni sindacali di allora.
     Sono passati quasi cento anni. Ma oggi la sfida si ripropone, con impressionanti analogie: costruire un nuovo modello di relazioni sindacali per renderle capaci di “regolare” il rapporto e la prestazione di lavoro nella fase di investimenti reclamati dalla competizione globale e dall’innovazione tecnologica. Le regole della rappresentanza da ridefinire, per fare non meno, ma più contrattazione, in un contesto sicuro di diritti e di doveri: chi, scelto come, può firmare impegnando tutti, con qualsiasi clausola di responsabilità, esigibili sia da parte dei lavoratori, sia da parte dell’azienda.
     Marchionne ha posto con chiarezza, durezza e per tempo il problema: come ha scritto Berta (Sole 24 Ore del 14 dicembre) “la FIAT intende dar seguito ai programmi di investimento solo se i regimi di orario e le condizioni di lavoro garantiranno massima efficienza”. Non si tratta della proposta di abolire la contrattazione, o di ridimensionarne l’ambito e l’oggetto: è però certo che le tradizionali relazioni industriali, tutte incentrate sul contratto nazionale di categoria, non sono in gradi di “ospitare” il confronto tra le parti in modo tale da renderlo capace di fornire una risposta positiva alle esigenze di grandi e piccoli insediamenti produttivi nell’Europa del nuovo millennio. Ci vuole un contratto di lavoro costruito più a ridosso dell’organizzazione aziendale. Lo ha detto con parole chiare il Presidente di Federmeccanica, Pier Luigi Ceccardi: “oggi ogni impresa ha sempre più caratteristiche sue proprie per tecnologia, organizzazione produttiva, prodotto, mercato. Ed anche, sottolineo, per realtà e stile di gestione delle relazioni industriali”.
     La contrattazione nazionale potrà mai rispondere pienamente a queste caratteristiche? No. E l’incertezza che ne consegue non solo potrebbe indurre la FIAT a non dar corso agli investimenti già programmati con Fabbrica Italia, ma è forse il principale fattore (con le cattive performance della PA, giustizia civile in particolare) che tiene lontane le grandi multinazionali dal realizzare investimenti importanti nel nostro Paese.
     Ce ne mostravamo consapevoli già nei primi mesi del 2008, quando scrivemmo, nel Programma elettorale del PD, a proposito della necessaria riforma del Patto di Luglio del ’93: “ora serve un nuovo modello, con un nuovo obiettivo: l’incremento della produttività totale dei fattori, introducendo fortissime dosi di innovazione nel nostro sistema economico ed aprendolo agli investimenti stranieri… Tutti devono “cambiare” comportamenti e capacità di rappresentanza: la politica, certo. Ma anche le forze sociali, per le quali diventa urgente (per renderle protagoniste della contrattazione di secondo livello, dove si può agire sulla produttività), una (auto)riforma delle regole della rappresentanza”. Non ho cambiato idea, di fronte alle pur grandi difficoltà poste dalla scelta di Marchionne di usare la normativa in vigore per escludere, in modo che non può essere accettato, la FIOM dalla rappresentanza: il modello contrattuale “di fatto” vigente, produce un effetto depressivo sui livelli retributivi e ostacola gli investimenti stranieri abbinati a piani industriali innovativi. Esso, dunque, va profondamente cambiato, affermando la centralità della contrattazione di secondo livello – azienda, distretto, filiera e territorio. Come hanno scritto in un loro documento  Ichino e altri esponenti del PD, diversamente collocati nella dialettica dell’ultimo Congresso del partito, “la via maestra per il riassetto del sistema delle relazioni industriali dovrebbe essere quella di un accordo interconfederale sottoscritto da tutte le confederazioni imprenditoriali e sindacali maggiori, nel quale trovino compiuta disciplina i cinque temi cruciali: misurazione della rappresentatività di ciascun sindacato nei luoghi di lavoro; efficacia soggettiva dei controlli collettivi; rapporti tra contratti collettivi di diverso livello; esercizio del diritto di sciopero; efficacia della clausola di tregua sindacale”. Ma, se a questo accordo non si giunge in tempi brevi e prefissati, non si può riconoscere a nessuno il diritto di bloccare tutto, col suo veto. Si dovrebbe proporre una soluzione legislativa, come quella da tempo delineata dal disegno di legge 11 novembre 2009 n. 1872, presentato in Senato da 55 senatori del PD.
     Adottando questo insieme di soluzioni, si offre una risposta semplice e lineare al problema della pretesa (da FIAT) esclusione della FIOM dalla rappresentanza sindacale aziendale. Si tratta dell’esito inaccettabile (e per certi versi paradossale) di una ennesima vicenda di ordinario conservatorismo: le regole in vigore-allora immaginate dal sindacato per escludere i cobas- che avrebbero dovuto essere cambiate da tempo e non lo sono state perché “guai a chi tocca il sistema dei diritti”, riconoscono rappresentanza solo a chi firma accordi. È proprio vero che le regole fatte per fotografare un’esigenza del presente, trovano sempre il modo di ribaltarsi, nel futuro, contro i loro autori. Ma una disciplina molto semplice e lineare della rappresentanza sindacale nei luoghi di lavoro deve consentire ai lavoratori di definire col voto il sindacato o la coalizione sindacale titolare della maggioranza dei consensi, dal livello aziendale fino a quello nazionale, così stabilendo chi è in grado di firmare contratti applicati erga omnes, e quindi impegnativi anche per le minoranze, con annesse clausole di responsabilità e di tregua sindacale, con riferimento alle materie regolate dal contratto stesso.
     Ma è anche il momento di affrontare un tema per troppo tempo rimosso e che invece considero, non diversamente da Eugenio Scalfari che ne ha scritto domenica su Repubblica, una delle nuove frontiere della innovazione e della giustizia sociale, l’una e l’altra così urgentemente necessarie al nostro paese.
     Parlo della partecipazione dei lavoratori nell’impresa. Scrivevamo nel già citato Programma elettorale: “Imprenditore e lavoratore sono legati da un comune destino. È quindi necessario dare avvio a forme più avanzate di democrazia economica, anche per consentire ai lavoratori di partecipare ai profitti dell’impresa: (1) partecipazione finanziaria… con un mercato di capitali “da lavoro dipendente”, con l’azionariato dei dipendenti e un più forte ruolo dei fondi pensione promossi dalla contrattazione collettiva; (2) il modello duale della governance d’impresa, anche prevedendo al presenza dei rappresentanti dei lavoratori nel Consiglio di Sorveglianza; (3) forme negoziate tra le parti di costruzione di un legame diretto tra componenti della retribuzione e utili di impresa…”.
     E’ un tema sul quale si deve discutere, senza i fantasmi del passato. Ci torneremo sopra alla prossima Assemblea del Lingotto (22 gennaio), perché credo che tutti – a partire dai lavoratori della FIAT – abbiano il diritto-dovere di rispondere un chiaro Sì alle richieste di Marchionne di modernizzazione delle relazioni sindacali italiane, anche mutuando le soluzioni da esperienze di altri Paesi, a partire dalla Germania. Ma allo stesso modo penso che Marchionne, AD di un’impresa , fuori dall’Italia, che ha come maggiore azionista un sindacato, mentre chiede di applicare il modello tedesco della clausola di tregua, non potrà certo rispondere, alla domanda di forme nuove e incisive di partecipazione dei lavoratori nella impresa, con un rinvio alla “peculiarità” della situazione italiana.

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