GLI STRUMENTI CONTRO LA DISUGUAGLIANZA E L’APARTHEID FRA PROTETTI E PRECARI

DETASSARE I REDDITI DI LAVORO PIU’ BASSI E’ SOLO UN PROBLEMA DI DENARO PUBBLICO E DI VOLONTA’ POLITICA. ESTENDERE A TUTTI I LAVORATORI GLI AMMORTIZZATORI SOCIALI, INVECE, PUO’ NON COSTARE UNA LIRA ALL’ERARIO, MA RICHIEDE LA PARALLELA ATTIVAZIONE DI SERVIZI EFFICIENTI DI RIQUALIFICAZIONE E RICOLLOCAMENTO, CHE OGGI NON ABBIAMO

Articolo pubblicato su il Riformista – 11 gennaio 2009

            Il fenomeno dell’aumento delle disuguaglianze e dei tassi di povertà interessa ormai tutti i Paesi dell’Occidente industrializzato da almeno un quindicennio; e la crisi lo sta aggravando. Al punto che dovrebbero incominciare a occuparsene seriamente non soltanto le forze politiche di sinistra, ma anche quelle di destra, là dove sono al governo (ha ragione il Presidente della Repubblica a sottolinearlo, nel suo discorso di fine anno), perché una crescita così rapida delle disuguaglianze può minare la basi stesse di un sistema democratico.
            Una misura giusta e facile da attuare, a sostegno dei lavoratori più deboli, sarebbe la drastica riduzione dell’Irpef sui redditi di lavoro fino a quella “soglia di povertà” che è costituita oggi dai 1000 euro al mese. Ridurre l’imposta su questo reddito minimo dai 100 euro al mese di oggi a 10 euro costerebbe circa 8 miliardi: meno di quello che il Governo ha speso per abolire l’ICI sulle case dei ricchi e per ritardare di un anno la vendita di Alitalia a Air France-KLM; e meno di quello che lo Stato risparmierà nel 2009 per la riduzione dei tassi di interesse sul debito pubblico, conseguente alla crisi economica.
            Altrettanto giusta, ma molto meno facile da attuare, è l’estensione a tutti i lavoratori dei cosiddetti “ammortizzatori sociali”. Di queste forme di sostegno nei periodi di crisi oggi gode pienamente soltanto metà dei lavoratori del settore privato; l’altra metà ne gode in misura minima (i dipendenti regolari delle imprese di piccole dimensioni) o non ne gode affatto (i lavoratori precari: a termine, “a progetto”, irregolari). L’estensione di queste provvidenze a tutti è meno facile da attuare perché, mentre lo sgravio fiscale costituisce un incentivo al lavoro, invece il sostegno del reddito nei periodi di disoccupazione è, di per sé, un disincentivo: rischia quindi di “addormentare” la ricerca di un nuovo lavoro. Questo rischio si può evitare solo se si coniuga strettamente il sostegno del reddito con iniziative efficaci per la riqualificazione e il ricollocamento al lavoro di chi lo ha perso; il problema è che purtroppo i servizi pubblici di riqualificazione e di ricollocamento al lavoro, nel nostro Paese, funzionano molto male.
            Una via per uscirne c’è, a costo zero per lo Stato. Consiste nel porre a disposizione di datori e prestatori di lavoro la possibilità di stipulare un “contratto di transizione” al nuovo sistema di protezione, ispirato ai migliori modelli nord-europei di coniugazione della flessibilità per le imprese con la sicurezza per i lavoratori. Le imprese che firmano questo contratto collettivo si impegnano ad applicare il nuovo regime a tutti i lavoratori che assumeranno d’ora in avanti; rinunciano, cioè, a dividerli tra stabili e precari: tutte le nuove assunzioni sono a tempo indeterminato, in cambio della possibilità di licenziare in caso di necessità economica od organizzativa, col solo obbligo di farsi carico del costo sociale dell’operazione. Le imprese stesse si impegnano infatti a garantire a tutti coloro che perderanno il posto una congrua indennità di licenziamento un trattamento di disoccupazione robusto, “alla danese”, e servizi di riqualificazione e ricollocazione efficienti, gestiti da un ente bilaterale o consortile finanziato da loro (per i dettagli rinvio al mio sito: www.pietroichino.it). Più questi servizi saranno efficienti, più corto sarà il periodo di disoccupazione, quindi più basso il costo per le imprese: ecco un forte incentivo a far funzionare bene il meccanismo.
            Quanto potrebbe costare questo patto alle imprese? Molto meno di quel che comunemente si pensa: mediamente lo 0,5 per cento del monte-salari totale. Lo Stato potrebbe incentivare il “contratto di transizione” con uno sgravio fiscale; ma questo sarebbe indispensabile soltanto per indurre a questo passo le imprese di piccole dimensioni (le quali già oggi godono di una maggiore flessibilità nella gestione degli organici). Le imprese maggiori, che occupano due terzi della forza-lavoro nel settore privato, non hanno bisogno di questa agevolazione per trovare vantaggi in questo new deal: esse guadagnerebbero in flessibilità nei nuovi rapporti, affrancandosi dalla necessità di attingere alla palude attuale del lavoro precario. Quanto ai lavoratori, si avvierebbe gradualmente il superamento totale del regime di apartheid che oggi divide i precari dai protetti: senza toccare il vecchio sistema di protezione di cui godono i regolari già in organico, tutti i nuovi assunti incomincerebbero a godere di un regime di protezione di tipo nord-europeo. Anche un sindacato molto sbilanciato nel senso della tutela dei vecchi insiders avrebbe grosse difficoltà a fare le barricate contro questa operazione.
            Se dalla conferenza programmatica del Pd del febbraio prossimo uscirà questa proposta, come risponderanno il Governo e il Pdl?

Stampa questa pagina Stampa questa pagina

 

 
 
 
 

WP Theme restyle by Id-Lab
/* */