MIRAFIORI IMPONE LA RIFORMA DEL DIRITTO SINDACALE

L’ “ACCORDO DI NATALE” STIPULATO NELLO STABILIMENTO TORINESE DELLA FIAT – CHE APPLICA ALLA LETTERA LA LEGISLAZIONE ATTUALE IN MATERIA DI DIRITTI SINDACALI IN AZIENDA – MOSTRA QUANTO SIA URGENTE RIDISEGNARE LE REGOLE DEL SISTEMA DELLE RELAZIONI INDUSTRIALI PER APRIRLO ALL’INNOVAZIONE E AGLI INVESTIMENTI STRANIERI, SALVAGUARDANDO IL PLURALISMO SINDACALE

Intervista a cura di Pierluigi Bonora, pubblicata dal Giornale il 27 dicembre 2010 – Sullo stesso tema v. anche l’articolo dello storico dell’industria Giuseppe Berta sul Sole 24 Ore del 24 dicembre – Tutti gli articoli e le interviste precedenti sulla vicenda dell’accordo di Pomigliano sono disponibili nella sezione Sindacato

«Sergio Marchionne – dice subito Pietro Ichino, ordinario di diritto del lavoro alla Statale di Milano e senatore del Pd, uno dei massimi esperti del diritto del lavoro e delle relazioni industriali – ha ragione quando chiede che il contratto aziendale sia una cosa seria. Per questo occorre una regola che sancisca il potere della coalizione sindacale maggioritaria di stipulare un accordo con efficacia davvero vincolante per l’impresa e per tutti i dipendenti; compresa la clausola di tregua (ovvero l’impegno a non scioperare contro l’accordo stesso, ndr)».

È la sintesi, contestuale a quanto sta accadendo in questi giorni dopo l’accordo raggiunto su Mirafiori da Fiat e sindacati, Fiom esclusa, di un suo disegno di legge.
«Sì: il disegno di legge numero 1872, che ho presentato l’anno scorso, con altri 54 senatori. Ma il progetto risale al mio libro del 2005 A che cosa serve il sindacato, dove quello che sta accadendo in questi giorni è previsto con una certa previsione e spiegato».

La Fiom, intanto, è rimasta fuori e si prepara ad affrontare il 2011 in una posizione di isolamento, con tutti i rischi che questo può comportare.
«Quel progetto servirebbe a far sì che la Fiom rimanga dentro il “sistema costituzionale” delle relazioni industriali, anche se non ha firmato l’accordo. Conviene anche alla Fiat che essa abbia i propri rappresentanti sindacali in azienda e non diventi un “super-Cobas”.

E come si ottiene questo risultato?
«Occorre una regola che, come è previsto nello stesso disegno di legge numero 1872, attribuisca anche al sindacato minoritario il diritto alla rappresentanza, in proporzione ai consensi ricevuti in un’elezione triennale. Quello che non va riconosciuto al sindacato minoritario è il potere di veto di cui esso dispone nel nostro sistema attuale di relazioni industriali, che proprio per questo è obsoleto e inconcludente».

L’accordo di Mirafiori, come già quello di Pomigliano, è accusato di violare i diritti fondamentali dei lavoratori…
«La Fiom ha torto, e con essa hanno torto Sergio Cofferati e Luciano Gallino (Repubblica del 24 dicembre, ndr), quando confondono le regole contenute nel Contratto collettivo nazionale con i “diritti fondamentali dei lavoratori”. La Cgil fece già questo errore nei primi anni ’50 e subì una durissima sconfitta, proprio nelle elezioni della Commissione interna della Fiat, nel 1955; sembra che oggi se ne sia del tutto dimenticata. Fiom, Cofferati e Gallino sbagliano, sul piano tecnico-giuridico, anche quando denunciano l’illegalità, addirittura l’incostituzionalità, dell’accordo di Mirafiori nella parte in cui esso nega alla Fiom il diritto di costituire una sua rappresentanza sindacale riconosciuta in seno all’azienda».

Entriamo nel dettaglio.
«L’accordo applica alla lettera quanto è previsto dall’articolo 19 dello Statuto dei lavoratori, come modificato dal referendum del 1995 (ha diritto a costituire la Rsa solo il sindacato che ha firmato almeno un contratto collettivo applicato nell’azienda). E la Corte costituzionale ha più volte dichiarato la piena compatibilità di questa norma, anche così modificata, con il principio di libertà sindacale sancito dall’articolo 39 della Carta».

Relazioni industriali più «americane», con meno pluralismo sindacale in azienda?
«È così: l’articolo 19 dello Statuto, come è stato modificato dal referendum del 1995, è più vicino alla cultura delle relazioni industriali statunitense che a quella italiana, fortemente legata al principio del pluralismo sindacale. Se fino a ieri l’opinione pubblica non se n’era accorta è solo perché, di fatto, si è continuato ad applicare la norma sulle rappresentanze unitarie contenuta nel protocollo Ciampi del 1993; e nessuna grande multinazionale è venuta a chiedere una stretta applicazione della norma del 1995, con la medesima ruvida  fermezza con cui lo ha fatto Marchionne».

A questo punto, come se ne esce?
«Resto convinto che sia possibile e utile per tutti, a cominciare da Confindustria e dalla Fiat, riscrivere questa norma in modo da conciliare la nostra tradizione di pluralismo sindacale con l’esigenza di togliere il potere di veto alle minoranze e di aprire il sistema agli investimenti stranieri e ai piani industriali innovativi».

La Cgil ha comunque sempre opposto un muro.
«A chi aveva avvertito la necessità di una profonda riforma del diritto sindacale italiano la Cgil finora ha sempre risposto difendendo recisamente lo status quo: “Non si deve toccare nulla, per non mettersi su di un piano inclinato: altrimenti, si sa dove si incomincia, ma non si sa dove si va a finire”».

E così si è arrivati allo strappo.
«Anche il contratto collettivo nazionale non lo si doveva toccare: infatti quello dei metalmeccanici è rimasto sostanzialmente uguale a se stesso dal 1972. Ora tutti vedono a che cosa ha portato quella difesa a oltranza dell’intangibilità del contratto collettivo nazionale».

Adesso che cosa accadrà nella parte restante del nostro tessuto produttivo?
«Come prevedevo nel mio libro di cinque anni fa, il contratto collettivo nazionale conserverà un suo ruolo insostituibile, ma solo come “rete di sicurezza”, cioè come disciplina applicabile dove manchi un contratto aziendale, stipulato da una coalizione sindacale maggioritaria. Questo è quello che propongo nel mio disegno di legge; ma mi sembra che le cose si stiano muovendo da sole in questa direzione».

 

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