LA LEVA PIU’ POTENTE E PIU’ IMMEDIATA DI CUI DISPONIAMO PER TORNARE A CRESCERE E’ COSTITUITA DALL’APERTURA DEL NOSTRO SISTEMA AGLI INVESTIMENTI STRANIERI, PER LA QUALE OCCORRONO MISURE DI MEDIO E LUNGO TERMINE, MA POSSONO ESSERE MOLTO EFFICACI ANCHE NELL’IMMEDIATO MISURE DI RAPIDA E POCO COSTOSA ATTUAZIONE
Intervista a cura di Luisa Grion pubblicata su Repubblica il 17 dicembre 2010
Usciremo dalla crisi solo se sapremo attrarre investimenti, progetti, idee dagli altri Paesi più avanzati. Così la pensa Pietro Ichino, giuslavorista e parlamentare del Pd.
Senatore Ichino, la Confindustria dice che l’Italia è deludente, che nei prossimi anni il Pil crescerà pochissimo e che l’occupazione non sarà recuperata. Di chi è la colpa?
In primo luogo, la colpa è di tutti i difetti del sistema Italia che lo chiudono agli investimenti stranieri: peggio di noi in Europa, su questo terreno, fa soltanto la Grecia. Se fossimo capaci di allinearci alla media Europea, attireremmo 30 miliardi in più di investimenti ogni anno. E non sarebbe soltanto domanda di manodopera aggiuntiva, ma anche piani industriali innovativi, che aumenterebbero la produttività del lavoro degli italiani, quindi anche le loro retribuzioni.
Lo studio segnala che abbiamo perso 540 mila posti di lavoro in due anni e che nel 2011 la disoccupazione salirà ulteriormente. Pensa che anche le imprese abbiano responsabilità in proposito?
Penso che il nostro mercato del lavoro da un lato subisce inevitabilmente gli effetti negativi della globalizzazione, cioè le delocalizzazioni, la concorrenza dei lavoratori dei Paesi emergenti nella fascia professionale più bassa; ma dall’altro lato non è capace di sfruttare un aspetto positivo della globalizzazione: la possibilità di attirare in casa nostra il meglio dell’imprenditoria mondiale.
Che cosa ce lo impedisce?
Un ostacolo, certo, è costituito dai difetti di funzionamento delle nostre amministrazioni pubbliche e delle nostre infrastrutture. Un ostacolo ulteriore è costituito dal costo troppo alto dei servizi alle imprese, dovuto ai difetti di concorrenza nei relativi mercati in Italia. Ma un’altra causa non secondaria della nostra scarsa attrattività per gli investitori stranieri è costituita dalla complessità e non traducibilità in inglese della nostra legislazione nazionale in materia di lavoro. E un’altra causa ancora è costituita dall’inconcludenza e vischiosità del nostro sistema delle relazioni industriali: la vicenda Fiat di questi giorni ne è soltanto l’ultima manifestazione.
Gli industriali bocciano di fatto la politica economica del paese. Secondo lei un governo, di destra o di sinistra che sia, cosa dovrebbe fare ora per segnare una svolta?
Dovrebbe dedicarsi a curare ciascuno dei difetti che ho detto. Le misure che potrebbero produrre effetti più rapidamente, e con minori costi, sono la riduzione degli ostacoli burocratici, la semplificazione drastica della legislazione del lavoro, che non significa affatto riduzione del livello delle protezioni; e poi una regolazione snella delle relazioni sindacali nei luoghi di lavoro che introduca il principio di democrazia sindacale eliminando i poteri di veto che oggi possono essere esercitati dalle minoranze. A questo serve il progetto del “Codice del lavoro semplificato” che ho presentato un anno fa con altri 54 senatori di opposizione.
E’ d’accordo nel dire che il paragone con la Germania è impietoso? Il loro è un modello da copiare?
Sul piano della performance economica complessiva, il confronto è davvero impietoso. Quanto al modello tedesco di relazioni industriali, a me sembra che possiamo trarne davvero molti importanti insegnamenti. E infatti il progetto di riforma di cui ho parlato prima si ispira per molti aspetti a quel modello.