MARCHIONNE, CONFINDUSTRIA E IL RUOLO DEL CONTRATTO NAZIONALE

QUESTA VICENDA SEGNERA’ UNA SVOLTA NEL NOSTRO SISTEMA DI RELAZIONI INDUSTRIALI, TANTO NECESSARIA QUANTO PREVEDIBILE (E PREVISTA) – IL CONTRATTO COLLETTIVO NAZIONALE PUO’ CONSERVARE UN RUOLO ASSAI RILEVANTE, PURCHE’ COME BENCHMARK E DISCIPLINA “DI DEFAULT“, MA NON COME DISCIPINA RIGIDAMENTE INDEROGABILE

Intervista all’agenzia di stampa APCom, a cura di Raffaella Bruno, 12 dicembre 2010

Secondo lei l’uscita della Fiat da Confindustria per evitare l’applicazione del contratto collettivo nazionale dei metalmeccanici come inciderà più in generale sul quadro delle relazioni industriali in Italia?

Questa vicenda segnerà una svolta molto importante. Ma una svolta prevista: cinque anni fa ho scritto un libro (A che cosa serve il sindacato, Mondadori, 2005 – n.d.r.) per spiegare perché era ed è indispensabile e anche per descriverla nei dettagli, proprio in riferimento al settore dell’automobile.

 

Non le sembra che Confindustria ne esca delegittimata?

No: ne esce soltanto sottolineato il ritardo del suo apparato – conservatore come tutti gli apparati – nel rendersi conto di questa necessità. Ma la Confindustria conserverà il suo ruolo, perché lo conserverà il contratto collettivo nazionale: non più come disciplina rigidamente inderogabile dei rapporti di lavoro in tutte le aziende del settore, ma come disciplina “di default”, cioè applicabile solo là dove non ci sia una disciplina contrattata con una coalizione sindacale maggioritaria a un livello più vicino al luogo di lavoro.

 

Quello che sta accadendo alla Fiat non può essere d’esempio per altre categorie, che potrebbero uscire da Confindustria svuotandola gradualmente?

Se cambia la natura del contratto collettivo nazionale, lasciando tutto lo spazio necessario alla contrattazione aziendale, non ci sarà più nessun motivo di uscire da Confindustria. Infatti anche la Fiat prevede di rientrarvi, non appena questa autoriforma del sistema della contrattazione collettiva sarà stata compiuta.

 

Con questa che lei chiama “autoriforma” non si corre il rischio di una anarchia contrattuale?

No, perché il contratto nazionale conserverà una funzione di benchmark, di punto di riferimento, dal quale nessun sindacato potrà prescindere: se lo scostamento negoziato al livello aziendale portasse complessivamente a star peggio rispetto al benchmark, i lavoratori gliene chiederebbero conto e alla prima occasione sceglierebbero di farsi rappresentare da un altro sindacato. D’altra parte, l’unico modo in cui il nostro tessuto produttivo può aprirsi all’innovazione è questo: consentire che il sindacato, operando come “intelligenza collettiva” dei lavoratori, valuti il piano industriale innovativo e, se la valutazione è positiva, guidi i lavoratori nella scommessa comune con l’imprenditore su quel piano negoziandolo a 360 gradi. Altrimenti continueremo, come facciamo ora, per paura dell’innovazione positiva, a chiudere le porte anche a quella buona.

 

Siamo davvero di fronte a un cambiamento storico?

Di questo aggettivo di tende ad abusare. Però credo che di questa svolta i libri di storia del nostro sistema di relazioni industriali tra qualche decennio parleranno ancora.

 

 

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