LA QUESTIONE DEL PRATICANTATO FORENSE

L’ARTICOLO 39 DEL DISEGNO DI LEGGE SULLA RIFORMA FORENSE, CONTENENTE LA DISCIPLINA DEL PRATICANTATO, ESALTA L’INTENDIMENTO CONSERVATORE E CORPORATIVO CHE CARATTERIZZA L’INTERO PROVVEDIMENTO

Quello che segue è il testo scritto dell’intervento svolto nella sessione pomeridiana del Senato del 16 novembre 2010 – V. anche una selezione degli interventi sulla stessa materia, estratti dal resoconto sommario della discussione in Senato

Signor Presidente, colleghi, la questione del rapporto tra avvocato libero professionista e praticante è una questione molto importante e delicata, che questo disegno di legge affronta in modo inadeguato.
Questione importante, perché il tirocinio è il momento in cui la vecchia generazione trasmette il proprio patrimonio di esperienza professionale alla nuova, e al tempo stesso il momento in cui la crisalide si trasforma in farfalla, in cui sedici o diciotto anni di formazione scolastica e universitaria si trasformano in competenza professionale operativa, in cui il giovane studioso si trasforma in professionista.
Questione delicata, perché il tirocinio è per definizione un rapporto nel quale un professionista maturo fornisce al giovane neo-laureato preziosa formazione, ma al tempo stesso un rapporto nel quale il giovane svolge una prestazione lavorativa dalla quale il professionista trae un vantaggio economicamente apprezzabile. La delicatezza della questione nasce dal fatto che la proporzione tra il peso dell’una prestazione – quella formativa – e dell’altra – quella lavorativa – non è predeterminabile, non è riconducibile a uno standard, come invece in qualche misura lo è la proporzione tra lavoro e retribuzione nel rapporto di lavoro dipendente ordinario. Nel rapporto di praticantato, quella proporzione muta non solo da caso a caso, da rapporto a rapporto, in funzione della qualità del professionista e della qualità del giovane praticante; ma muta anche nel tempo, nell’ambito di ciascun singolo rapporto di praticantato: all’inizio il praticante assorbe più fatica formativa dal professionista di quanto non riesca a dare in termini di lavoro utile; ma poi, se le cose vanno come devono, questa proporzione si inverte. E a quel punto, normalmente, il professionista è ripagato più che lautamente dell’investimento iniziale.
Il problema che si pone al legislatore è duplice: per un verso evitare che la fissazione di standard di trattamento del praticante troppo onerosi produca un effetto depressivo sulla disponibilità dei professionisti ad accogliere i praticanti presso i propri studi; per altro verso evitare che l’assenza di qualsiasi regola, in un “mercato” caratterizzato da un forte squilibrio di potere contrattuale tra le parti, generi situazioni di sfruttamento, quali quelle che troppo sovente sono sotto i nostri occhi: non è infrequente, purtroppo, che si vedano studi legali anche prestigiosi sfruttare in modo indecente il lavoro di giovani praticanti non solo nei primi mesi di tirocinio ma anche per anni, imponendo loro orari di dieci o dodici ore di lavoro al giorno e mansioni talvolta proprie di una segreteria amministrativa più che di un professionista in formazione.
Questo è il delicato problema. Un problema che la maggior parte degli altri ordinamenti europei affronta con norme di vario genere, volte appunto a realizzare l’equilibrio necessario tra gli interessi in gioco impedendo che sotto la forma di un rapporto di tirocinio si nasconda un sostanziale sfruttamento di giovani per mansioni amministrative; o che in attesa dell’abilitazione il lavoro professionale dei new entrants divenga oggetto di rapina da parte degli insiders. Per garantire che anche questo periodo iniziale della vita professionale generi un inizio di posizione previdenziale, ricongiungibile anche, eventualmente, con periodi di contribuzione maturati in precedenza o in epoca successiva in gestioni previdenziali diverse. Insomma, in altre parole, il panorama internazionale delle discipline della materia mostra come ci siano molte cose che possono e devono essere disciplinate, in riferimento a questo rapporto importante e delicato, senza che questo significhi un meccanico trapianto in questo campo dell’intero apparato protettivo proprio del rapporto di lavoro subordinato ordinario. Nel regolamento emanato dall’Autorità competente in questa materia nel Regno unito si disegnano addirittura tre forme tipiche di rapporto tra solicitor o barrister e trainee, il giovane tirocinante, con tanto di retribuzione minima in relazione allo stadio di avanzamento della formazione, di principi applicabili circa il tipo di attività coerenti con le finalità formative, di procedure di performance review. Meno dettagliato ma pur sempre ricco di spunti interessanti per questo aspetto il regolamento vigente in Germania (emanato il 1° marzo scorso, paragrafi da 26 a 28), in Francia (legge 31 dicembre 1971), in Spagna (dove il tirocinio è considerato un sottotipo del “contratto di lavoro professionale”, e come tale è disciplinato compiutamente nell’articolo 9 del decreto n. 1331 del 2006), in Slovenia (dove al tema sono dedicati quattro articoli, dal 33 al 36, del decreto che regola la materia), in Danimarca (nel Code of Conduct emanato dalla Danish Bar and Law Society).
Ora, di tutto questo, nel disegno di legge scritto e fortemente voluto dal Consiglio Nazionale Forense, e fatto acriticamente proprio da questa maggioranza, non c’è nulla. Nell’articolo 39 leggiamo soltanto l’interesse degli insiders a erigere un nuovo e aggiuntivo sbarramento all’accesso alla professione da parte degli outsiders: addirittura un esame per l’accesso alla pratica forense, che non è previsto in nessun altro ordinamento; in questo articolo leggiamo soltanto la preoccupazione del titolare di studio legale di escludere ogni possibile pretesa del giovane praticante (comma 9: “Il tirocinio professionale non determina l’instaurazione di rapporto di lavoro subordinato”). Non una parola, invece, sulla equa retribuzione in relazione al rapporto di cui si è detto tra formazione impartita e prestazione lavorativa via via più produttiva. Quando abbiamo discusso dell’articolo 12 ci avete detto che le tariffe professionali minime inderogabili sono necessarie, pur in un rapporto contrattuale che non soffre di squilibri tipici tra prestatore e committente, addirittura per garantire la qualità e la dignità della prestazione dell’avvocato; ora invece, quando si discute del trattamento dei praticanti, in un rapporto in cui lo squilibrio tipico tra le parti è evidentissimo, rifiutate di porre anche solo un minimo di standard di decenza del trattamento. Come la mettiamo? Perché mai lo standard minimo dovrebbe essere indispensabile per garantire la qualità e dignità della prestazione degli avvocati maturi e non per quella dei loro praticanti? La realtà è che di quest’ultima non vi importa nulla.
E ancora: non una parola in questo disegno di legge sul caso, ben possibile anche per un ventenne o trentenne, di una malattia più grave dell’influenza di stagione; non una parola sul versante previdenziale del rapporto! Ma ci rendiamo conto che quei primi anni, tra i 22-23 e i 25-26, ma talvolta anche i 29, 30 e oltre di età, sono anni decisivi per il futuro pensionistico dei giovani di oggi? È decente che ci preoccupiamo soltanto di porre norme che servano da sbarramento contro qualsiasi possibile pretesa dei praticanti avvocati, e ci disinteressiamo totalmente di questo loro diritto costituzionalmente garantito, il diritto a che sia predisposto un adeguato programma previdenziale per loro, anche in vista di un possibile passaggio dal mondo della libera professione ad altri comparti del tessuto produttivo, ad altri tipi di contratto di lavoro?
Ecco, in questo articolo si compendia un po’ tutto il carattere di questa legge: una legge scritta dagli insiders di oggi – anzi, di una frazione neppure maggioritaria degli insiders: quella dei più anziani e dei più legati al modello tradizionale di esercizio della professione, nel proprio esclusivo interesse, contro l’interesse degli outsiders e dei new entrants. Non è così che si promuove il prestigio della professione forense: in questo modo, anzi, lo si svilisce. Perché non c’è nulla di più importante, per la vitalità e il prestigio di una professione, che l’alleanza che in essa si instaura tra la vecchia generazione e la nuova.

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