TINAGLI: QUALI SONO GLI SCONTRI CHE ROVINANO DAVVERO LE RIFORME

I PREMI ALLA PERFORMANCE DI DOCENTI E ATENEI, CHE SECONDO I CONTESTATORI DELLA LEGGE GELMINI AFFOSSANO L’UNIVERSITA’, COSTITUISCONO INVECE UNO DEI PASSAGGI CRUCIALI DI UNA VERA RIFORMA – L’OPPOSIZIONE TRADISCE IL PROPRIO COMPITO ESSENZIALE QUANDO, IN NOME DI UNA MALINTESA RAGION POLITICA, RIIFUTA IL RAGIONAMENTO RIGOROSO SUL MERITO DEI PROVVEDIMENTI DEL GOVERNO

Articolo di Irene Tinagli pubblicato su la Stampa del 1° dicembre 2010

Dopo il movimentato travaglio delle ultime settimane è stata finalmente approvata alla Camera la Riforma dell’Università. Un risultato salutato da forti proteste, da ricercatori sui tetti, studenti sui binari e nelle piazze, con relativo spiegamento di forze e tensione alle stelle. La domanda che molti cittadini si fanno di fronte a questo drammatico acutizzarsi delle proteste è se davvero, come suggeriscono i leader dell’opposizione, questa riforma distruggerà l’Università italiana, rendendola meno competitiva, meno efficace, meno accessibile, finendo addirittura per dimezzare nei prossimi anni le già basse iscrizioni universitarie, come hanno profetizzato alcuni. No, la riforma non ucciderà l’Università italiana. Non distruggerà l’Università il fatto di aver reso a tempo determinato i contratti per ricercatori, così come avviene in tutti gli altri Paesi.
Non distruggerà l’Università aver inserito scadenze per la carica di rettore, così come non distruggerà l’Università aver inserito degli scatti salariali legati alla performance o aver aumentato l’assegnazione dei fondi alle università sulla base di valutazione. Si tratta al contrario di elementi di novità interessanti, che in passato sono stati proposti anche da esponenti dell’opposizione e che potrebbero avere effetti positivi se saranno correttamente implementati e accompagnati da decreti attuativi capaci di fare maggiore chiarezza sulle procedure e i criteri di valutazione, sulle modalità premiali e altri aspetti che il decreto ha lasciato troppo indeterminati. Certo, ci sono anche molti aspetti che lasciano perplessi, emendamenti aggiunti in corso d’opera che attenuano molto la portata innovativa dell’impostazione iniziale. E’ evidente che si tratta di una riforma frutto di numerosi compromessi, così come in fondo è normale che avvenga in democrazia. Tuttavia è difficile ravvedere nello spirito complessivo della riforma e nei suoi punti chiave qualcosa che possa veramente causare una distruzione dei diritti dei giovani, degli accademici, dei ricercatori. Semmai, l’unica cosa di cui si può accusare la riforma è di essere stata fin troppo mite nell’introduzione di criteri di valutazione e selezione più stringenti e di essersi mantenuta piuttosto garantista verso alcune fasce di accademici (inclusi i 30 mila professori assunti con le ope legis degli Anni Ottanta, mai sottoposti ad alcuna valutazione, e non toccati dalla riforma).
No, non è tanto la riforma di per sé che arrecherà danno all’Università e alla ricerca, ma due cose ben distinte. La prima è la carenza di fondi, che nonostante la riduzione dei tagli resta un problema, ma che non andrebbe mischiato con la questione delle norme introdotte dalla riforma. Si tratta infatti di battaglie che possono essere condotte su terreni distinti. Sui fondi si possono cercare soluzioni di diverso tipo, fare proposte, rinegoziare e dare nuova battaglia alla prossima Finanziaria. Lavorare per affossare invece tutta la riforma, come avrebbe voluto l’opposizione, ha tutt’altre implicazioni. La seconda cosa che arreca danno alle nostre università è l’evidente strumentalizzazione politica che si è svolta attorno a questo provvedimento, e non solo per mano dell’opposizione. La riforma è diventata strumento per dimostrazioni di forza, negoziazioni politiche, sia dentro che fuori della maggioranza, un modo per attaccare il governo, senza alcun riguardo o attenzione verso i temi veri su cui sarebbe stato necessario un confronto serio, sottratto alle ideologie di parte, alla visibilità mediatica e alla convenienza politica del momento. Invece si è preferita la strada della radicalizzazione dello scontro, della confusione, del calderone dove è stato messo tutto: dall’università a Pompei, dalla ricerca alla cultura, dalle scuole ai teatri, la musica, persino gli archivi di Stato. Non è più una protesta contro la riforma, è una protesta contro il governo. Certamente legittima, ma che sposta l’attenzione su un altro problema e non si sofferma a fare valutazioni serie sulle opportunità e i problemi legati alla riforma, a come affrontarli nel futuro, a come lavorare insieme per far sì, per esempio, che i prossimi decreti attuativi vadano nella giusta direzione, che si possano trovare nuovi fondi e nuovi modi per supportare di più la ricerca dentro e fuori le università e così via. Questa strumentalizzazione preoccupa perché non giova a nessuno, né ai giovani né al Paese. E soprattutto non rende giustizia a quei politici e parlamentari, di entrambi gli schieramenti, che in questi mesi si sono occupati in modo serio di questi temi, proponendo emendamenti non demagogici ma di sostanza e lottando per ottenerli, come aveva fatto il senatore del Pd Ignazio Marino quando era riuscito a introdurre un emendamento sul finanziamento di progetti di ricerca destinati a giovani ricercatori con criteri meritocratici. Un emendamento importante, innovativo, accolto dalla maggioranza, sul quale alla fine solo un partito ha votato contro: lo stesso Pd. Perché, come ha spiegato Bersani, se il partito è contro la riforma, la contrasta tutta. Tutta, incluse le cose positive che possono esserci, incluso il frutto del duro lavoro dei propri deputati e senatori. Ecco, questo tipo di radicalizzazioni, così come i calcoli fatti da alcuni pezzi di maggioranza per far vedere quanto conta, sono forse la cosa che fa più paura in questo momento, perché il Paese ha ancora bisogno di molte riforme, e per farle ci sarà bisogno del lavoro, dell’impegno e del senso di responsabilità di tutti.

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