LO “STATUTO” DI SACCONI, LA MOZIONE RUTELLI APPROVATA DAL SENATO E IL COLLEGATO-LAVORO

LA BOZZA DI DISEGNO DI LEGGE PRESENTATA DAL MINISTRO DEL LAVORO ALLE PARTI SOCIALI CONFERMA LA NECESSITA’ DI UN NUOVO CODICE DEL LAVORO SEMPLIFICATO, IN LINEA CON LA MOZIONE APPROVATA A LARGHISSIMA MAGGIORANZA IN PARLAMENTO IL 10 NOVEMBRE; MA INDICA SOLTANTO UNA PROSPETTIVA GENERICA, SENZA AFFRONTARE LE QUESTIONI DIFFICILI E DELICATE CHE RENDONO PROBLEMATICO L’OBIETTIVO – DOPO IL COLLEGATO-LAVORO, UN’ALTRA OCCASIONE PERSA DAL GOVERNO SU QUESTO TERRENO

Intervista a cura di Alessandro Giorgiutti, pubblicata su Libero il 19 novembre 2010 – V. anche la mozione Rutelli, approvata dal Senato il 10 novembre 2010

Ha definito la bozza di legge delega del ministro Sacconi sullo “Statuto dei lavori” troppo generica. Ma l’intenzione, sostiene il governo, è quella di fissare una cornice, lasciando la scrittura dei contenuti all’accordo delle parti sociali. Non è la strada migliore?
In larga misura sì, ma non sull’intera estensione della materia e non con una delega in bianco. Le organizzazioni sindacali di fatto rappresentano principalmente gli interessi di una frazione della forza-lavoro e degli stessi insiders: cioè gli interessi dei lavoratori stabili delle imprese medio-grandi. Poi ci sono quelli dei dipendenti delle piccole imprese, di quelli dell’economia sommersa, dei disoccupati, di chi non riesce neanche a entrare nel mercato del lavoro: gli outsiders, insomma. Anche Confindustria e Confcommercio, del resto, non rappresentano tutte le imprese nei rispettivi settori; e soprattutto non rappresentano quelle straniere che possono essere interessate a investire qui da noi.

Vede il rischio di una risposta inadeguata delle associazioni sindacali e imprenditoriali?
È giusto che la legge lasci più spazio all’autonomia collettiva, al sistema delle relazioni industriali; ed è giusto che il Governo solleciti le parti sociali a un avviso comune. Se lo daranno, dovrà essergli attribuita grande importanza, perché questo farà guadagnare effettività alla legge . Però, essendoci in gioco anche interessi che le associazioni imprenditoriali e sindacali non rappresentano, non si può attribuire loro un potere di veto. Occorre, del resto, tener conto anche della possibilità che esse non riescano a esprimere alcun avviso comune. Nel 1993, per arrivare alla firma da parte di tutti del protocollo del 23 luglio, Gino Giugni svolse un gran lavoro di preparazione e proposta, che qui mi pare manchi del tutto.

Per esempio?
Per semplificare e rendere più effettivo ed efficace il nostro diritto del lavoro occorre affrontare qualche decina di questioni difficili e delicate: primo di tutti il problema del collegamento necessario tra la disciplina dei licenziamenti e quella degli ammortizzatori sociali. Non ha molto senso che su questi temi il disegno di legge-delega si limiti a “chiedere un avviso comune” alle parti sociali, senza dare alcuna indicazione. Questo mi sembra un modo per lavarsene elegantemente le mani, più che un progetto di riforma. Poi, se posso dire, vedo un altro difetto nel disegno di legge del ministro Sacconi.

Dica pure.
Sacconi lancia questo messaggio: “decidano le parti sociali”. Bene, ma chi le rappresenta davvero le “parti sociali”? Come si fa ad affidare ad associazioni private il potere di stabilire i criteri per la negoziazione di deroghe alla legge dello Stato senza alcun filtro, senza alcuna verifica della loro rappresentatività? In realtà, a me sembra che con questa bozza di disegno di legge inviata alle parti sociali l’11 novembre scorso il ministro abbia inteso soltanto replicare, un po’ affrettatamente, alla mozione approvata dal Senato a larghissima maggioranza il giorno prima.

Quale mozione?
La mozione Rutelli, che impegna il Governo a varare un Codice del lavoro semplificato, sul modello delineato nel disegno di legge n. 1873 presentato un anno fa da me con altri 54 senatori: l’intera disciplina nazionale dei rapporti individuali di lavoro ridotta a 70 articoli del codice civile, semplicissimi, comprensibili da parte di chiunque e traducibili in inglese, in modo da essere facilmente conoscibili per gli investitori stranieri. E lì dentro c’è anche la riforma dei licenziamenti e ammortizzatori sociali secondo il modello nord-europeo della flexsecurity.

L’hanno votata anche le opposizioni?
Sì, e in modo compatto: hanno votato a favore 255 senatori. Contrari e astenuti 26 in tutto. Mi sembra un buon avvio. È la prova che ci sono non solo le premesse tecniche, ma anche le condizioni politiche per una profonda riforma del nostro diritto del lavoro. Su questo disegno le parti sociali potrebbero esprimere in modo articolato l’avviso comune contenente le loro proposte di modifica, che avranno ovviamente un peso rilevantissimo; ma anche se l’avviso comune non verrà, il legislatore deve provvedere: è un’esigenza urgente per rimettere in moto il nostro Paese, anche aprendolo agli investimenti stranieri.

Molti direttori del personale definiscono “inutile” il collegato lavoro varato nei giorni scorsi: un’occasione persa per introdurre un principio di flexsecurity in Italia. E’ d’accordo?
A me questa legge sembra un esempio di come non si dovrebbe mai legiferare: un ammasso caotico di disposizioni sulle materie più disparate, in cui una riforma del codice di procedura civile si mescola con disposizioni sui gruppi sportivi delle forze armate o sulla previdenza per gli addetti a lavori usuranti. Anche la parte più importante della nuova legge, quella sull’arbitrato, è talmente disorganica e complessa che è facile prevedere una sua ineffettività pressoché totale.

Il collegato non tocca la causale per il licenziamento. A suo avviso sarebbe opportuno eliminarla? E se sì, con quale contromisure?
Nel mio disegno di legge n. 1873 di cui parlavo prima, su cui il Senato la settimana scorsa ha manifestato un larghissimo consenso in linea di principio, la materia del licenziamento è oggetto di una profonda riforma, mirata a conciliare il massimo possibile di flessibilità delle strutture produttive con il massimo possibile di sicurezza dei lavoratori nel mercato del lavoro. L’idea è di applicare il nuovo regime a tutti i rapporti di lavoro in posizione di dipendenza economica che si costituiranno da qui in avanti, ma senza toccare quelli già esistenti.

In sintesi, come dovrebbe funzionare?
L’idea è di esentare le imprese, per i nuovi rapporti, dal controllo giudiziale sul motivo economico od organizzativo del licenziamento, in cambio della loro responsabilizzazione circa il sostegno nel mercato al lavoratore che perde il posto. Il costo per le imprese è largamente compensato dalla possibilità dell’aggiustamento industriale tempestivo. Per il primo anno il trattamento complementare di disoccupazione costerebbe davvero poco, perché il grosso lo paga già l’Inps: donde un forte incentivo per le imprese ad attivare i servizi di outplacement migliori per ricollocare i lavoratori licenziati entro il primo anno, evitando così il costo dei due anni successivi. D’altra parte, la disponibilità effettiva dei lavoratori per il processo di riqualificazione e avviamento al nuovo lavoro sarà oggetto di un adeguato potere di controllo, nel quadro di un vero e proprio “contratto di ricollocazione”.

In forza del “collegato-lavoro” i precari avranno solo 60 giorni di tempo dopo il licenziamento per fare ricorso contro la cessazione del rapporto. Una semplificazione necessaria per togliere dal capo delle imprese la spada di Damocle di un possibile ricorso, o la violazione di un diritto (giacché il precario, che spera in una nuova assunzione, non farà mai ricorso così presto)?
Ho votato contro questa norma in Senato, per disciplina di gruppo. Ma non mi sembra che questa sia una norma del tutto sbagliata: se il lavoratore ritiene che l’apposizione del termine al suo contratto sia invalida, non c’è ragione che non la impugni entro lo stesso termine di 60 giorni che si applica per l’impugnazione dei licenziamenti.

A proposito di precari, come giudica le parole del governatore Draghi sulla necessità di “stabilizzarli”? E’ una misura che in questo momento può favorire la ripresa o rischia di comprometterla?
Draghi ha sottolineato il costo grave in termini di efficienza, prima ancora che di equità, che il sistema Italia sopporta per il regime di apartheid tra protetti e non protetti che caratterizza il suo mercato del lavoro: sulla metà dei lavoratori dipendenti che operano con rapporti a termine, esternalizzati, o comunque privi di prospettiva, nessuno investe in formazione. Ma il governatore non ha parlato di estendere a tutti l’articolo 18: ha parlato di una ragionevole garanzia di stabilità che cresca col crescere dell’anzianità di servizio: esattamente quello che propongo nel disegno di legge n. 1873 di cui ho detto poco fa.

Il caso Pomigliano ha messo in luce l’importanza del tema della rappresentanza sindacale: ci spiega perché è così importante affrontare questo nodo?
Perché oggi il nostro sistema di relazioni industriali non è in grado di produrre un accordo efficace, al livello aziendale, su di un piano industriale innovativo, se non sono d’accordo tutti i sindacati firmatari del contratto collettivo nazionale. Questo genera un eccesso di vischiosità del sistema, che ostacola gli investimenti stranieri in tutti i casi in cui il piano industriale comporta scostamenti rispetto al nostro modello tradizionale di organizzazione del lavoro fatto proprio dal contratto collettivo nazionale.

I sindacati considerano questa che lei chiama “vischiosità” come antidoto indispensabile contro quella che chiamano “concorrenza tra lavoratori al ribasso”.
Non si può stabilire a priori, al livello nazionale se uno scostamento dallo standard nazionale sia “buono” o “cattivo” in una determinata situazione aziendale. In molti casi lo scostamento è indispensabile per un aumento della produttività e quindi delle retribuzioni. Se per paura delle innovazioni cattive ci chiudiamo anche a quelle buone, il risultato è che il Paese cresce molto meno di quel che potrebbe. E il sindacato rinuncia al proprio ruolo essenziale di “intelligenza collettiva”, capace di guidare i lavoratori nella scommessa sui buoni piani industriali di cui si offre loro l’occasione.

Ci riassume la sua proposta sulla riforma della rappresentanza, magari applicandola proprio al caso concreto di Pomigliano?
La mia proposta – che ho formulato compiutamente nel disegno di legge n. 1872/2009, quello contenente la parte del nuovo Codice del lavoro relativa ai rapporti sindacali – è questa: attribuire al contratto collettivo nazionale la funzione di benchmark e di disciplina “di default”, cioè di standard applicabile quando non ci sia un contratto stipulato da una coalizione sindacale adeguatamente rappresentativa a un livello più vicino al luogo di lavoro: cioè soprattutto al livello aziendale, ma anche eventualmente a quello regionale. In Germania fanno così: il sindacato effettivamente rappresentativo della maggioranza dei lavoratori può contrattare al livello aziendale una disciplina collettiva totalmente diversa da quella prevista nel contratto nazionale. Nell’economia globalizzata e con i ritmi attuali di evoluzione tecnologica, di questa regola abbiamo bisogno anche noi. E bisogno urgente, come dimostra proprio la vicenda di Pomigliano.

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