LO STATO FA TROPPO PER LA FAMIGLIA (nella direzione sbagliata)

IL SISTEMA DELLA SICUREZZA SOCIALE IN ITALIA E’ TUTTO CENTRATO SULLA STABILITA’ DEL REDDITO DEL CAPO-FAMIGLIA, IN FUNZIONE DELLA QUALE SI PAGANO DEI COSTI ENORMI, IN TERMINI DI CATTIVA ALLOCAZIONE DELLE RISORSE UMANE, BASSO TASSO DI OCCUPAZIONE FEMMINILE, SCARSA MOBILITA’ DEI LAVORATORI E DEI GIOVANI

Articolo di Andrea Ichino pubblicato sul quotidiano Il Riformista il 16 novembre 2010

         La Conferenza Nazionale di Milano ha riacceso i riflettori sui problemi delle famiglie italiane, invocando per esse maggiori aiuti dallo Stato in varie forme. C’è chi chiede più servizi sociali, chi incentivi fiscali soprattutto per le famiglie numerose, nessuno si chiede se lo Stato non stia già facendo troppo per la famiglia italiana, nel senso che quel che costosamente fa lo fa molto male, favorendo caratteristiche e comportamenti che frenano lo sviluppo del Paese.

La spesa diretta in politiche sociali per la famiglia è in Italia solo l’1% del PIL contro il 2% della media europea. Ma il “sistema Italia” sopporta costi ben maggiori per sostenere indirettamente genitori e figli conviventi. Ad esempio, il costo di efficienza che le imprese sopportano per la tutela del posto fisso e del reddito dei capi famiglia (prevalentemente maschi), attraverso la legislazione del lavoro e l’abuso, dove possibile, della cassa integrazione. È un costo che si misura in termini di posti di lavoro improduttivi tenuti in piedi a oltranza e in termini di riduzione degli incentivi ad una maggiore produttività, soprattutto nel settore pubblico. Ma questi posti fissi e poco produttivi danno sicurezza alle famiglie.

Anche la spesa pensionistica fuori controllo che consente a donne e uomini di mezza età di dedicarsi a casa e nipoti costituisce di fatto un aiuto alle famiglie che non ha pari in altri Paesi. Così come le (inefficienti) sedi locali delle università in cui i giovani italiani possono studiare (male) senza allontanarsi da casa e quindi con costi inferiori per i loro genitori.  E l’elenco potrebbe continuare.

Queste e altre forme di finanziamento implicito sono funzionali ad un sistema di welfare che proprio sulla famiglia si regge, perché così vogliono gli italiani e questo chiedono al sistema politico. Ma fare delle famiglie le agenzie di erogazione del welfare ha dei costi pesanti per la società: primo fra tutti, la sottoutilizzazione delle potenzialità del lavoro femminile, ma poi anche la struttura familiare delle aziende o l’immobilità geografica e sociale: tutte cose che noi italiani troviamo piacevoli e rassicuranti, ma che al tempo stesso ci costringono a sprecare risorse, limitando la propensione al rischio e impedendo un abbinamento efficiente tra capitale umano e occasioni di lavoro. Il risultato è un paese che non cresce, in cui il lavoro produce poco ed è pagato poco, in cui potremmo essere più produttivi ma i rischi che questo comporterebbe ci fanno preferire la comoda ovatta delle nostra economia familiare.

Preoccupa quindi che molti commentatori, in linea con il governo, auspichino ulteriori interventi nella stessa direzione. Ad esempio l’introduzione in Italia del “quoziente familiare”, ossia di un sistema di tassazione dei redditi che favorisce la natalità ma al tempo stesso induce le donne a rimanere a casa proprio per curare i figli che lo stesso sistema fiscale indurrebbe a procreare. Oppure il cosiddetto “Fattore Famiglia”, consistente essenzialmente in una sostanziosa “no tax area” proporzionale ai carichi familiari, a tutto vantaggio delle famiglie numerose.

Oggi i figli sono un scelta che i genitori possono compiere avendo a disposizione tutte le informazioni necessarie per valutarne i costi e i benefici. Non si vede quindi perché chi sceglie liberamente di avere molti figli debba ricevere sovvenzioni pubbliche a spese di chi non ne vuole avere, o peggio ancora di chi non ne può avere. D’altro canto, la sovrapopolazione mondiale (ma anche solo quella della nostra penisola: 195 persone per kmq contro 32 della media europea) rende difficile pensare ad una beneficio sociale della natalità che meriti l’incentivo pubblico. Fare più figli per pagare le pensioni dei troppi anziani non risolve il problema, perché ci vorranno almeno vent’anni perché quei figli possano lavorare, e per allora quegli anziani in eccesso non ci saranno più. E comunque, in un sistema pensionistico contributivo, il lavoro dei figli servirà a pagare le loro pensioni, non quelle della generazione precedente che ha deciso di vivere al di sopra delle sue possibilità. E se invece l’argomento a favore del fare più figli fosse mantenere un equilibrio con gli immigrati, dovremmo metterci di impegno per tornare ad avere dieci figli a coppia e allora la sovrapopolazione diventerebbe davvero un problema. Personalmente ritengo che l’immigrazione di stranieri faccia bene al paese (immaginatevi cosa succederebbe in Italia, ad esempio agli anziani, se improvvisamente tutti gli stranieri se ne tornassero a casa), ma certamente i problemi dell’immigrazione non si risolvono facendo più figli noi.

Tuttavia, quand’anche decidessimo che una maggiore natalità fa bene al Paese, difficilmente potremmo concludere che sia una buona idea indurre le donne a stare di più a casa e gli uomini a lavorare di più nel mercato, in un paese in cui solo il 46% delle donne ha un impiego retribuito. Eppure questo è esattamente il risultato che il governo otterrebbe con il sistema del quoziente familiare.

Facciamo un esempio. Supponiamo, per semplicità, che le aliquote IRPEF medie siano 5% per un reddito di 50, 10% per un reddito di 75 e 20% per un reddito pari a 100. Se in una famiglia l’uomo guadagna 100 e la moglie 50 e in un’altra guadagnano tutti e due 75, con la tassazione disgiunta la prima famiglia paga più tasse della seconda: ossia 2.5 + 20 = 22.5 contro 7.5+7.5=15. Ciò può essere visto come un’ingiustizia perché le due famiglie pur avendo lo stesso reddito totale pagano tasse diverse. Il metodo del quoziente familiare si propone di ovviare a questa ingiustizia, ma ne genera un’altra. Nella prima famiglia, con la tassazione disgiunta, se la donna, che guadagna 50, volesse lavorare di più, il suo reddito marginale verrebbe tassato al 5%, mentre con il quoziente quella stessa donna dovrebbe considerare una aliquota marginale del 10%, perché ai fini fiscali è come se il suo reddito fosse quello medio familiare, ossia 75 e non 50.

Quindi con la tassazione disgiunta, ogni euro guadagnato da moglie e marito viene tassato nello stesso modo, ma famiglie con redditi uguali possono essere tassate in modo diverso. Con il metodo del quoziente, le donne sono tassate di fatto più degli uomini, ma famiglie con redditi complessivi uguali hanno la stessa imposizione. Se riteniamo che la partecipazione al lavoro delle donne sia un obiettivo importante per il nostro paese è evidente che il metodo del quoziente familiare ci allontana da questo obiettivo, e la tassazione disgiunta è preferibile.  Meglio ancora sarebbe la tassazione differenziata a favore delle donne come proposto nei progetti di legge dei Senatori Morando e Germontani, di cui purtroppo nessuno in questi giorni ha parlato.

 

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