IL DUALISMO DEL MERCATO DEL LAVORO AFFOSSA LE CAPACITÀ COMPETITIVE DEL SISTEMA, OLTRE A PROVOCARE QUELLA TRAGICA INEGUAGLIANZA E INGIUSTIZIA SOCIALE CHE BEN CONOSCIAMO
Intervento in Senato di Enrico Morando nella discussione sul Progetto di programma nazionale di riforma per l’attuazione della Strategia per una crescita intelligente, sostenibile e inclusiva – Europa 2020 – Seduta antimeridiana del 10 novembre 2010
Signora Presidente, il Governo, per usare le parole del famoso libro del Ministro dell’economia («La paura e la speranza»), paralizzato dalla paura determinata dalle sue interne contraddizioni ed ormai sostanzialmente privo di speranza, sta facendo ogni sforzo per nasconderle al Paese, ma le novità che emergono dall’Unione europea per definire regole, sedi ed obiettivi del governo dell’economia a dimensione continentale sono davvero molto rilevanti.
Ci troviamo di fronte ad un Patto di stabilità e crescita – di questo si tratta – del tutto nuovo, orientato al superamento non solo degli squilibri delle pubbliche finanze, così come è stato fino a ieri, ma dell’economia reale nel suo complesso. Le parole chiave, quindi, del nuovo Patto di stabilità e di crescita insieme a deficit e debito pubblici, che erano le parole chiave del vecchio patto di stabilità, diventano deficit, debito, occupazione, competitività, bilancia commerciale, produttività, coesione sociale, lotta alla povertà, i dati della società e dell’economia reale.
È una novità sconvolgente, a fronte della quale la bozza di Programma nazionale di riforma di cui si sta discutendo questa mattina – e voglio ricordare che se ne sta discutendo per insistita iniziativa dell’opposizione – è il primo atto, la prima scelta nel processo di decisione del cosiddetto semestre europeo. Ecco l’altra enorme novità introdotta alla dimensione europea, in base alla quale le decisioni di bilancio e di politica economica, che verranno prese nella seconda parte dell’anno e dunque a partire dal 2011, saranno prese sulla scorta delle decisioni assunte nel semestre europeo. In sostanza, siamo di fronte alla sessione di bilancio dell’Unione europea. Cambia, di fronte a noi e in modo radicale, la realtà della gestione della politica economica e sociale.
Il Programma nazionale di riforma è una scelta ad altissimo contenuto politico, giacché si tratta di delineare puntuali obiettivi, quantitativamente definiti e dunque verificabili nel tempo, cui ispirare riforme strutturali volte al superamento dei cosiddetti colli di bottiglia, per usare l’espressione utilizzata nel documento della task force del Consiglio europeo, che restringono le potenzialità di crescita dell’Europa nel suo complesso e del nostro Paese.
Proviamo dunque ad entrare nel merito, prima individuando le esigenze del Paese e poi confrontandole con la bozza che il Governo ci ha presentato. Lo farò – mi scuso con i colleghi per la schematicità – ragionando per punti, un po’ per esigenze di tempo, che è poco, un po’ per fissare meglio i giudizi e le proposte essenziali.
Signora Presidente, prima di passare al primo punto, vorrei fare una constatazione. Ieri abbiamo fatto l’en plein, nel senso che si è registrata una grande presenza e vi è stata anche la diretta televisiva (Applausi dal Gruppo PD e del senatore Astore). C’eravamo tutti perché si trattava di discutere di un argomento cruciale, cioè cosa è accaduto quella notte, con le telefonate del Presidente del Consiglio che si raccomandava per la presunta nipote di Mubarak, e così via. Oggi discutiamo del Programma nazionale di riforma. Allora, volete avere uno specchio della crisi della politica italiana? Eccolo qua! (Applausi dai Gruppi PD e LNP e delle senatrici Rizzotti e Contini). Basta osservare quanti senatori oggi sono presenti in quest’Aula. Lo specchio della crisi della politica italiana è rappresentato da questo spettacolo indecoroso!
Ciò detto, veniamo al primo punto. L’Italia ha accumulato un enorme debito pubblico: tra i primi anni Ottanta ed il 2010 (in effetti, le fasi sono state alterne, ma possiamo prendere in esame i due dati) esso è cresciuto dal 60 per cento a quasi il 120 per cento del prodotto interno lordo, cioè è sostanzialmente raddoppiato. Nei 10 anni precedenti la crisi, l’economia italiana è cresciuta del 15 per cento contro il 25 per cento della crescita media dell’area dell’euro. Negli stessi anni, l’indice di concentrazione di Gini, che – come noto – misura il livello di disuguaglianza nel nostro Paese, è nettamente peggiorato. Inoltre, la spesa pubblica, che nel 2009 ha raggiunto ben il 52 per cento del prodotto interno lordo, appena scalfisce il livello di disuguaglianza che si può calcolare prima dell’intervento dello Stato.
Vorrei richiamare l’attenzione dei colleghi su questo punto fondamentale: spendiamo il 52 per cento del prodotto interno lordo per portare eguaglianza e per dare opportunità a coloro che altrimenti non ne avrebbero. Peccato che, misurato il livello di disuguaglianza (cioè un indicatore di opportunità) prima dell’intervento pubblico e dopo l’intervento pubblico, risulta che in Italia si registra una riduzione, la quale però non è paragonabile a quella che si ottiene negli altri Paesi europei attraverso livelli di intervento pubblico nell’economia praticamente analoghi a quelli che si realizzano in Italia.
Inoltre, in quegli stessi anni la mobilità sociale si è arrestata. La Banca d’Italia, in uno studio – non a caso, secondo me, completamente trascurato dalla politica italiana – ha dimostrato che, nel determinare il successo di un giovane, il luogo di nascita e le caratteristiche dei genitori continuano a pesare molto di più delle caratteristiche personali, come ad esempio il livello di istruzione acquisito. Quindi, la conclusione sul primo punto è che il maggiore debito pubblico non ha comportato un aumento della crescita e dell’eguaglianza.
Passo ora al secondo punto. La politica di consolidamento dei conti pubblici nel breve periodo determina inevitabilmente una minore crescita. La manovra da 25 miliardi di euro realizzata dal nostro Paese nel 2009 ha determinato una riduzione della crescita pari allo 0,5 per cento del prodotto. Quella manovra era necessaria, ma nel breve periodo le manovre di consolidamento dei conti pubblici, pur necessarie, determinano – ripeto – una riduzione della crescita. Dunque, la conclusione sul secondo punto in rapporto al primo è che, se vogliamo più crescita, più eguaglianza e più mobilità sociale, dobbiamo ridurre il debito pubblico; tuttavia, almeno nell’immediato, la riduzione del debito pubblico e del deficit fa crescere ancora meno di quanto non si cresca attualmente (peraltro, già cresciamo poco!).
Come si esce da questo circolo vizioso? Spero di essere stato chiaro nel definire i caratteri del circolo vizioso: bisogna ridurre il debito perché un enorme debito pubblico non produce una maggiore crescita né una maggiore eguaglianza; per avere più crescita e più eguaglianza bisogna ridurre il debito, ma nell’immediato se si riduce il debito vi è una crescita minore di quella che avremmo se non lo facessimo.
Questo è il circolo vizioso nel quale stiamo avvoltolati da molto tempo. Per uscire da questo circolo vizioso la risposta è una sola: serve una strategia organizzata attorno due mosse essenziali. La prima è che bisogna realizzare una vera e propria rivoluzione nella qualità della spesa pubblica per renderla più produttiva sia in termini di efficienza economica, sia in termini di eguaglianza, mentre la si stabilizza prima e la si riduce poi, visto che – ripeto – la spesa pubblica ha raggiunto il 52 per cento del prodotto interno lordo e la spesa corrente primaria negli ultimi 10 anni è aumentata del 4,6 per cento ogni anno rispetto all’anno precedente.
La seconda mossa consiste nel fatto che bisogna riconoscere priorità immediatamente a riforme che accrescano la produttività, ma non costano nell’immediato all’Erario; e queste riforme ci sono.
Quinto punto. Il Programma nazionale di riforma deve avere, dunque, questa ispirazione e deve organizzarsi attorno a questi due obiettivi. Sul lato della finanza pubblica, la ristrutturazione deve riguardare sia il lato della spesa sia il lato delle entrate. Per il resto, le riforme devono interessare profondamente, se vogliamo aumentare la produttività e la capacità competitiva del Paese, i mercati dei fattori fondamentali. Ciò, in quanto abbiamo la produttività totale dei fattori che, mentre è cresciuta moltissimo negli altri Paesi europei (ad esempio in Germania), in Italia, fatta 100 quella del 1995, in questo momento è addirittura al livello 95. In sostanza, abbiamo avuto una caduta della produttività totale dei fattori.
Quindi, le riforme devono riguardare i mercati dei fattori che, tradotto in linguaggio comprensibile, vuol dire lavoro, mercato del lavoro, energia, formazione del capitale umano, concorrenza nel cruciale settore dei servizi professionali, il in considerazione del fatto che il cattivo funzionamento di questi mercati è alla base della scarsa competitività del nostro sistema. Ecco, dunque, le riforme capaci di sciogliere il nodo della insufficiente competitività e della inaccettabile disuguaglianza che caratterizza il nostro sistema.
Vorrei insistere su un punto che riguarda la perdita di produttività. Tra il 1998 e il 2008 il costo del lavoro per unità di prodotto è aumentato del 24 per cento in Italia, del 15 per cento in Francia ed è addirittura diminuito in Germania. Sto parlando del costo del lavoro per unità di prodotto e naturalmente mi sto riferendo al settore privato. Poiché i salari in questi Paesi non sono aumentati molto da nessuna parte, se il costo del lavoro per unità di prodotto ha avuto tale andamento c’è una sola spiegazione: questo dato riflette una caduta drammatica della produttività del lavoro in Italia. Infatti, le cose sono andate in questa maniera: negli stessi anni la produttività del lavoro in Italia è aumentata del 3 per cento, in Germania del 22 per cento e in Francia del 18 per cento. Dobbiamo chiederci perché ciò sia accaduto. Il governatore della Banca d’Italia Draghi nella sua Lezione magistrale in occasione del convegno in ricordo di Giorgio Fuà, riprendendone il pensiero sul punto, ha così risposto a questa domanda: marcati e persistenti dualismi – ecco la ragione – nella dimensione delle imprese e del mercato del lavoro.
Naturalmente l’espressione è un po’ sintetica; cerchiamo di renderla più trasparente. Oggi, con riferimento alle imprese abbiamo una frattura drammatica nel nostro Paese. Abbiamo un comparto delle imprese produttive del settore manifatturiero che si sono ristrutturate e hanno fatto sacrifici drammatici. I lavoratori e gli imprenditori hanno investito ed innovato e sono diventati competitivi, ma questo comparto di medie imprese – parlo di 4000-5000 imprese che trascinano con sé nella competizione globale, vincente per loro, migliaia di piccoli e piccolissimi produttori – è completamente separato da altre imprese che lavorano esclusivamente per il mercato interno – sto parlando dei privati – riparate dal mercato interno; esse non sono chiamate a reggere la competizione e quindi vivono con livelli di produttività assolutamente bassi, e non c’è mobilità tra questi due fattori.
Il dualismo del mercato del lavoro è l’elemento dominante del mercato del lavoro italiano, e strategie di unificazione sono note, non è che non sappiamo come si faccia a procedere all’unificazione del mercato del lavoro: il fatto è che non abbiamo la forza, la politica non ha la forza di introdurre le innovazioni necessarie per affrontare questo tema e il dualismo del mercato del lavoro affossa le capacità competitive del sistema, oltre a provocare quella tragica ineguaglianza e ingiustizia sociale che ben conosciamo.
Per i servizi, per i servizi professionali, per le attività dei servizi in rete come il gas, da anni, dopo la parentesi brevissima, e non particolarmente incisiva, dei decreti Bersani, abbiamo interrotto il processo di liberalizzazione e stiamo determinando buchi nella bilancia commerciale perché non siamo in grado di introdurre riforme che non costano in queste attività di servizio, che per noi, che siamo un Paese manifatturiero, sono essenziali per fare in modo che la nostra manifattura regga la competizione globale.
Abbiamo quindi bassi investimenti in settori ad alta produttività, bassa spesa in ricerca, scarsa concorrenza: tutte cause generali che specificamente possono essere affrontate con singole riforme che non facciamo e, quindi, accompagniamo, come politica, il Paese nel suo declino.
La sostanza è che su questo punto abbiamo bisogno di una sferzata meritocratica, di competizione e di apertura, ma in Italia, nel settore pubblico, le carriere e la crescita salariale avvengono solo per anzianità. Pensiamo al settore decisivo dell’istruzione e a quello della giustizia, alla magistratura: promozioni e salari crescono e si determinano solo per anzianità. Ma dove pensiamo di poter andare se il problema, nella società della conoscenza, è competere globalmente?
In secondo luogo, nel settore privato abbiamo un presidio castale degli ingressi nelle attività da parte degli insider contro gli outsider.
Ecco le riforme che non costano di cui c’è bisogno (l’elenco è naturalmente più lungo, ma avendo poco tempo, devo terminare). Prima ancora di porci il problema – ed è questo il quinto punto signora Presidente – della coerenza tra la bozza di Programma nazionale di riforme elaborata dal Governo e questa ispirazione, una coerenza che non c’è, dobbiamo porci la domanda politica sulla capacità del Governo di elaborare prima e guidare poi la realizzazione di un progetto che abbia questa ambizione. Conosciamo tutti la risposta a questa domanda: no, il Governo Berlusconi, anche ammesso che perduri la sua preagonica resistenza, è inabile allo scopo, non è in grado di realizzare questa strategia, nemmeno di elaborarla, come abbiamo visto dal documento.
Nella coincidenza tra la formalizzazione della crisi del Governo e i giorni della presentazione del Programma nazionale di riforme è, direi quasi, icasticamente rappresentato il dramma del Paese: l’Italia è obbligata a cambiare per non declinare ma è incapace di farlo per default della politica, cioè il soggetto regista e motore del cambiamento possibile.
È per queste ragioni che abbiamo la necessità di sviluppare in queste ore qui al Senato un dibattito che ponga la crisi di Governo in atto sulle gambe di una valutazione dei problemi del Paese e delle soluzioni da dare. Noi ne abbiamo presentate, nel corso delle discussioni dell’ultimo mese, di molto puntuali e precise, ma abbiamo di fronte un Governo che non c’è, che non interloquisce con l’opposizione su questo punto per la semplice ragione che il Governo da molto tempo non c’è più: c’è Tremonti. C’è il Ministro dell’economia, che nelle sedi europee, orienta, definisce, compie delle scelte di cui io dubito che il Presidente del Consiglio sia persino materialmente informato. Quando poi c’è da firmare lo chiamano, ed egli firma, ma è del tutto evidente che non è dentro questo processo. La signora Merkel, in un Paese di pochi abitanti e di scarso rilievo economico, è stata sette ore al Bundestag a rispondere alle osservazioni di maggioranza e di opposizione sul Consiglio europeo conclusosi la scorsa settimana con decisioni di portata epocale.
In Italia, con tutto il rispetto per i Sottosegretari per l’economia che si susseguono a queste discussioni, noi abbiamo di fronte una tragedia. Il Presidente del Consiglio si occupa dei problemi che conosciamo bene, purtroppo, e il Ministro dell’economia, forse impegnato in queste riunioni europee, non trova nemmeno un minuto per venire a spiegare cosa diavolo stia facendo.
Il problema è che il Paese ha bisogno di governo. Se voi non siete in grado di garantirlo, prendetene atto, dimettetevi subito e diamo luogo ad un confronto tra forze responsabili sugli interessi del Paese, per fare in modo che il Programma nazionale di riforma, di qui ad aprile, sia elaborato da un Governo capace di fare il suo mestiere. (Applausi dal Gruppo PD e del senatore Astore. Congratulazioni).